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Il pensabile e l’inenunciabile. Note sull’h-apartheid

di Ciro Tarantino*

Il confronto pubblico sul tema della deistituzionalizzazione si arricchisce di un apporto di taglio accademico. È davvero un onore ospitare questo contributo di Ciro Tarantino, professore di Sociologia del diritto presso l’Università degli Studi di Napoli Suor Orsola Benincasa, che illustra i meccanismi attraverso i quali ancora oggi, nella nostra società, alle persone con disabilità continuano ad essere proposte soluzioni proprie del paradigma segregazionista e asilare, ormai incompatibili logicamente e giuridicamente con la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità.

 

Particolare di una bambina in sedia a rotelle vestita da fata (foto di Cottonbro Studio su Pexels).

1 La teoria

A partire dall’ultimo quarto del Novecento, in Nord America e in una porzione consistente dell’Europa occidentale, si espande e si consolida progressivamente un nuovo discorso sulla disabilità di ordine marcatamente emancipatorio. La cartografia storica di questa trasformazione è ancora molto approssimativa, ma rispetto al suo perimetro bisogna quantomeno ricordare che, fino a quel momento, l’Europa contiene ancora al suo interno ampie sacche di regimi dittatoriali in cui i processi di innesco del cambiamento si sono necessariamente dovuti distribuire su di un diverso calendario: fino al 1974, infatti, sono dittature la Grecia e il Portogallo, e la Spagna è una dittatura fino al 1975. È indicativa, in questo senso, la vicenda della colonia per psicopatici di Leros – piccola isola greca nell’arcipelago del Dodecanneso utilizzata dal 1958 per concentrare in condizioni atroci gli internati ingestibili degli altri manicomi greci –, la cui destituzione è stata avviata solo all’inizio degli anni Novanta.

Relativamente alla sua struttura, il nuovo discorso si fonda su due pilastri complementari: la critica della segregazione delle persone con disabilità e la rivendicazione della loro indipendenza.

Si tratta di due istanze che contestano puntualmente i cardini dell’ordine discorsivo fino ad allora dominante nel governo socioassistenziale di quella serie di esperienze del limite che da qualche tempo raccogliamo sotto il termine «disabilità».

Quanto al primo punto, ovvero la critica dei regimi segregazionisti, questa si sviluppa lungo due direttrici: l’asse del rifiuto delle pratiche di apartheid nei confronti delle persone con disabilità e l’asse della contestazione delle pratiche di relegazione asilare.

La critica dell’apartheid si sostanzia nella contestazione di una circolazione differenziale delle esistenze in funzione della quale le persone con disabilità dovrebbero svolgere tutta o parte significativa della propria vita in circuiti separati e riservati. Le persone con disabilità rivendicano, invece, il diritto all’attraversabilità degli stessi spazi e all’occupabilità degli stessi posti in cui si muove il resto della popolazione; chiedono, dunque, che esista un unico spazio sociale omogeneo in cui tutte le persone – con o senza disabilità – possano circolare e distribuirsi liberamente. Chiaramente si tratta di una rivendicazione articolata che investe tanto lo spazio fisico quanto quello politico e sociale. Le persone con disabilità hanno appena iniziato la conquista dello spazio[1].
Le prime e più significative rivendicazioni riguardano lo spazio lavorativo e quello educativo. Le persone con disabilità chiedono di poter partecipare ai circuiti ordinari del lavoro e dell’istruzione da cui erano normalmente escluse.
In Italia le contestazioni, iniziate sul finire degli anni Sessanta, innescano processi di riforma legislativa in entrambi gli ambiti. In campo lavorativo il salto di qualità si ha con la costituzione, nel 1979, della «Lega nazionale per il diritto al lavoro degli handicappati», che nell’aprile dell’anno successivo sarà in grado di depositare alla Camera dei deputati una proposta di legge di iniziativa popolare, sostenuta da oltre centomila firme, volta al superamento degli aspetti assistenzialistico-paternalistici dell’impianto della legge 2 aprile 1968, n. 482, che aveva disciplinato il regime delle assunzioni obbligatorie. In ambito scolastico, la legge 4 agosto 1977, n. 517, chiude un ciclo di riforme avviato nel 1971, superando il sistema delle classi differenziali.

