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Riflessioni su rappresentanza, associazionismo e autismo

di Gianfranco Vitale*

«In base a quale legittimazione, e a nome di chi, si sostiene (oggi) in articoli di stampa e social, e (domani) davanti ai Tavoli Istituzionali, il mantenimento dell’istituzionalizzazione invece di promuoverne il superamento? E ancora: esiste o no un conflitto di interessi tra il ruolo di advocacy e quello di gestore di servizi?», sono due delle questioni poste da Gianfranco Vitale in questa lucida riflessione sulla rappresentanza, che prende spunto da quanto accade nell’associazionismo nell’area dell’autismo, ma si presta a una lettura ben più ampia.

Una realizzazione grafica dedicata al Progetto Individuale di Vita per persone con autismo.

Nei tavoli istituzionali sull’autismo assistiamo sempre più spesso a un fenomeno paradossale: micro-associazioni composte da pochissime persone che si autoproclamano “rappresentative” della comunità. In realtà nessuno le ha mai scelte, eppure il loro voto conta quanto quello di realtà con centinaia di famiglie alle spalle.
La verità è che queste “nano-associazioni” finiscono spesso per agire come “associazioni civetta”: piccoli satelliti manovrati dalle grandi organizzazioni, utili a moltiplicare voti e silenziare le voci critiche. Un vero “cavallo di Troia” che svuota la partecipazione e trucca il confronto.
Qui non si discute del valore delle minoranze, che meritano rispetto e ascolto. Si discute della pratica minoritaria, che falsifica il confronto democratico e trasforma la rappresentanza in una pura finzione.
Questa pratica, pur legittima sul piano formale, solleva gravi problemi etici, politici e democratici.

È vero: secondo il Codice del Terzo Settore (Decreto Legislativo 117/2017, articolo 4 e seguenti), è possibile costituire un’APS [Associazione di Promozione Sociale, N.d.R.] anche con un numero limitato di soci, e ottenere l’iscrizione al RUNTS [Registro Unico Nazionale del Terzo Settore, N.d.R.]. Ma l’accesso ai tavoli pubblici, specialmente quelli deputati alla co-programmazione e co-progettazione dei servizi (come previsto dagli articoli 55 e 56 del medesimo Decreto), richiede ben altro: capacità progettuale, radicamento, legittimazione sociale.
Il Decreto Ministeriale 72/2021 (Linee guida sul rapporto tra pubbliche amministrazioni ed enti del Terzo settore negli articoli 55-57 del D.lgs. 117/2017), che stabilisce le linee guida per il coinvolgimento degli Enti del Terzo Settore nella programmazione pubblica, parla chiaro: le istituzioni devono coinvolgere solo gli enti «rilevanti e rappresentativi», cioè quelli che dimostrano un’effettiva capacità di dare voce ai bisogni della comunità. È il caso di queste micro associazioni, davvero?

Una vera rappresentanza non si misura con l’autodichiarazione, ma con alcuni criteri sostanziali:
° numero e pluralità degli associati, con meccanismi di partecipazione democratica;
° radicamento reale sul territorio e riconoscibilità nel mondo della disabilità;
° esperienza maturata, tramite progetti, advocacy, attività concrete;
° capacità di costruire reti e collaborazioni, evitando l’isolamento autoreferenziale;
° trasparenza nei bilanci, nella governance e nei processi decisionali (si veda la Legge 328/2000Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, in particolare all’articolo 1, Princìpi generali) e all’articolo 8, Concertazione).
Quando questi elementi mancano, chi parla “a nome degli altri” lo fa senza un vero mandato collettivo. È questo il cuore del problema: la confusione tra rappresentanza legale e legittimazione democratica.
A questa sostanziale contraddizione si aggiunge un’altra criticità: la frammentazione del mondo associativo. Là dove ogni gruppo pretende di rappresentare tutto e tutti, anche con basi deboli o minime, si genera un panorama diviso, competitivo, segnato da logiche di contrapposizione piuttosto che di collaborazione (per un’analisi critica sul rischio di frammentazione dell’associazionismo, si veda anche: M. Ambrosini, Il pluralismo dell’associazionismo sociale: risorsa o limite?, in «Studi di Sociologia, n. 3/2019).
La tentazione di “difendere il proprio orticello” — il proprio piccolo spazio di visibilità o influenza — rischia di frammentare le energie, alimentare conflitti sterili e soprattutto indebolire la capacità collettiva di fare pressione sulle Istituzioni.
La mia è solo un’ipotesi accademica, o potrebbe essere valutata da chi ha l’autorevolezza per disciplinare la materia? Si potrebbe consentire alle micro-associazioni di partecipare ai Tavoli con piena libertà di intervento, ma senza diritto di voto. In questo modo ogni voce sarebbe ascoltata, ma si eviterebbe che realtà prive di reale rappresentanza alterassero l’equilibrio democratico delle decisioni (sul concetto di legittimazione democratica nelle organizzazioni del Terzo Settore, si veda anche: G. Arena, Cittadini attivi. Un altro modo di pensare all’Italia, Laterza, 2006).

