Ogni tanto mi sorprendo ad aspettare che le donne con disabilità, orfane di un femminismo che le ha considerate ben poco, diventino “genitrici di sé stesse”. Che riguardo al tema “genere e disabilità” passino dal «me ne occupo se capita», al «faccio in modo che capiti, perché ho capito che devo impegnarmi personalmente nelle cose che mi riguardano». Che spostino il tema dal cassetto delle “varie ed eventuali”, dove troppo spesso tendono a riporlo, a quello delle priorità.
«Il modo più diffuso col quale la gente rinuncia al proprio potere è col pensare di non averne alcuno.» Questa acuta osservazione è di Alice Walker, una scrittrice femminista statunitense, attivista per i diritti delle donne afroamericane e delle lesbiche. Mentre la leggo penso a quanto essa sia drammaticamente vera per le donne con disabilità, almeno qui Italia, dove il tema “genere e disabilità” non ha ancora avuto la forza di creare un movimento degno di questo nome; dove chi ha redatto il “Secondo programma di azione biennale per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità” (approvato e promulgato nel 2017) ha ritenuto di poter ignorare completamente il fenomeno della violenza sulle donne (sebbene le donne con disabilità vi siano più esposte delle altre); dove è abbastanza difficile trovare donne con disabilità che avanzino proposte politiche in quanto donne con disabilità, e non in quanto persone con disabilità.
Perché accade tutto questo? Perché le donne con disabilità non fanno sentire la propria voce? Perché si comportano come se non avessero percezione della discriminazione multipla che le colpisce? Probabilmente le motivazioni sono diverse, ma una delle più influenti potrebbe essere proprio quella che prendo in prestito da Walker: non pensano di avere alcun potere.
Di che potere sto parlando? Quello di esprimere la competenza ingenerata dall’essere simultaneamente donne e persone con la disabilità, di manifestare una personale e peculiare visione di mondo, di rivendicare i propri diritti di donne con disabilità, di inseguire i propri desideri anche quando le aspettative, spesso stereotipate, le condurrebbero in altre direzioni e le vorrebbero accondiscendenti. Nessuno/a può sostituirsi a loro nel fare queste cose. Queste competenze sono un potere. Il potere di incidere sulla propria vita.
Esistono, questo è vero, diversi livelli di competenza. C’è la competenza diretta, quella che matura chi vive personalmente una determinata condizione, che è una competenza primaria ed insostituibile, anche se, se non integrata con altre fonti, può essere parziale. Una donna con disabilità con una patologia neuromuscolare, ad esempio, potrebbe sapere tutto delle esigenze delle altre donne con la sua stessa patologia, ma non sapere niente delle donne con mielolesione, delle donne con disabilità sensoriale, o di quelle con disabilità intellettive o psichiatriche. Ciò nonostante le competenze di ciascuna di esse sono primarie e insostituibili. Ci può essere poi una competenza che deriva dallo studio e dal confronto. È quella per cui, ad esempio, anche chi non è donna, non ha una disabilità, non è omosessuale, non appartiene a una data minoranza, studiando e confrontandosi con chi invece possiede le caratteristiche ipotizzate può farsi un’idea, anche buona, delle situazioni che da quelle caratteristiche possono scaturire. Questa, pur non essendo una competenza diretta, non è una competenza di poco valore, anzi, la circostanza di non essere parte in causa può consentire a chi la possiede una maggiore lucidità di analisi rispetto a chi è personalmente coinvolto in un dato fenomeno. E tuttavia questa competenza non può fare a meno di attingere alla competenza primaria, e certamente non può essere utilizzata per sostituirsi agli/alle interessati/e nelle decisioni che riguardano le loro vite. Ciò costituirebbe un abuso di potere. Per questo motivo chi deve definire le politiche e i servizi per le persone con disabilità, chi progetta gli ambienti (privati e pubblici), chiunque svolga un’attività rivolta alla popolazione, non dovrebbe mai scordarsi di sollecitare l’espressione del un punto di vista, quello femminile, che non sempre coincide con quello degli uomini con disabilità.
Vi è poi un altro aspetto da considerare. C’è una certa riluttanza delle donne con disabilità ad impegnarsi nella rivendicazione dei temi legati al genere un po’ perché molto spesso non sono state educate a riflettere in termini di genere, ma anche perché – erroneamente – li considerano meno influenti sulle loro vite rispetto ad altri, come, ad esempio, rivendicare l’assistenza personale autogestita per condurre una vita indipendente, o l’eliminazione delle barriere architettoniche. A parte l’osservazione non scontata che anche questi due temi possono e dovrebbero essere declinati in prospettiva di genere, quando le donne con disabilità hanno avuto l’acume di proporre le loro istanze partendo proprio dalla loro duplice appartenenza a gruppi soggetti a discriminazione, qualcosa è stato ottenuto. Il percorso “Rosa Point”, ad esempio, un servizio ostetrico-ginecologico dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Careggi (Firenze) rivolto alle donne con disabilità motoria e sensoriale, nasce proprio dietro sollecitazione di alcune donne con disabilità motoria che volevano servizi sanitari più consoni alle loro esigenze. Il servizio offre percorsi diagnostico-terapeutici inerenti le problematiche ostetrico-ginecologiche, la prevenzione oncologica dei tumori della mammella e dell’apparato genitale femminile, le gravidanze a rischio… tutti aspetti innegabilmente impattanti sulla vita delle donne (anche disabili).
