di Stefania Delendati*
“Freaks”: non i giovani che negli Anni Settanta adottavano comportamenti anticonvenzionali, ma nell’accezione di “capricci della natura”, come erano chiamate nell’Ottocento e fino alla prima metà del Novecento le persone con disabilità o con un aspetto insolito. Erano “fenomeni da baraccone” che, principalmente negli Stati Uniti, si esibivano in spettacoli circensi itineranti a pagamento. Ripercorriamo le storie di alcuni di loro, certi molto famosi grazie ad Hollywood, altri di casa nostra la cui memoria è stata tramandata da chi li ha conosciuti e apprezzati non come freaks, ma come persone.
Freaks: no, non i giovani che negli Anni Settanta adottavano comportamenti anticonvenzionali. In questo approfondimento parleremo dei freaks nell’accezione di “capricci della natura”, come erano chiamate a partire dal XIX secolo fino alla prima metà del XX le persone con disabilità o con un aspetto insolito. Erano “fenomeni da baraccone” che, principalmente negli Stati Uniti, si esibivano in spettacoli circensi itineranti a pagamento, passati alla storia con il nome di Freaks Show e Sideshows. Insieme a mangiafuoco, mangiaspade e animali, anche questi ultimi con peculiarità fisiche “anomale”, venivano mostrate coppie di gemelli siamesi, persone affette da nanismo oppure molto alte, altre che avevano particolari patologie o caratteri sessuali “ambigui”.
I freaks erano una casta per certi versi “aristocratica” all’interno del mondo della disabilità di allora: mentre altri nelle stesse condizioni erano infatti obbligati alla segregazione, questi viaggiavano ed erano famosi. Si può immaginare che il rovescio della medaglia fosse molto meno splendente. L’unico scopo di chi li ingaggiava, infatti, era attirare gente alle fiere e impressionarla, diventava una condanna spettacolarizzare il proprio aspetto per compiacere un pubblico morboso, a tratti cinico, che aveva bisogno di sentirsi migliore, guardando chi non rispondeva ai canoni estetici comuni. Venivano sovente ridicolizzati, la “diversità” li rendeva sottomessi e inferiori.
Qui ripercorreremo le storie di alcuni di loro, certi famosissimi grazie ad Hollywood, altri di casa nostra che hanno preso strade differenti e la cui memoria è stata tramandata da chi li ha conosciuti e apprezzati come persone, non come freaks.
Freaks, storia di un “film di culto”
Nel 1994 il National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti lo ha scelto per la conservazione; nel 2003 la rivista statunitense «Entertainment Weekly» lo ha piazzato al terzo posto nella classifica dei cinquanta migliori Cult Movie (“film di culto”) di sempre. Ci sono voluti dunque molti decenni di vicende alterne per fare di Freaks, film di Tod Browning del 1932, un classico del genere macabro. Un’opera maledetta, circondata fin dal primo ciak da un’aura di mistero, rinnegata dalla stessa casa produttrice, censurata, non compresa dal grande pubblico e bersaglio di feroci critiche per la scelta di attori non convenzionali, con evidenti disabilità che “disturbavano” la visione.
In principio, però, avrebbe dovuto essere una pellicola horror come un’altra, con un pizzico di valore sociale. Nel 1931, con la distribuzione nelle sale di Dracula, la casa di produzione cinematografica Universal si affermò leader in questo filone, un successo che spinse il concorrente Irving Thalberg della Metro-Goldwyn-Mayer a cercare un’idea ancora più scioccante.
Ispirandosi a un racconto del 1923 di Tod Robbins, intitolato Spurs, gli sceneggiatori portarono sulla sua scrivania l’embrione di Freaks. Per dirigere la pellicola chiamò proprio Tod Browning, il regista del famoso Dracula con Bela Lugosi della Universal, e a questo punto entrò in scena il primo freak, Harry Earles, un uomo affetto da nanismo che insieme alla sorella Daisy, anche lei con la stessa patologia, e alle sorelle minori Grace e Tiny, si esibivano in tour come The Doll Family. Fu Harry a suggerire al regista di ambientare parte del film dietro le quinte di uno spettacolo itinerante, per offrire uno spaccato della vita quotidiana dei performers che la gente accorreva a guardare con curiosità. Lo trovò subito d’accordo. Browning, del resto, aveva già parlato nei suoi lavori dei circhi itineranti che egli stesso conosceva bene, avendoli frequentati fin da ragazzo e, si diceva, lavorando al loro interno come prestigiatore, equilibrista, clown, contorsionista e mangiatore di serpenti. Gli intenti erano buoni: dare una diversa lettura delle persone considerate “errori della natura” e offrire una reale possibilità di riscatto a questi artisti, alcuni dei quali dotati di grande talento, tuttavia trattati come reietti della società. Per una volta, dunque, la spettacolarizzazione sarebbe diventata un’arma di rivalsa, un’operazione culturale.
