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I falsi miti sull’accoglienza delle donne con disabilità vittime di violenza

Il presente scritto propone qualche riflessione sui falsi miti e i fraintendimenti che contribuiscono a far sì che le donne con disabilità vittime di violenza non riescano a fruire dei servizi antiviolenza come le altre donne. Esso è rivolto principalmente a chi opera nella rete dei servizi antiviolenza, ma è a diposizione di chiunque voglia approfondire questi temi.

Particolare di una donna ritratta di spalle ed in controluce.

Mi chiamo Simona Lancioni e lavoro per il Centro Informare un’h, un servizio informativo che opera nell’area della disabilità. Mi occupo di genere e disabilità dal 1998 e di violenza nei confronti delle donne con disabilità dal 2013. Sul sito del Centro sono pubblicati molti documenti anche su quest’ultimo tema. Essi sono tutti liberamente fruibili da questo link. In questo scritto propongo qualche riflessione sui falsi miti e alcuni fraintendimenti che, a mio parere, contribuiscono a far sì che le donne con disabilità non riescano a fruire dei servizi antiviolenza come le altre donne. Tali riflessioni scaturiscono dalle numerose interazioni con tantissime persone impegnate su questo fronte. Senza questi scambi non avrei potuto scrivere questo testo. Ho colto questi spunti come un dono di cui essere grata. Li ho elaborati e ora li rimetto in circolo, nella convinzione che certi doni siano fatti per essere condivisi, e con la speranza che possano suscitare e facilitare l’adozione di pratiche inclusive nella rete dei servizi antiviolenza.

Parlare di diritti non basta

Il tema del contrasto alla violenza di genere è disciplinato dalla Convenzione di Istanbul (la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, che è stata ratificata dall’Italia con la Legge 77/2013), mentre i diritti umani delle persone con disabilità sono tutelati dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (recepita dal nostro Paese con la Legge 18/2009). In entrambi questi trattati è esplicitato il principio di non discriminazione sulla base della disabilità: è indicato nell’articolo 4 della Convenzione di Istanbul e nell’articolo 3 della Convenzione ONU. Risulta pertanto evidente che quando le donne con disabilità non riescono a fruire dei servizi antiviolenza come le donne senza disabilità si sta concretizzando una discriminazione nei loro confronti. Questa erronea modalità operativa è stata rilevata anche dagli organismi di controllo e monitoraggio delle citate Convenzioni, che negli anni scorsi hanno già richiamato l’Italia proprio per la mancanza di attenzione alle specifiche esigenze delle donne con disabilità vittime di violenza.

Sino a poco tempo fa la mia attività di divulgazione e sensibilizzazione su questo tema ha puntato in larga prevalenza sull’argomentazione che escludere le donne con disabilità dai servizi antiviolenza costituisce una violazione dei loro diritti umani. Ed è vero, intendiamoci. Il problema è che mi sono resa conto che questa argomentazione non fa molta presa. Infatti il tema dei diritti è spesso inteso come una questione teorica, dunque chi ascolta capisce e registra l’informazione, ma – con poche apprezzabili eccezioni – non riesce a tradurla in termini operativi, perché le scelte operative sono spesso prese sulla base di convinzioni erronee che sono state acquisite – in genere inconsapevolmente – e non sono mai state sottoposte a verifica. Accade dunque che esse si concretizzino in falsi miti e qualche fraintendimento che è bene imparare a riconoscere. Esporrò e decostruirò di seguito quelli che ho individuato in questi anni, senza pretesa di esaustività. Aggiungerò infine alcune ulteriori considerazioni utili ad interpretare correttamente quanto esposto.

Procedo in modo schematico. Se qualcosa di ciò che ho scritto non ti convince, puoi contattarmi a questa e-mail: info@informareunh.it e possiamo confrontarci.

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Falsi miti e qualche fraintendimento sull’accoglienza delle donne con disabilità vittime di violenza

 

Le donne con disabilità non sono esposte a violenza
Qui in Italia è molto difficile trovare dati disaggregati per la disabilità della vittima. Gli ultimi dati Istat disponibili risalgono al 2014 e mostrano che le donne con disabilità sono esposte a tutte le forma di violenza di genere più delle altre donne (fonte: Istat, La violenza contro le donne dentro e fuori la famiglia. Anno 2014). Il Forum Europeo sulla Disabilità (EDF) ha sottolineato in innumerevoli occasioni che le donne con disabilità hanno da due a cinque volte più probabilità di subire violenza rispetto alle altre donne. Infatti, esse, oltre ad essere esposte alle diverse forme di violenza di genere (psicologica, fisica, sessuale ed economica, a cui ora si sono sommate quelle legate alle nuove tecnologie), sono soggette anche a forme peculiari di violenza connesse alla loro disabilità (come l’uso improprio dei farmaci, le minacce di sospensione dell’assistenza, la sottrazione o il danneggiamento degli strumenti di autonomia, la contraccezione, l’aborto e la sterilizzazione forzati, ecc.). Non solo, l’isolamento e la dipendenza da chi presta loro assistenza amplificano il rischio di subire violenza, la portata e il periodo di esposizione alle violenze e le loro conseguenze.

