L’11 maggio, a Milano, ha preso il via LE SEDIE, un work in progress contro la violenza di genere, della compagnia CETEC Dentro/Fuori San Vittore (Centro Europeo Teatro E Carcere), un’azione di testimonianza sociale, educativa e artistica al tempo stesso che sta riscuotendo il meritato apprezzamento. Tra le diverse storie narrate e drammatizzate nella rappresentazione teatrale messa in scena a Milano ci sono quelle di Clarissa e di Anna, due donne sorde. La storia di Clarissa è particolarmente significativa e utile a far conoscere non solo il tema della violenza, ma anche – più in generale – la condizione delle donne sorde. Dietro sua autorizzazione, siamo onorati di pubblicarla.
L’11 maggio, a Milano, ha preso il via LE SEDIE, un work in progress contro la violenza di genere, della compagnia CETEC Dentro/Fuori San Vittore (Centro Europeo Teatro E Carcere), un’azione di testimonianza sociale, educativa e artistica al tempo stesso che sta riscuotendo il meritato apprezzamento.
Nato da un gruppo di artiste, professioniste e donne impegnate sui temi della violenza di genere, il progetto intitolato LE SEDIE è diretto e coordinato dalla regista Donatella Massimilla insieme alle attrici detenute ed ex-detenute del CETEC Dentro/Fuori San Vittore, giornaliste, psicologhe, esperte di teatro accessibile. Si tratta di un’idea e di un work in progress ispirato a “la sedia” che Diana De Marchi, Presidente della Commissione Pari opportunità e Diritti civili, ha voluto vuota nel Consiglio Comunale di Milano, per ricordare in modo tangibile oltre che simbolico le tante vittime del femminicidio, le donne che quotidianamente subiscono violenza non solo in Italia, ma in tutto il mondo. Tale azione si inserisce nel movimento nazionale #PostOccupato. Un progetto di testimonianza e di prevenzione alla violenza di genere, rivolto a tutti, uomini e donne, cittadini e giovani.
LE SEDIE è un progetto teatrale itinerante che ha preso il via in occasione dell’EDGE Festival 2017 Oltre le Barriere (presso PACTA dei Teatri Salone Dini, sponsorizzato dal Municipio 5 e dalla fondazione Pio Istituto dei Sordi), e che sviluppa laboratori teatrali, performance ed installazioni in diversi luoghi della città, nei foyer dei teatri, nelle carceri.
LE SEDIE parlano sempre in modo diverso, in dialetti diversi, in lingue diverse, nei linguaggi dei segni, senza parole…
LE SEDIE danno voce, prendendo spunto da storie vere, dall’atroce quotidianità dei femminicidi letti sui giornali da noi tutti, dalle testimonianze di chi ha reagito ad abusi e violenze e ha donato pezzi di vita per dare speranza e aprire nuove strade.
LE SEDIE sono scomode, dolorose, sofferte, restituiscono le storie delle donne in modo amplificato e coinvolgente, lasciano segno e memoria per tracciare nuovi percorsi collettivi di speranza e di elaborazione del lutto.
Tra le diverse storie narrate e drammatizzate nella rappresentazione teatrale ci sono quelle di Clarissa e di Anna, due donne sorde. La storia di Clarissa è stata espressa a parole da Martina Gerosa, e tradotta nella lingua italiana dei segni (LIS) dall’interprete Sara Adobati (supportata da Rosanna Petito); quella di Anna è stata rappresentata con una pantomima realizzata assieme a Dana, un’attrice del CETEC. Il gruppo ha già iniziato a lavorare alla versione “accessibile” di uno spettacolo che verrà portato in giro in sedi e forme sempre nuove. La storia di Clarissa è particolarmente significativa e utile a far conoscere non solo il tema della violenza, ma anche – più in generale – la condizione delle donne sorde. Dietro sua autorizzazione, siamo onorati di pubblicarla. (S.L.)