Per quanto attiene al secondo aspetto – la contestazione asilare –, questa si configura come una sotto-articolazione della critica dell’apartheid, dato che consiste nel rifiuto della segregazione residenziale, nel rifiuto cioè dell’idea che le persone con disabilità debbano forzatamente convivere in luoghi separati di esistenza: istituti, ospizi, cittadelle dell’assistenza. Si contesta, cioè, l’idea che le persone con disabilità debbano vivere in appositi giardini della differenza, in una logica condivisa con il giardino zoologico e l’orto botanico; non a caso De Amicis nel 1899, pochi anni dopo l’uscita di Cuore, con un eccesso di indulgenza definiva il manicomio «giardino della follia»[2].
Per inciso, in un passaggio ancora poco esplorato, Franco Basaglia, già nel 1964, rintraccia l’essenza del manicomio proprio nel suo essere «abitazione forzata»[3].

L’esempio che forse rende meglio la centralità della questione segregazione, in entrambe le sue componenti, è la denominazione stessa, che assume una delle prime – e determinanti – organizzazioni che nascono in Inghilterra per i diritti delle persone con disabilità: Upias – Union of the Physically Impaired Against Segregation –, un’unione dunque fondata programmaticamente contro la segregazione.

Per ciò che riguarda poi la rivendicazione di Vita indipendente, questa si sostanzia nella richiesta di vivere indipendentemente dalla disabilità, nel fatto cioè che la disabilità non sia di per sé ostacolo allo svolgimento della propria vita autodeterminata, nella congiunzione di un’istanza di libertà e di un’istanza di uguaglianza[4].
Indipendenza è qui sinonimo di autonomia in senso giuridico-politico, cioè facoltà di governarsi da sé. Il termine nulla ha a che vedere con gli slittamenti che lo sposteranno negli anni a seguire verso il senso ristretto e improprio di «autosufficienza».
Questo nuovo discorso attinge il proprio lessico dal vocabolario di altre rivendicazioni che negli anni precedenti avevano permeato i paesi occidentali: in primo luogo la contestazione della segregazione razziale negli Stati Uniti e in Sudafrica, poi i movimenti indipendentisti anticoloniali e, infine, la critica delle «istituzioni totali», la cui nozione, adottata da Erving Goffman nel 1957 e formalizzata nel 1961, soppianta proprio quella di segregazione e restituisce la sostanziale uniformità di tutti quei luoghi che condividono un carattere inglobante particolarmente penetrante simbolizzato dall’impedimento allo scambio sociale e all’uscita verso il mondo esterno[5].

Ancora manca una storia compiuta di come queste altre pratiche di contestazione abbiano contaminato i nascenti movimenti per i diritti delle persone disabili, ma le analogie sono innumerevoli e inequivocabili.
Basti richiamare, a mero titolo esemplificativo, in relazione allo spazio educativo, l’omologia con le contestazioni che portarono alla sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti, Brown contro l’ufficio scolastico di Topeka (347 U.S. 483), con la quale il 17 maggio 1954 veniva dichiarata incostituzionale la segregazione razziale nelle scuole pubbliche americane. Oppure si presti orecchio alle parole d’ordine della piattaforma rivendicativa della manifestazione che si svolge il 28 agosto 1963 contro la segregazione razziale nel Sud degli Stati Uniti e contro la subordinazione economica dei neri in tutto il paese: «Marcia su Washington per il lavoro e la libertà». È in quell’occasione che Martin Luther King ha svelato di avere un sogno di uguaglianza.
Ma forse l’esempio di contiguità ancora oggi più significativo è quella disputa minuta su di un posto a sedere che si svolge su di un autobus a Montgomery, capitale dell’Alabama, quando un inatteso gesto di disobbedienza innesca un intero movimento di boicottaggio e mette in crisi la segregazione sui mezzi pubblici.
Come ricorda Rosa Parks:

Una sera all’inizio del dicembre 1955 ero seduta in uno dei posti anteriori della sezione «Colored» di un autobus di Montgomery, in Alabama. I bianchi sedevano nella sezione riservata a loro. Salirono altri bianchi, occupando tutti i sedili nella loro sezione. A questo punto, noi neri avremmo dovuto cedere i nostri posti. Ma io non mi mossi. L’autista, un bianco, disse: «Liberatemi i posti davanti». Non mi alzai. Ero stanca di cedere ai bianchi. «Ti faccio arrestare» disse l’autista. «Ne ha facoltà» risposi[6].

Questo discorso trasversale a più gruppi di popolazione, che rivendica che ognuno possa legittimamente sedersi allo stesso posto dell’altro senza distinzione di condizione, si afferma progressivamente fino a cristallizzarsi all’inizio del XXI secolo nella Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità[7], segno indubitabile che i nuovi codici culturali hanno un assenso e un consenso tali da tramutarsi in ordine normativo. L’intero impianto della Convenzione è, infatti, improntato al rispetto per la dignità intrinseca della persona, della sua autonomia individuale, compresa la libertà di compiere le proprie scelte, e della sua indipendenza, nonché al principio di non discriminazione e a quello della piena ed effettiva partecipazione e inclusione nella società.