I servizi antiviolenza sono rivolti a tutte le donne, dunque non è vero che le donne con disabilità sono escluse
Sebbene i servizi antiviolenza siano formalmente aperti a tutte le donne, senza distinzione, nei fatti, senza specifici accorgimenti di accessibilità, senza un’adeguata formazione del personale, e senza un’integrazione delle competenze in materia di violenza e di disabilità, le donne con disabilità sono escluse dalla rete dei servizi antiviolenza, dalla prevenzione della stessa violenza, e dall’accesso alla giustizia. Se gli ostacoli che queste donne incontrano nell’accedere ai servizi non vengono individuati e rimossi, esse continueranno a non riuscire ad accedere ai servizi antiviolenza.

Rimuovere le barriere nell’accesso ai servizi antiviolenza che incontrano le donne con disabilità è compito delle Istituzioni
Che le Istituzioni siano largamente inadempienti su questo tema è stato ampiamente riconosciuto anche dal GREVIO, l’organismo indipendente responsabile di monitorare l’attuazione della Convenzione di Istanbul, nel primo Rapporto di valutazione sulle misure poste in essere dall’Italia in applicazione della Convenzione stessa, pubblicato nel 2020 (di cui si può leggere a questo link). Come Centro abbiamo prodotto tanti scritti per sensibilizzare e informare sulle inadempienze istituzionali. E tuttavia la circostanza che anche nel nostro Paese siano presenti, sebbene in numero esiguo, alcuni servizi antiviolenza preparati ad accogliere donne con disabilità (come puoi leggere a questo link), mette in luce che le responsabilità dell’inaccessibilità dei servizi in questione non siano interamente attribuibili alle Istituzioni.

Delle donne con disabilità se ne devono occupare i servizi sociali e/o sanitari
Le donne con disabilità vittime di violenza sono in primo luogo donne. Per prendersi cura delle loro storie di violenza sono necessarie competenze e professionalità specifiche in sia in materia di violenza, sia in materia di disabilità. Il tema è dunque adottare un approccio multidisciplinare che, se necessario, affianchi alle figure competenti in tema di violenza e di disabilità – che sono imprescindibili –, ulteriori figure utili a una corretta presa in carico della donna. Tra queste ultime vi possono essere anche esponenti dei servizi sociali e/o sanitari. Ma non è corretto attribuire questo compito ai soli servizi sociali e/o sanitari, perché la disabilità è una condizione e non una malattia, e non è appropriato identificare la donna disabile con questa sola caratteristica. Quando una donna con disabilità subisce violenza l’équipe di lavoro va predisposta per rispondere alla violenza, non alla disabilità, sebbene anche questa caratteristica non possa essere ignorata. È invece una buona prassi coinvolgere donne con disabilità nelle équipe di lavoro che si devono occupare di casi di violenza sulle donne con disabilità.

Le donne con disagio psichiatrico non sono donne con disabilità perché il disagio psichiatrico è una malattia
Alcune donne con disturbi psichiatrici si riconoscono come persone con disabilità, altre no, e la definizione che ciascuna donna dà di sé stessa va comunque rispettata. Tuttavia questo aspetto non ha rilevanza sul fatto che la sua presa in carico spetti comunque ai servizi antiviolenza, perché l’articolo 4 della Convenzione di Istanbul prescrive che l’attuazione delle proprie disposizioni deve essere garantita senza alcuna discriminazione fondata su un lungo elenco di caratteristiche, tra cui figurano anche la disabilità e le condizioni di salute. Dunque, qualora la vittima di violenza sia una donna con disagio psichiatrico, come già esplicitato in precedenza, è necessario adottare un approccio multidisciplinare e coinvolgere nell’équipe di lavoro sul caso tutte le professionalità pertinenti, non solo quelle di area sanitaria. Questo perché le risposte a una vittima di violenza non possono essere solo di tipo sanitario. Inoltre, in merito a tale questione, è bene tenere presente che anche qui in Italia si stanno diffondendo le esperte per esperienza (ESP) dell’area della salute mentale (a tal proposito segnalo la testimonianza pubblicata a questo link), e si potrebbe valutare un loro coinvolgimento.