Ma la domanda che mi sta più a cuore è: cosa serve davvero per essere considerati rappresentativi e quindi ammessi con diritto di voto? Non bastano ampiezza di rappresentanza, solidità strutturale ed esperienza sul campo. Servono anche garanzie ulteriori:
° trasparenza nell’operare,
° gestione democratica,
° assenza di conflitti d’interesse,
° collaborazione attiva con altre realtà del terzo settore,
° coerenza con i valori e gli obiettivi di riferimento nazionali e sovranazionali (come quelli dell’ONU).
Solo rispettando tutti questi parametri la partecipazione può creare sinergie autentiche e massimizzare l’impatto collettivo.
Chi rappresenta deve prima di tutto ascoltare. E ascoltare non vuol dire parlare solo con chi la pensa allo stesso modo, ma creare spazi di consultazione vera, all’interno e all’esterno, anche conflittuali, anche scomodi.
La rappresentanza è un compito, non una bandiera da esibire. E comporta il dovere di non oscurare altre voci, di non appropriarsi del pluralismo che anima il mondo dell’autismo, e di non trasformare le differenze in lacerazioni.
È fondamentale che, all’interno di ogni Associazione – e a maggior ragione di quelle che hanno maggiore rappresentatività – le decisioni non siano frutto di scelte unilaterali, ma il risultato di un confronto ampio e partecipato. Solo così si evita il sospetto di atteggiamenti leaderistici e si garantisce che chi prende la parola o scrive lo faccia davvero a nome dell’intera Associazione, esprimendone la linea condivisa. Questo è ancora più importante quando si affrontano temi delicati: occorre che la posizione sia chiara, in linea col diritto interno e internazionale, riconosciuta e sostenuta da tutti, per prevenire confusioni o polemiche verso l’esterno.

I diritti umani e le libertà fondamentali non sono un optional, ma spettano a ogni persona semplicemente perché è un essere umano. Non possono essere messi in discussione o trattati come merce di scambio: limitarli o negarli significa commettere una violazione.
La rappresentatività, tanto più se fondata solo sui numeri, non può mai, in altre parole, essere interpretata come un diritto esclusivo o una verità assoluta né trasformarsi in egotismo.
L’egotismo, in àmbito psicologico, si riferisce – come molti sanno – a una eccessiva stima di sé e alla tendenza a parlare principalmente di sé, considerando le proprie esperienze e opinioni come le uniche valide. Al contrario, io dico che chi ha una posizione di forza ha anche la responsabilità di farsi ponte verso istanze differenti, legittime (come in questo caso) e radicate, che altrimenti rischierebbero di restare invisibili. Una rappresentanza che non si apre all’ascolto e alla mediazione, e vive di puro settarismo, è destinata a perdere senso democratico e forza etica.

Le Associazioni che si candidano a rappresentare una collettività hanno il dovere di rendere conto pubblicamente della propria legittimazione. Devono chiarire come individuano le priorità da portare ai tavoli istituzionali e in che modo restituiscono alla comunità gli esiti delle decisioni assunte.
Chi sono — e quanti sono — gli autistici e i caregiver che, attraverso un confronto democratico e trasparente, hanno conferito loro il mandato di rappresentanza? In base a quale legittimazione, e a nome di chi, si sostiene (oggi) in articoli di stampa e social, e (domani) davanti ai Tavoli Istituzionali, il mantenimento dell’istituzionalizzazione invece di promuoverne il superamento?
E ancora: esiste o no un conflitto di interessi tra il ruolo di advocacy e quello di gestore di servizi? (Sul punto, il paragrafo 34 delle Linee guida sulla deistituzionalizzazione, anche in caso di emergenza**, pubblicate nel 2022 dal Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità resta un passaggio ineludibile).
Se queste domande restano senza risposta, non si tratta di rappresentanza, ma di decisionismo opaco e sterile divismo.
Ancora una volta penso all’importanza di avviare e approfondire una riflessione seria sul tema oggetto di questo intervento: rappresentanza, associazionismo e autismo. Serve, oggi più che mai, essere incisivi verso le Istituzioni pubbliche affinché:
° verifichino i criteri di rappresentatività reale delle associazioni invitate ai tavoli;
° privilegino la partecipazione di reti e coalizioni, piuttosto che singoli soggetti isolati;
° sostengano il confronto tra le Associazioni, affinché la frammentazione non si traduca in debolezza.
Le stesse Associazioni sono chiamate a una responsabilità ulteriore: non pretendere rappresentanza senza legittimazione, non agire come se l’APS fosse una proprietà privata, ma al contrario aprire le porte alla pluralità, al dissenso, alla costruzione comune.
Perché solo così potranno parlare davvero a nome di chi, troppo spesso, non ha voce.

 

* Il presente testo è già stato pubblicato sulla testata «Superando», e viene qui ripreso, con lievi adattamenti al diverso contesto, per gentile concessione.

** Le Linee guida, pubblicate dal Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, precisano che gli Stati devono impegnarsi per realizzare il diritto delle persone con disabilità a vivere in modo indipendente e ad essere incluse nella comunità, anche in situazioni di emergenza. Il documento di 20 pagine offre indicazioni sul rispetto del diritto di scelta, sul coinvolgimento delle persone con disabilità e delle loro organizzazioni, sull’adozione di un approccio intersezionale per affrontare la discriminazione, sulla necessità di quadri giuridici e politici per la piena inclusione, sull’allocazione delle risorse e sul monitoraggio dei processi di deistituzionalizzazione, tra gli altri aspetti.

 

Ultimo aggiornamento il 11 Settembre 2025 da Simona