STORIA DI CLARISSA
«Mi chiamo Clarissa e sono sorda. La mia sordità è di tipo congenito, cioè dalla nascita. Che cos’è la sordità? Si dice spesso che la sordità è una disabilità invisibile, difficile da mettere a fuoco in tutti i suoi aspetti. La sordità non “si vede”: è riconoscibile solo al momento di comunicare. Così le persone sorde non sempre ricevono da parte degli udenti tutte quelle attenzioni e quella disponibilità necessarie. La sordità non va intesa unicamente come patologia, focalizzando l’attenzione sugli aspetti medico-riabilitativi, un ambito nel quale occorre senz’altro impegnare energie e ricerche, ma anche e soprattutto nelle sue implicazioni sociali. Questa è infatti una disabilità molto grave in quanto colpisce la dimensione relazionale e comunicativa dell’individuo, il suo essere in società.
L’assenza di feedback uditivo nelle persone nate o divenute sorde nei primi anni di vita impedisce infatti l’acquisizione spontanea del linguaggio parlato, e di conseguenza l’apprendimento della lingua parlata e scritta può avvenire solo attraverso un lungo percorso di riabilitazione logopedica.
Il metodo riabilitativo perseguito dalla mia famiglia è stato l’oralismo. In seguito, già maggiorenne mi sono avvicinata a quella che è la mia lingua più diretta, cioè alla Lingua dei Segni, e ho scoperto una comunità e una cultura che ha fatto nascere al suo interno questa lingua per veicolare i contenuti, le emozioni e le esperienze. Così sono oggi sono una persona sorda che può essere definita bilingue, capace di comunicare utilizzando due lingue: l’italiano e la lingua dei segni a seconda del mio interlocutore. Come ben si sa, essere una persona bilingue non è solo saper “parlare” due o più lingue in maniera corretta, ma è anche conoscere le culture e le comunità che le utilizzano.
Mi sono laureata in Scienze Motorie e Sportive e ho conseguito una specializzazione in Ginnastica Adattativa e Preventiva. Dal mio primo incontro con la Lingua dei Segni ad oggi, il mio percorso mi ha portato a rivestire il ruolo di Presidente dell’ENS, cioè Ente Nazionale Sordi, della sezione provinciale di Perugia. Questa doppia esperienza con il mondo degli udenti e con quello dei sordi mi ha reso consapevole dell’importanza dell’integrazione tra le due comunità.
Nel novembre 2014 a Siena si è tenuto il 1° Convegno Internazionale sulla violenza contro le donne sorde, organizzato da Mason Perkins Deafness Fund in occasione della “Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”, affrontando il tema da una prospettiva ancor più specifica, cioè quella della violenza contro le donne sorde.
Valentina Foa, psicologa e consulente sorda, una delle relatrici del convegno, ha ricordato che “la violenza sulle donne è sempre esistita, qualunque sia la provenienza e la cultura delle donne di tutto il mondo. Parlare di violenza sulle donne sorde, vuol dire mettere l’accento sull’esistenza di una doppia discriminazione nei confronti di persone che sono allo stesso tempo donne e disabili”.
Una violenza che può essere sessuale o fisica, ma anche verbale, psicologica e sociale. Secondo la Foa “essere donna sorda, oggi, vuol dire essere soggette a violenza ogni volta che viene negata la possibilità di partecipare alle attività sociali (scuola, lavoro e tempo libero) a causa delle barriere comunicative e dei pregiudizi affibbiati alla sordità stessa”.
Come membro dell’ENS provinciale di Perugia, dove sono stata impegnata per 10 anni come vicepresidente e presidente, ma prima ancora come donna sorda condivido questa riflessione, perché molte volte, nel mio ruolo istituzionale e non solo, ascolto o vengo a conoscenza di storie di violenza a tutti i livelli.
Per questo, quando si parla di integrazione, si dovrebbe parlare di conoscenza della lingua, della cultura e del modo di vedere e scoprire il mondo della persona sorda e, a livello istituzionale, si dovrebbe parlare di riconoscimento della lingua dei segni. Il riconoscimento della propria lingua porta con sé il riconoscimento di un’identità, di un valore della persona. E il valore porta con sé la stima di se stessi, fondamentale per reagire a qualsiasi sopruso, sfruttamento ed emarginazione!