Se le situazioni sono troppo complesse si può non rispondere
Non rispondere alla richiesta di aiuto di una donna vittima di violenza perché la sua situazione è troppo complessa equivale ad abbandonarla a sé stessa, e dunque ad escludere dai servizi antiviolenza proprio chi, a causa della propria situazione di vulnerabilità, avrebbe maggiore bisogno di supporto. Non dare alcuna risposta non dovrebbe essere considerata un’opzione possibile perché chi opera in questo campo deve agire in conformità alla Convenzione di Istanbul. Davanti a una situazione complessa un servizio antiviolenza deve individuare quali sono le carenze che impediscono di rispondere alla situazione in autonomia. Quindi deve disporsi a individuare altri servizi pubblici e/o soggetti della società civile che dispongono delle competenze/risorse/professionalità/strumenti necessari, e coinvolgere gli stessi nella predisposizione di risposte personalizzate e adeguate alle esigenze della donna in questione.

Non abbiamo le competenze per occuparci di disabilità
Come già accennato, le competenze che mancano al singolo servizio antiviolenza possono essere reperite disponendosi a coinvolgere altre realtà della rete antiviolenza e della società civile. A ciò si aggiunga che sul tema dell’accoglienza delle donne con disabilità sono già state prodotte ben quattro linee guida, e che queste sono tutte liberamente fruibili/scaricabili online da questo link. Queste, avendo approfondito aspetti differenti, in qualche modo si integrano a vicenda. Inoltre è importantissimo che nei percorsi formativi periodici di cui fruiscono i servizi antiviolenza vengano inseriti specifici moduli in tema di disabilità. Lavorando in questo modo il problema della mancanza di competenze è facilmente risolvibile.

Le nostre strutture non sono adeguate ad accogliere e ospitare donne con disabilità
Se le strutture del proprio servizio antiviolenza non sono adeguate ad accogliere ed ospitare donne con disabilità, è possibile verificare se nel proprio territorio esiste qualche struttura afferente ad un altro servizio antiviolenza che invece è adeguata. Se nessuna struttura del territorio fosse adeguata, si può valutare di appoggiarsi provvisoriamente alla struttura di un altro territorio che invece è predisposta per l’accoglienza. Quindi, con il coinvolgimento dei servizi antiviolenza dell’area in questione, può essere elaborato un progetto per adeguare almeno una struttura nel territorio scoperto, eventualmente chiedendo un supporto economico agli Enti pubblici di competenza, ma anche a Fondazioni, Casse di Risparmio o altri soggetti privati sensibilizzati sul tema. Alcuni servizi possono essere programmati in precedenza, attraverso la stipula di protocolli, e attivati all’occorrenza. Se, ad esempio, un Centro antiviolenza deve rispondere a una donna sorda che comunica con la lingua dei segni italiana (LIS), ma le proprie operatrici non la conoscono, tale Centro può fare un accordo con chi offre servizi di questo tipo in modo che, in caso di necessità, sappia già a chi rivolgersi. Lo stesso può essere fatto per i servizi di assistenza personale, e altri ancora.

Non abbiamo sufficienti risorse economiche per rendere accessibili i nostri servizi
Nessuno sta chiedendo ai singoli servizi antiviolenza di sobbarcarsi tutti gli oneri economici o d’altro tipo per rendersi realmente accessibili ed adeguati alle specifiche esigenze delle donne con disabilità. Si tratta invece di fare mente locale di cosa manca e di predisporsi a colmare le lacune responsabilizzando gli Enti pubblici territoriali affinché facciano la propria parte, nonché lavorando in rete con gli altri servizi del territorio in modo da poter condividere quanto già disponibile e sopperire alle mancanze riscontrate distribuendo l’impegno. A ciò si aggiunga che, dagli scambi avuti con i pochi servizi antiviolenza italiani preparati ad accogliere donne con disabilità, non risulta che essi percepiscano fondi aggiuntivi per svolgere questa attività.

Le situazioni di “doppia diagnosi”
Un’altra criticità frequente si riscontra nelle situazioni di “doppia diagnosi”, che si hanno, ad esempio, quando la donna ha una situazione di dipendenza da sostanze e contemporaneamente un disagio psichiatrico; oppure, altro esempio, quando la donna, oltre ad avere una disabilità, è anche una persona senza fissa dimora. Davanti a queste situazioni si attiva quasi in automatico il “gioco del rimpallo”, dove chi rimane “col cerino in mano” non è comunque in grado di rispondere al caso in modo adeguato, oppure, ancora una volta, la donna è abbandonata a sé stessa. Anche per rispondere a queste situazioni è necessario coinvolgere nell’équipe di lavoro tutte le professionalità utili: quelle competenti in materia di violenza, di dipendenze, di disagio psichiatrico, di disabilità, di persone senza fissa dimora, ecc. Non è invece appropriato, come invece accade molto spesso (per non dire quasi sempre), indirizzare le donne con disagio psichiatrico vittime di violenza ai servizi psichiatrici, perché questi solitamente non sono formati in materia di violenza e non sono in grado di occuparsi di questo aspetto.