Ma perché questi princìpi possano dispiegarsi è necessario un gesto preliminare e assoluto: rendere indisponibile ogni residua possibilità di ricorso alle soluzioni proprie del paradigma segregazionista e asilare, ormai incompatibili logicamente e giuridicamente con la Convenzione.

Due frammenti della Convenzione sono, in tal senso, paradigmatici: l’articolo 14, comma 1, lettera (b), che prevede che gli stati parte garantiscono che le persone con disabilità «non siano private della loro libertà illegalmente o arbitrariamente, che qualsiasi privazione della libertà sia conforme alla legge e che l’esistenza di una disabilità non giustifichi in nessun caso una privazione della libertà»; l’articolo 19, lettera (a), che richiede agli stati parte di adottare misure efficaci perché «le persone con disabilità abbiano la possibilità di scegliere, su base di uguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione».
Da molti anni ormai non c’è documento politico, atto amministrativo o testo normativo, nazionale o sovranazionale, che non si richiami in premessa ai princìpi della Convenzione e che non si dichiari finalizzato a dare effettività ai diritti che ne discendono.
Un nuovo discorso sulla disabilità si è ormai insediato in Occidente.

 

2 La pratica

Eppure, se dal piano dell’impianto teorico ci si sposta su quello delle pratiche operative del socioassistenziale, emerge, con nettezza, un apparente paradosso: la pratica risulta largamente eterogenea rispetto alla teoria. In sostanza, la pratica dominante non è conforme alla teoria prevalente, non ne è l’espressione. La pratica dominante è caratterizzata, infatti, da due elementi in palese contraddizione con la teoria emancipatoria di cui è sintesi la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità: ovvero la resistenza all’indipendenza e la persistenza dell’internamento.

Quanto al primo punto, come i resoconti biografici non smettono di narrare, l’esercizio di una Vita indipendente col supporto dei servizi sociosanitari è ordinariamente un percorso a ostacoli. Come apprendono presto le persone con disabilità e i familiari che intendono supportarle in esperienze di vita autodeterminata, sulla via dell’indipendenza sono disseminati molteplici congegni di «difficilitazione» e dissuasione, al punto che il lessico dei «facilitatori» che si rinviene nell’ICF è davvero troppo blando per descrivere la realtà. Nel quotidiano, infatti, per poter vivere come tutte le altre persone, la persona con disabilità deve superare una serie ardua di prove sempre più difficili, come in una sequenza di livelli a difficoltà incrementale di un videogame: deve imparare a destreggiarsi fra legislazioni vaghe e contraddittorie, deve essere capace di districarsi fra burocrazie sclerotizzate e deve saper sgusciare fra prassi inutili quanto assurde. In sostanza, normalmente, la volontà di praticare una Vita indipendente richiede la disponibilità ad affrontare una guerra d’indipendenza. Per questo le narrazioni delle persone con disabilità e dei loro familiari trasudano copiosamente di stanchezze profonde, accumulate in un interminabile stillicidio di rifiuti e negoziazioni con i servizi socioassistenziali su questioni che non si immaginavano dubbie o problematiche.

Quanto al secondo aspetto, il collocamento in struttura rimane la risposta ordinaria fornita dal settore sociosanitario alle «crisi della presenza», ossia a quei momenti in cui – per le ragioni più diverse – diventa complicato continuare ad abitare o coabitare nel domicilio abituale, soprattutto con l’incedere dell’età. In queste circostanze, emerge l’insufficienza strutturale dei sostegni alla domiciliarità e l’indisponibilità atavica di forme dell’abitare alternative, condivise e di libera scelta. Ne è riprova l’effetto di straniamento prodotto da alcune normative che tentano di invertire questa dinamica come quelle introdotte dal Friuli-Venezia Giulia.

Il collocamento in struttura opera su un doppio registro temporale: è la soluzione più semplice e praticabile nell’immediato e la prospettiva sempre disponibile in futuro. Ossia, il collocamento in struttura è la soluzione tendenziale che copre, con diversa probabilità, l’intero arco della vita della persona con disabilità e si distribuisce lungo l’intera gamma di opzioni offerte dalla psicologia dell’azione ai servizi sociosanitari: dal riflesso condizionato alla scelta consapevole.
Il se e quando questa soluzione viene adottata dipende dalla delicata dialettica fra solidarietà familiare e solidarietà sociale, secondo configurazioni che sono mutate a più riprese nel corso della plurisecolare storia dell’assistenza in Italia dal Cinquecento a oggi.