Come si possono esprimere le proprie emozioni, o le proprie paure, o le proprie richieste o chiedere aiuto se si deve “parlare” usando una lingua che non è propria?
La possibilità di comunicare ha un ruolo fondamentale nel dibattito sulla violenza contro le donne sorde! Molto spesso la donna sorda che va in un centro anti-violenza, non riesce a comunicare come vorrebbe, perché non può utilizzare la lingua dei segni con tutta la profondità che può avere. Come ha sottolineato ancora la Foa al convegno di Siena, “Purtroppo le donne sorde hanno spesso la consapevolezza che le risposte che sperano di ottenere dalle istituzioni nate per proteggerle, non sono all’altezza per mancanza di servizi a loro dedicati.”
Ma quante donne sorde sono vittima di violenze? Se esistono dei dati relativi alla violenza contro le donne in generale (in Italia una donna su tre tra i 16 e i 74 anni è stata vittima dell’aggressività di un uomo), ad oggi non esistono statistiche né in Italia né nel resto del mondo riferite alla comunità femminile sorda, ma solo alcuni studi possono confermare la portata del problema.
La studiosa Sabine Fries, ricercatrice presso la Humbold University of Berlin, durante il suo intervento al convegno di Siena ha riportato i dati dello studio dai lei condotto su un campione di 12 donne tedesche sorde e vittime di violenza e rivela che le donne sorde rappresentano il gruppo di donne con disabilità fra i più colpiti da episodi di violenza, che non è solo sessuale, ma anche psicologica e discriminatoria, e che viene consumata negli Istituti, dagli insegnanti, ma anche fra sordi stessi e all’interno della coppia costituita da coniugi entrambi sordi.
Questo accade anche oggi in Umbria a ragazzine e/o a donne adulte sorde nel mondo della scuola o nel mondo del lavoro. Per farsi accettare, non essere lasciate nel loro silenzio o discriminate, si autoconvincono che non c’è altra strada che dare il loro corpo in cambio. Ma così cadono vittime di abusi e prostituzione. Questo accade perché qui in Umbria, come in altre parti d’Italia, mancano servizi accessibili ed una conoscenza, anche minima, dei risvolti sociali, psicologici e linguistici della sordità. Chiedere un consulto psicologico, o rivolgersi ad un consultorio è molto difficile sia per le difficoltà di comunicazione, sia per la naturale diffidenza dei sordi verso il mondo, sia per la paura di cosa possa succedere poi.
Ciò che dico è frutto della mia esperienza personale e del lavoro psicologico che ho dovuto fare per poter oggi parlarne apertamente senza tabù. Quella paura di cosa sarebbe successo se avessi parlato e raccontato quello che mi stavano facendo, quella paura oggi non c’è più! Quest’occasione mi è sembrata quella giusta per raccontare quello che ho subito e dare il mio esempio che dalle violenze, qualunque esse siano, ci si può difendere.
La mia storia comincia anni fa, proprio nel periodo delle scuole medie con alcuni miei coetanei. Avevo un’amica, o in quel periodo la consideravo tale, di 12 anni, che avevo conosciuto tramite i miei parenti. Lei mi ripeteva sempre che ero una bambina che per diventare grande dovevo iniziare a fumare e fare un po’ più la “zoccola”. Nella mia ingenuità e nella mia solitudine ho creduto ai suoi consigli, visto che una persona amica non può volere il tuo male! In seguito mi sono trovata in un inferno! Proprio lei mi ha presentato il primo ragazzino che ha iniziato a toccarmi, poi il secondo e così via. All’inizio non capivo poi ho realizzato che mi stavano usando! Come succede in un piccolo quartiere o in un piccolo paese le “voci corrono” e tra i ragazzi della scuola media si era sparsa la voce!