«In teoria è semplice, in pratica no!»
Questa frase me l’ha detta l’operatrice di un servizio antiviolenza dopo che le avevo smontato tutti gli alibi per non occuparsi di donne con disabilità. Mi viene da osservare che non è semplice neanche in teoria. Peraltro non mi sembra di aver mai affermato il contrario. Tuttavia questo non significa che si debba rinunciare a cercare risposte e soluzioni, eventualmente anche inventandosele, quando non se ne trovano di già sperimentate. In realtà l’elemento che in concreto fa la differenza è il grado di flessibilità del servizio. I servizi antiviolenza disponibili a modificare le proprie pratiche operative in funzione delle situazioni che devono affrontare qualche risposta la trovano sempre. E solitamente, quando accade, sperimentano un senso di gratificazione molto maggiore rispetto a quando danno risposte a situazioni meno complesse.

Qualche considerazione finale

Atteggiamento non giudicante. Se leggendo questo testo hai scoperto di avere assimilato una o più convinzioni di quelle illustrate, ti invito caldamente a non giudicarti per questo. Ti raccomando invece di guardare a queste convinzioni come ad un limite che ti stai (inconsapevolmente) autoimponendo, ma di cui puoi liberarti. Dunque, se constati che hai assimilato queste convinzioni, e se ritieni validi gli argomenti che ti ho proposto, puoi semplicemente abbandonarle ed inaugurare nuove prassi operative a partire da questa nuova consapevolezza. Se invece non sei d’accordo con ciò che ho scritto, come ho già detto, puoi contattarmi per un confronto.

Mettere in conto l’errore. «Ho provato. Ho fallito. Non importa, riproverò. Fallirò meglio», scriveva, non senza ironia, il drammaturgo irlandese Samuel Beckett. È questa la postura giusta. Se non ti sei mai occupata di disabilità, la possibilità che all’inizio tu possa commettere degli errori è molto elevata. Capita. L’errore va messo in conto. Anch’io ho dovuto ricalibrare la mia impostazione: prima puntavo su argomentazioni giuridiche, ora penso sia prioritario lavorare sulle convinzioni, e se neanche quest’argomentazione dovesse funzionare, sono certa che m’inventerò qualcos’altro. Dunque se ti capita di sbagliare cerca di scoprire/capire dove e perché hai sbagliato, quindi correggi l’impostazione. E se non sei in grado di farlo da sola, chiedi aiuto.

Portare l’attenzione sulla propria postura. Prima di occuparti della storia di violenza di una donna con disabilità chiedi a te stessa se consideri quella donna esattamente come te, e se sei disponibile a trattarla esattamente come tratteresti te stessa se le parti fossero invertite. Se a questi due interrogativi ti rispondi con due sì: procedi pure. Se invece ti rispondi con un solo sì o con due no: nel prendere in carico il caso chiedi supporto a chi già accoglie donne con disabilità vittime di violenza (alcuni servizi li trovi nel repertorio a questo link); quindi proponi al tuo gruppo di lavoro di approfondire il tema della disabilità coinvolgendo esponenti (meglio se donne) delle Associazioni che si occupano del tipo di disabilità da cui è interessata la donna disabile con cui hai a che fare (ad esempio, se la donna è cieca, dovresti coinvolgere Associazioni di persone con disabilità visiva).

Cooperazione e condivisione. Ho riscontrato come sia tra chi si occupa di contrasto alla violenza, sia nell’associazionismo delle persone con disabilità, si siano sviluppate dinamiche di competizione. Eppure, come abbiamo visto, poiché per rispondere alle situazioni di violenza più complesse è necessario disporre di molteplici competenze, professionalità, risorse, strumenti, punti di vista, ecc., è importante orientare lo stile relazionale dei servizi verso la cooperazione e la condivisione. Percepisco molte resistenze su questo fronte. E tuttavia non possiamo aspettarci che il contrasto alla violenza diventi patrimonio condiviso dalla comunità se non siamo disponibili a divulgare e condividere idee e competenze. Che questo testo sia a disposizione di chiunque non è un caso, ma una precisa scelta politica.

Simona Lancioni
Responsabile di Informare un’h – Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa)

 

Nota: in questo testo si fa uso del femminile sovraesteso.

 

Vedi anche:
Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “La violenza nei confronti delle donne con disabilità”.
Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “Donne con disabilità”.

 

Ultimo aggiornamento il 13 Giugno 2025 da Simona