Certo, negli ultimi decenni il welfare italiano sembra assumere – come nel XVI e XVII secolo – un assetto concentrico, che riserva alla cerchia familiare la responsabilità dell’intervento di prima istanza e che assegna al socioassistenziale un ruolo sussidiario esercitabile quando risulta indisponibile il sostegno familiare.
È una meccanica che si evince con chiarezza, per esempio, dalla legislazione sul cosiddetto «dopo di noi». La legge 22 giugno 2016, n. 112, infatti, «disciplina misure di assistenza, cura e protezione nel superiore interesse delle persone con disabilità grave, non determinata dal naturale invecchiamento o da patologie connesse alla senilità, prive di sostegno familiare in quanto mancanti di entrambi i genitori o perché gli stessi non sono in grado di fornire l’adeguato sostegno genitoriale, nonché in vista del venir meno del sostegno familiare […]» (art. 1, comma 2).
La stessa legge riconosce, poi, implicitamente, che il destino tendenziale della persona con disabilità priva di sostegno familiare è il suo dislocamento in strutture residenziali, sorte che può essere evitata solo con interventi specifici in grado di deviare l’inerzia ordinaria delle cose e comunque «nei limiti delle risorse disponibili» (art. 2, comma 2).
I fondi messi a disposizione dalla legge sono, infatti, destinati ad «attivare e potenziare programmi di intervento volti a favorire percorsi di deistituzionalizzazione e di supporto alla domiciliarità in abitazioni o gruppi appartamento che riproducano le condizioni abitative e relazionali della casa familiare» (art. 4, lettera a) o a «realizzare interventi innovativi di residenzialità per le persone con disabilità grave […] volti alla creazione di soluzioni alloggiative di tipo familiare e di co-housing […]» (art. 4, lettera c).
Ma il dato si evince ancora più esplicitamente dalla clausola limitativa che include fra le finalità perseguibili quella di «realizzare, ove necessario e, comunque, in via residuale, nel superiore interesse delle persone con disabilità grave […] interventi per la permanenza temporanea in una soluzione abitativa extrafamiliare per far fronte ad eventuali situazioni di emergenza, nel rispetto della volontà delle persone con disabilità grave, ove possibile, dei loro genitori o di chi ne tutela gli interessi» (art. 4, lettera b).

In sostanza, la risposta sociale alle crisi della presenza è il collocamento in quegli spazi altri che, al di là delle mutevoli definizioni amministrative, si possono raccogliere sotto le nozioni di «eterotopie di crisi» ed «eterotopie di deviazione» di cui ha parlato Michel Foucault nel corso di una conferenza tenuta a Tunisi il 14 marzo 1967 presso il Cercle d’études architecturales. Le prime fanno riferimento a quei luoghi «riservati agli individui che si trovano, in relazione alla società, e all’ambiente umano in cui vivono, in stato di crisi […]», le seconde sono «quelle nelle quali vengono collocati quegli individui il cui comportamento appare deviante in rapporto alla media e alle norme imposte»[8].

Ora, questo modello di solidarietà sociale, che prevede la disponibilità di forme di istituzionalizzazione, pone essenzialmente due ordini di questioni. Sul piano individuale, pone il tema della limitazione impropria della libertà personale quando la persona con disabilità è contraria al ricovero e quello della compressione della libertà di scelta nel caso in cui non le venga fornita un’alternativa valida e concreta all’istituzionalizzazione. In entrambi i casi si configura una dislocazione involontaria[9].
Sullo stesso piano, oltre che relativamente al regime di ingresso in struttura, il tema delle possibili privazioni o limitazioni della libertà investe anche il regime di permanenza e quello di uscita.
Sul piano collettivo, pone invece il tema delle forme e della qualità dell’assistenza che una comunità ritiene tollerabili e degne in un determinato momento storico per porzioni della propria popolazione. Non va confuso con un problema tecnico: si tratta di una questione di soglie di sensibilità sociale, di economia morale della cura.

 

3 Una teoria della pratica

Tuttavia, questa pratica così problematica, tanto dissonante dalla lingua ufficiale, non si dispiega in assenza di teoria. Semplicemente, la sorregge e l’accompagna un altro discorso; discorso atono, senza sfarzo, che si muove alle soglie del percettibile, che circola silente e si insinua surrettiziamente. Il suo stato prediletto è quello di un brusìo della lingua, che si capisce male ma si capisce comunque, e può sempre rivendicare il privilegio di essere stato frainteso. Ebbene, questo discorso in tono minore possiede la strana caratteristica di essere, a un tempo, mutacico eppure egemone.

Il chiasmo è la figura del concatenamento fra il discorso formalmente condiviso, il discorso sostanzialmente egemone e le loro attualizzazioni pratiche, dato che il discorso da tutti formalmente condiviso trova un’applicazione pratica minoritaria, mentre un discorso che nessuno pronuncia, in apparenza poco più di un borbottio, determina le pratiche prevalenti.