Qualche considerazione andrebbe spesa anche sul tipo di attività nelle quali le donne, non solo le più giovani, sono disponibili a farsi coinvolgere. Prediligono, ad esempio, scendere in piazza per il Disability Pride, sfoderando con orgoglio il diritto di essere cittadini/e tra cittadini/e, oppure realizzare filmati, o iniziative che uniscono l’impegno all’allegria, alla musica, al colore. E va bene, ci mancherebbe, ben vengano. Raccontare la voglia di vivere, comunicarla con formule innovative e dinamiche, non è solo utile e positivo, è senza ombra di dubbio rigenerante. Datemi la vita, e io me la mangio a morsi! Che palle le riunioni operative! La vita è altro.
Questo modo di guardare le cose mi fa venire in mente l’ultima risposta a un’intervista che David Foster Wallace, uno scrittore statunitense ormai scomparso (1962-2008), rilasciò nel 1993 a Larry McCaffery per la «Review of Contemporary Fiction»: «sei alle superiori e i tuoi genitori partono e tu organizzi una festa. Chiami tutti i tuoi amici e metti su questo selvaggio, disgustoso, favoloso party, e per un po’ va benissimo, è sfrenato e liberatorio, l’autorità parentale se ne è andata, è spodestata, il gatto è via e i topi gozzovigliano nel dionisiaco. Ma poi il tempo passa e il party si fa sempre più chiassoso, e le droghe finiscono, e nessuno ha soldi per comprarne altre, e le cose cominciano a rompersi o rovesciarsi, e ci sono bruciature di sigaretta sul sofà, e tu sei il padrone di casa, è anche casa tua, così, pian piano, cominci a desiderare che i tuoi genitori tornino e ristabiliscano un po’ di ordine, cazzo… Non è una similitudine perfetta, ma è come mi sento, è come sento la mia generazione di scrittori e intellettuali o qualunque cosa siano, sento che sono le tre del mattino e il sofà è bruciacchiato e qualcuno ha vomitato nel portaombrelli e noi vorremmo che la baldoria finisse. L’opera di parricidio compiuta dai fondatori del postmoderno è stata importante, ma il parricidio genera orfani, e nessuna baldoria può compensare il fatto che gli scrittori della mia età sono stati orfani letterari negli anni della loro formazione. Stiamo sperando che i genitori tornino, e chiaramente questa voglia ci mette a disagio, voglio dire: c’è qualcosa che non va in noi? Cosa siamo, delle mezze seghe? Non sarà che abbiamo bisogno di autorità e paletti? E poi arriva il disagio più acuto, quando lentamente ci rendiamo conto che in realtà i genitori non torneranno più – e che noi dovremo essere i genitori.»
Ecco, Wallace descrive lo sconcerto e l’imbarazzo di chi (nel suo caso lo scrittore) scopre di non potersi sottrarre alla responsabilità di sé (dover essere “genitore di sé stesso”); analogamente io ogni tanto mi sorprendo ad aspettare che anche le donne con disabilità, orfane di un femminismo che le ha considerate ben poco, diventino “genitrici di sé stesse”. Che riguardo al tema “genere e disabilità” passino dal «me ne occupo se capita», al «faccio in modo che capiti, perché ho capito che devo impegnarmi personalmente nelle cose che mi riguardano». Che spostino il tema dal cassetto delle “varie ed eventuali”, dove troppo spesso tendono a riporlo, a quello delle priorità. Perché dovrebbero farlo? Perché è nel loro interesse, e se loro per prime non prestano attenzione a riguardo, è abbastanza irrealistico aspettarsi che lo faccia qualcun altro/a; perché questo farebbe la differenza; perché solitamente lavorare con impegno e costanza alla costruzione di un disegno di libertà è fonte di autostima, gratificazione e senso. E se a qualcuna queste ricompense potrebbero sembrare astratte, magari qualcun’altra potrebbe trovarle vere, motivanti e persino seducenti… fare cose sensate, in quest’epoca pervasa dall’irrazionalità, ha un fascino salvifico.
Simona Lancioni
Responsabile del centro Informare un’h di Peccioli (PI)
Vedi anche:
Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “Donne con disabilità”.
Ultimo aggiornamento: 27 luglio 2018
Ultimo aggiornamento il 5 Agosto 2018 da Simona