Hanno iniziato a prendermi in giro ad insultarmi chiamandomi “puttana”, “troia”, ecc. …, e scrivendolo sui muri e mi sputavano addosso quando passavo vicino a loro.
Gli insegnanti non sono stati in grado di capire la gravità della situazione, o non l’hanno voluta capire, e non sono stati capaci di difendermi. In classe ero messa da parte visto che ero sorda, chiusa nel mio silenzio, e forse mi consideravano una “scema” che non si poteva difendere.
Poi ogni volta che i ragazzi mi incontravano per strada mi prendevano con forza e mi obbligavano a fare quello che gli andava, dicendomi che se non lo facevo avrebbero raccontato in giro di me! Era come pagare il loro silenzio! Far tacere quelle voci sul mio conto che io non percepivo ma solo vedevo scritte sui muri o pronunciate sulle labbra di quegli stessi ragazzini che abusavano di me. A volte per mettermi più paura mi schiaffeggiavano.
Questa storia è durata un anno e mezzo. All’inizio ho cercato di dire qualcosa ai miei, ma, con il passare del tempo, la paura e la vergogna sono aumentate fino a non avere più il coraggio di raccontare quello che mi stava succedendo. Alla fine mi sono rinchiusa nel mio silenzio.
Inoltre gli stessi professori rassicuravano i miei genitori, dicendo che dovevo imparare a cavarmela da sola, ad affrontare i problemi da sola per poter crescere e diventare autonoma!
Per fortuna mia madre si è accorta che la situazione non era così semplice come l’avevano descritta, che anzi che era molto seria. Perciò si è subito attivata ed è andata a parlare con la dirigenza della scuola per intervenire e far cessare quelle molestie. Dopo questo, gli abusi e gli insulti sono cessati, ma le voci hanno continuato a girare!
La rabbia di aver subito quegli abusi, quelle offese mi ha accompagnato per anni e ho faticato molto per poterla riconoscere, accettare e superare. È stato molto doloroso, soprattutto perché capisci che sono cicatrici che ti resteranno dentro e mai se ne andranno, perché capisci che quegli “individui” non saranno mai puniti! Dopo 23 anni quei ragazzini che hanno abusato di me non potevo più denunciarli!
Comunque ho la mia rivincita! Perché?
Ora, ogni volta che incontro questi “ragazzini”, ormai diventati uomini, mariti e padri di famiglia, abbassano lo sguardo per non incrociare il mio.
Ora, sono qui a raccontarvi la mia storia senza più vergogna, consapevole che sono stata una vittima, ma ora non lo sono più!
Purtroppo in molti casi affrontare le proprie paure, la difficoltà di comunicazione con persone che non conoscono né la lingua dei segni né la cultura che la sottende, i pregiudizi che vedi stampati spesso sui volti delle persone che incontri, i tabù o i pudori che la persona stessa ha accumulato nel corso della sua vita, ecc. …pensando che “succeda solo a te”, sono “montagne” che da soli sembrano insormontabili!
A volte vengono creati strumenti pensati per la maggioranza della popolazione, come il telefono rosa, a cui le donne sorde non possono accedere. In più oggi sono nate nuove forme di violenza, meno riconoscibili rispetto alla violenza fisica e che sfruttano, ad esempio, i social network. Si tratta in questo caso di una violenza psicologica che accentua il pregiudizio e spesso agisce proprio sulla rispettabilità di una donna, ancor più se sorda visto che appartiene ad una piccola comunità.
La mia storia sia un monito per genitori, familiari e insegnanti a vigilare affinché nessun’altra bambina o ragazza o donna sorda o con qualsiasi altra disabilità debba vivere tali esperienze!»
Nota: il centro Informare un’h ringrazia Martina Gerosa (architetta-urbanista, esperta di comunicazione, disability manager) per averci messo in contatto con Clarissa, e per averci segnalato la pregevole iniziativa de LE SEDIE.
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Data di creazione: 1 giugno 2017
Ultimo aggiornamento il 30 Settembre 2023 da Simona