Proviamo, allora, a ricostruire i tratti essenziali di questo discorso flebile e secondo che ordina di fatto la realtà.

In primo luogo, si tratta di un discorso riottoso a palesarsi, in permanente bilico fra afasia e mutismo selettivo. Poco audace, pudico o tatticamente pavido, prova a non manifestarsi, a non esplicitarsi. La sua legge è il pensabile e l’inenunciabile. Si tramuta in parola pubblica con estrema riluttanza, e quando prorompe è più per un difetto di continenza che per una volontà di esternazione. Se prende forma è per una sorta di discontrollo momentaneo della parola, tanto che i suoi modi grossolani di emergenza creano imbarazzo soprattutto in chi ci si riconosce. È quanto toccato in sorte, per esempio, all’articolo di Ernesto Galli della Loggia apparso sul «Corriere della Sera» del 13 gennaio 2024 col titolo Il Mito dell’inclusione nella scuola italiana nel quale il maître à penser scriveva che

la scuola italiana è il regno della menzogna […]. A cominciare ad esempio da quella che si cela dietro il mito dell’inclusione. In ossequio al quale nelle aule italiane – caso unico al mondo – convivono regolarmente, accanto ad allievi cosiddetti normali, anche ragazzi disabili gravi con il loro insegnante personale di sostegno (perlopiù a digiuno di ogni nozione circa la loro disabilità), poi ragazzi con i Bes (Bisogni educativi speciali: dislessici, disgrafici, oggi cresciuti a vista d’occhio anche per insistenza delle famiglie) e dunque probabili titolari di un Pdp, Piano didattico personalizzato, e infine, sempre più numerosi, ragazzi stranieri incapaci di spiccicare una parola d’italiano. Il risultato lo conosciamo.

Nel momento in cui, pochi giorni dopo, l’autore ha provato a replicare alle critiche ricevute, in un nuovo articolo apparso il 20 gennaio 2024 – sempre sul «Corriere della Sera» – col titolo Il dibattito sulla scuola e la sfida dell’inclusione, il suo discorso implicito al posto di inabissarsi è emerso ormai inequivocabile, perché, come Roland Barthes aveva avvertito, nel brusìo della lingua «la parola è irreversibile, questa è la sua fatalità. Ciò che è stato detto non può più essere modificato, se non aumentandolo: correggere vuol dire qui, stranamente, aggiungere»[10]. Scrive, in effetti, l’autore dell’articolo:

è proprio sicuro che ad esempio, perlomeno nei casi gravi di disabilità intellettiva, di disabilità motoria, piuttosto che essere immersi in un ambiente totalmente altro assistiti da un incompetente non gioverebbe di più l’inserimento in un’istituzione capace di prendersi cura di simili casi in modo più appropriato e scientificamente orientato? Perché mai il solo porsi una simile domanda deve essere equiparato quasi a una pagina del Mein Kampf?[11]

In secondo luogo, questo discorso si propone come discorso convergente con quello emancipatorio, dice di inserirsi nella sua scia, sempre più ampia, indefinita e tenue man mano che ci si allontana dal suo punto d’origine. In base a un postulato di derivazione, ne sarebbe una mera sotto-articolazione. Questa professione di discendenza, in cui rimane celato il grado di parentela o affinità col discorso maggiore, gli consente di non darsi mai come un discorso altro, alternativo. È scivoloso, sfuggente: non si contrappone frontalmente, non contesta apertamente. Se raramente lo fa, è solo negli ambienti confortevoli delle società di discorso, sotto la patina protettiva di familiarità e riservatezza in cui si svolgono gli incontri.

Terza caratteristica: opera per riduzione del discorso formalmente condiviso. Se ne distingue – dice – per estensione, non per intenzione. Impiega, pertanto, una serie di princìpi di limitazione del discorso generale che ne circoscrivono la portata.

Un primo principio di limitazione opera isolando lo strato di utopismo o ideologismo che ricoprirebbe il discorso maggiore. Il discorso emancipatorio sarebbe un anelito, una tensione morale, non una funzione-obiettivo; uno stimolo al miglioramento, non un obiettivo di cambiamento. Concretezza impone – dice – di non confondere il piano dell’astrazione con quello della realtà. Credere nella realizzabilità effettiva del discorso formalmente condiviso sarebbe palese sintomo di un deficit di pragmatismo. «Siamo concreti!» è la sua formula magica. Chiaramente l’argomento si basa su un’autocertificazione di realismo da parte di chi lo propone. Non è del tutto chiaro, in effetti, perché potrebbe vantare maggiori titoli di realismo rispetto all’altro.

Esattamente in risposta a questa rafferma retorica dell’utopismo Franco Basaglia, già quarant’anni fa, aveva qualificato il suo esempio materiale e tangibile come «utopia della realtà»[12] e aveva sintetizzato l’eredità della sua opera nella formula «ora si sa cosa si può fare»[13]. L’esperienza storica della deistituzionalizzazione, come quella dell’abolizione della segregazione scolastica, hanno infatti chiarito i termini della questione: non si è in presenza di un divario fra un piano dell’astrazione e un piano della concretezza, ma di fronte a due opzioni pratiche, alternative ma ugualmente possibili. In questa chiave di riequilibrio logico, va interpretato quanto Basaglia diceva a Rio de Janeiro il 28 giugno 1979:

la cosa importante è che abbiamo dimostrato che l’impossibile diventa possibile. Dieci, quindici, vent’anni fa era impensabile che un manicomio potesse essere distrutto. Magari i manicomi torneranno a essere chiusi e più chiusi di prima, io non lo so, ma a ogni modo noi abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in un altro modo, e la testimonianza è fondamentale[14].

Un secondo principio di limitazione è quello riferibile all’euristica del caso impossibile, in funzione della quale determinati casi o determinati gruppi di popolazione non potrebbero essere trattati se non in circuiti e istituzioni speciali. La vita nella comunità sarebbe per molti, ma non per tutti. In questo modo l’istituzione speciale non è mai dismettibile perché conserva sempre un residuo di utilità, un’utilità marginale. Ha sempre un inadeguato che le spetta, e questo inadeguato è sempre penultimo.

Questione antica che, nell’urgenza dettata dalla virulenza del furore razziale, Bertolt Brecht aveva risolto, già nel 1934, con l’icastico: «Nessuno o tutti – o tutto o niente. | Non si può salvarsi da sé»[15].
Non è un caso, allora, che proprio Nessuno o tutti sia il titolo della versione originale di un film-documentario che svolgerà un ruolo significativo nella critica anti-istituzionale degli anni Settanta[16].

Infine, i due princìpi di limitazione dispongono anche di un proprio apparato mobile di legittimazione che, nella contingenza attuale, opera con frequenza per «scientificizzazione», cercando cioè di tramutare scelte operate in base a giudizi di valore in necessità oggettive distillate dalla razionalità scientifica.

Fulcro del dispositivo è il richiamo a un approccio evidence-based. Le soluzioni da adottare – si dice – devono essere individuate in funzione dell’esito che producono sulla vita delle persone con disabilità; impatto che va valutato in termini di qualità della vita tramite appositi set di indicatori. Ergo, se – in funzione degli indicatori adottati – coorti di popolazione conseguono esiti peggiori praticando una Vita indipendente supportata, la soluzione è da ritenersi inadeguata. Il problema, chiaramente, non nasce dai singoli elementi di questa catena argomentativa – che singolarmente richiedono certamente attenzione, ricerca e confronto scientifico –, ma dalle volgarizzazioni circolanti della sequenza argomentativa.

In primo luogo, dalla distorsione prodotta dall’uso improprio del lessico scientifico dell’evidenza. Impiego puramente mimetico che tenta, per assonanza, di indurre l’astrusa idea che la conoscenza scientifica operi per estrazione di evidenze. Ben strana epistemologia della scienza. In realtà, tentativo un po’ naïf di naturalizzazione del dato, di sua iscrizione in un ordine naturale. Nient’altro che un modo per rivestire di una patina linguistica di scientificità il senso comune, unico vero produttore di evidenze. Solo al senso comune – espressione delle griglie percettive e degli schemi cognitivi di un gruppo sociale – le cose appaiano trasparenti, evidenti.

Ora, questo processo di naturalizzazione produce due effetti principali. In primo luogo, permette un’inversione dell’onere della prova: pertanto sono i percorsi di emancipazione che devono continuamente dimostrare di essere legittimi e possibili; che, almeno nei casi impossibili, la segregazione debba essere praticata appare del tutto evidente, perché provarlo? In secondo luogo, fraziona la cittadinanza. Così, per alcuni l’appartenenza al corpo comunitario è regolata dal diritto, la cui espressione massima è quello che si può definire un «diritto all’errore»: il diritto di agire in un determinato modo a prescindere dal giudizio sociale su quel comportamento, assumendosene anche rischi e responsabilità. Altri, invece, sono l’errore; allora, la loro appartenenza civica, prima che dal diritto, è disciplinata da un’altra branca della regolazione sociale: l’ortopedia esistenziale.

 

4 La doppia antropologia

Si sbaglierebbe, perciò, a pensare ai due sistemi di pensiero – quello formalmente condiviso e quello sostanzialmente applicato – come a due sistemi largamente coincidenti che si differenzierebbero solo nell’ultimo segmento, quello abitato dai casi impossibili.
Infatti, proprio quell’ultimo segmento inscrive i discorsi in due antropologie antitetiche: il primo rimanda a un’antropologia della diversità o della variabilità dell’umano, il secondo rinvia a un’antropologia della minorità.

L’antropologia della diversità ritiene le forme di vita delle persone con disabilità tutte legittime su di un piano di uguaglianza, tutte parti costitutive di un’umanità polimorfa. Non ammette, dunque, gerarchie dell’umano. Questo pensiero della pari dignità ontologica – nato nel secondo dopoguerra in reazione alla perpetrazione del programma nazista di sterminio dell’anomalia attivo dal 1939 al 1945[17] – si è trasfuso integralmente nella Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità che riconosce, alla lettera (i) del Preambolo, la «diversità delle persone con disabilità», e che, alla lettera (d) dell’articolo 3, pone fra i princìpi generali della Convenzione «il rispetto per la differenza e l’accettazione delle persone con disabilità come parte della diversità umana e dell’umanità stessa».

L’antropologia della minorità postula, invece, che pur discendendo da un comune ceppo di umanità le forme di disabilità siano connotate da tassi minori di umanità, che si distribuiscono lungo una scala graduata della compiutezza e dell’incompiutezza dell’umano. È la concretizzazione di una di quelle forme di deumanizzazione che Chiara Volpato ha rubricato sotto la chiave della «deumanizzazione sottile»[18]. È un’antropologia che perpetua il modello storico della disabilità come vizio di forma, come deviazione cioè rispetto alla forma di vita ritenuta piena e compiuta. In sostanza, si tratta di un’antropologia dell’insufficienza e della lacuna[19]. Come tutte le antropologie della minorità, rende possibile un doppio regime di cittadinanza in cui a una cittadinanza formale si affianca una cittadinanza pragmatica; vale a dire che, al di là del riconoscimento formale, di fatto alcuni godranno di una cittadinanza piena, altri di una cittadinanza imperfetta. Questa antropologia instaura una corrispondenza diretta fra tassi di umanità e gradi di cittadinanza.

È l’adesione, consapevole o meno, a questa antropologia che giustifica il doppio regime morale che opera nel quotidiano nei confronti delle persone con disabilità: ciò che è intollerabile nei confronti degli altri – degli uomini comuni – diventa accettabile nei confronti delle persone con disabilità.
In sostanza, in quell’ultimo segmento del discorso sulla disabilità si annida la possibilità di adottare nei confronti delle persone con disabilità una morale alternativa alla morale comune: la morale del male minore. La questione del «male minore» è stata sollevata da Hannah Arendt in un intervento radiofonico nel 1964 dedicato a La responsabilità personale sotto la dittatura in cui ricordava come «coloro che scelgono il male minore dimenticano troppo in fretta che stanno comunque scegliendo il male»[20].

Date queste premesse, quanto a me, se proprio devo cedere a un’evidenza, preferisco consegnarmi a quella senza pretese scientifiche che Lia Traverso, ricoverata nel padiglione numero IX dell’Ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà di Roma, ha affidato al quaderno numero 24 del proprio diario, il 7 gennaio 1970, quando appunta: «D’ogni dove chiusi si sta male»[21].

 

* Professore di Sociologia del diritto presso l’Università degli Studi di Napoli Suor Orsola Benincasa. Il presente testo è contenuto nel volume curato da Enrico ValtellinaSulla disabilitazione. Introduzione ai Disability Studies, Milano, UTET Università, 2025, pagine 67-79. L’UTET ha autorizzato la libera divulgazione. Esso viene qui ripreso per gentile concessione con minimi adattamenti (i grassetti e i link sono un nostro intervento).

 

Nota: il Centro Informare un’h è impegnato nel rivendicare la promozione della deistituzionalizzazione e lo stop all’istituzionalizzazione. Temi su cui si è avviato un confronto pubblico. In calce alla pagina Riforma della disabilità: eliminiamo la possibilità di istituzionalizzare le persone (in aggiornamento) sono segnalati i contributi che di volta in volta si stanno susseguendo. 

 

[1] Cfr. L. D’Errico, G. Griffo, La conquista dello spazio. Una traiettoria individuale in una storia collettiva della disabilità, relazione nell’ambito dell’11th AISU Congress Beyond the gaze. Interpreting and understanding the city, Università degli Studi di Ferrara, Dipartimento di Architettura, 13-16 settembre 2023.
[2] E. De Amicis, Nel giardino della follia, in «Rivista d’Italia», III (1899), pp. 581-600.
[3] F. Basaglia, La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione. Mortificazione e libertà dello «spazio chiuso». Considerazioni sul sistema «open door» [1964], in Id., Scritti. 1953-1980, a cura di F. Ongaro Basaglia, il Saggiatore, Milano 2017, p. 265.
[4] Cfr. C. Tarantino, Il sintagma incompiuto. Dialettica tra vita indipendente e segregazione di fatto delle persone con disabilità in Italia, in M. Terraneo, M. Tognetti Bordogna, Disabilità e società. Inclusione, autonomia, aspirazioni, FrancoAngeli, Milano 2021, pp. 15-35.
[5] Cfr. E. Goffman, Asylums. Le istituzioni totali: la condizione sociale dei malati di mente e di altri internati [1961], Einaudi, Torino 1968.
[6] R. Parks (con J. Haskins), La mia storia. Una vita coraggiosa, Mondadori, Milano 2021, p. 7.
[7] Fatta a New York il 13 dicembre 2006, con Protocollo opzionale, ratificata e resa esecutiva in Italia ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18.
[8] M. Foucault, Spazi altri, in Id., Eterotopia, Mimesis, Milano-Udine 2010, p. 14.
[9] Quali introduzioni generali al tema, cfr. G. Merlo, C. Tarantino (a cura di), La segregazione delle persone con disabilità. I manicomi nascosti in Italia, Maggioli, Santarcangelo di Romagna 2018; G. Merlo, C. Tarantino (a cura di), Economia politica della segregazione, numero monografico di «Minority Reports. Cultural Disability Studies», 9 (2019); C. Tarantino (a cura di), Il soggiorno obbligato. La disabilità fra dispositivi di incapacitazione e strategie di emancipazione, il Mulino, Bologna 2024.
[10] R. Barthes, Il brusio della lingua. Saggi critici IV [1984], Einaudi, Torino 1988, p. 79.
[11] Per una disamina critica delle posizioni espresse negli articoli di Galli della Loggia, ex multis cfr. F. Bocci, Un tratto di penna per accantonare sessant’anni di inclusione, in «superando.it», 16 gennaio 2024, e Id., Galli della Loggia chiarisce il suo pensiero sull’inclusività a scuola. Ed è peggio di prima, in «Domani», 22 gennaio 2024.
[12] F. Basaglia, Conferenze brasiliane, n. ed. a cura di F. Ongaro Basaglia e M.G. Giannichedda, Raffaello Cortina, Milano 2018, p. 139.
[13] F. Basaglia, L’utopia della realtà [1974], in Id., Scritti. 1953-1980, a cura di F. Ongaro Basaglia, il Saggiatore, Milano 2017, pp. 791-798.
[14] F. Basaglia, Conferenze brasiliane, cit., p. 138.
[15] B. Brecht, Nessuno o tutti [1934], in Id., Poesie e canzoni, a cura di R. Leiser e F. Fortini, Einaudi, Torino 1981.
[16] M. Bellocchio, S. Agosti, S. Rulli, S. Petraglia (regia), Nessuno o tutti, Italia 1975, poi in edizione ridotta col titolo Matti da slegare, Italia 1976.
[17] Quali introduzioni al tema, cfr. G. Aly, Zavorre. Storia dell’Aktion T4: l’«eutanasia» nella Germania nazista 1939-1945 [2013], Einaudi, Torino 2017, e M. Lalatta Costerbosa (a cura di), Vite inutili. Il programma «eutanasico» nazista, numero monografico di «Minority Reports. Cultural Disability Studies», 12 (2021).
[18] Cfr. C. Volpato, Deumanizzazione. Come si legittima la violenza, Laterza, Roma-Bari 2011, ed Ead. (a cura di), Deumanizzazione, numero monografico di «Minority Reports. Cultural Disability Studies», 10 (2020).
[19] Cfr. C. Tarantino, A.M. Straniero (a cura di), Vizio di forma, numero monografico di «Minority Reports. Cultural Disability Studies», 5 (2017), e C. Tarantino, Vizio di forma. La disabilità come elemento sfuggente alla ‘forma standard’, in «L’Altro Diritto. Rivista», 5 (2021), pp. 108-118.
[20] H. Arendt, La responsabilità personale sotto la dittatura [1964], in Ead, Responsabilità e giudizio [2003], a cura di J. Khon, Einaudi, Torino 2004, p. 31.
[21] L. Traverso, D’ogni dove chiusi si sta male, a cura di N. Valentino, Sensibili alle Foglie, Roma 1996, p. 76.

 

Ultimo aggiornamento il 16 Luglio 2025 da Simona