Malgrado alcuni funzionari avessero cercato di mettere in cattiva luce il progetto agli occhi dei finanziatori, nell’ottobre 1931 cominciarono i casting e gli studi della Metro-Goldwyn-Mayer vennero letteralmente invasi da una variopinta umanità di freaks che aspirava ad un ruolo. Fu tale lo scompiglio che il presidente esecutivo pensò seriamente di fermare tutto e alcuni dirigenti organizzarono una petizione per cacciare le comparse. Irving Thalberg, di più larghe vedute, si mise a muso duro contro i pregiudizi e, nella totale riservatezza, il 9 novembre 1931 cominciarono le riprese negli studi di Culver City, in un clima tutt’altro che sereno. Il montatore chiese di essere trasferito, disse che guardare freaks per dieci ore al giorno alla moviola gli dava la nausea. Lo scrittore Francis Scott Fitzgerald si alzò dal tavolo della mensa e se ne andò quando entrarono i “fenomeni da baraccone” per la pausa pranzo: vedere le sorelle siamesi consultarsi sul menù, per lui era troppo. I membri del cast furono emarginati, per loro venne costruita una mensa in un luogo separato, erano tenuti il più lontano possibile dallo staff tecnico non direttamente coinvolto nelle riprese e ogni giorno, alla fine del lavoro, venivano portati via dagli studi con un bus navetta.
Ma anche tra i freaks c’erano i vip, quelli che grazie alla celebrità venivano “tollerati”. Era il caso degli Earles, Harry e Daisy, e delle sorelle siamesi Daisy e Violet Hilton, tutti molto famosi nell’ambiente dello star system. I primi due avrebbero continuato la carriera nel cinema, partecipando a numerosi altri film tra cui Il mago di Oz. Le sorelle Hilton, poi, furono le prime gemelle siamesi a non morire poco dopo la nascita e già questo faceva di loro un caso eccezionale. La madre non ne voleva sapere e le vendette, come una qualunque merce, a chi le avrebbe esibite.
Fin da piccolissime vennero educate alla danza e alla musica, una suonava il sassofono e l’altra il violino. Dopo alcuni anni nei circhi itineranti, entrarono in un corpo di ballo prestigioso, divennero molto facoltose e presero dimora in una lussuosa villa hollywoodiana. Riuscirono a recidere il contratto con il loro manager che le sfruttava, cosicché Freaks avrebbe dovuto essere il trampolino di lancio della carriera e dell’autonomia. Non andò però come speravano. Presero parte soltanto ad un altro film, dopodiché lavorarono in una salumeria fino alla loro morte, nel 1969.
Esperte di autoipnosi, che avevano imparato da Houdini per ritagliarsi una parentesi di privacy, la loro parabola umana intensa e particolare diventò uno dei più celebri musical di Broadway, Side Show.
Quei quattro protagonisti di Freaks avevano il “permesso” di mangiare negli spazi comuni, tanti altri erano nella mensa separata. Era il caso di Johnny Eck, grande mago e fotografo, uno spirito libero noto come The Half Boy, privo delle gambe dalla nascita, che da ragazzino si offrì volontario in uno spettacolo e venne assunto dopo avere impressionato il prestigiatore camminando sulle mani.
C’era poi Simon Metz, in arte Schlitzie, che ispirò il fumetto di Bill Griffith Zippy the Pinhead. Affetto da microcefalia, si vociferava fosse una lei, una mai confermata teoria, suffragata soltanto dal fatto che indossava preferibilmente abiti femminili. Con loro, a tavola e sul set, Zip & Pip, alias Elvira e Jenny Lee Snow, affette da microcefalia, l’ermafrodita Josephine Joseph, Prince Randian, l’uomo-torso senza braccia né gambe, e Koo-Koo, la ragazza uccello, non vedente affetta dalla sindrome di Virchow-Seckel, la forma più comune di nanismo osteodisplasico microcefalico. Famosa nei circhi con il nome di The Blind Girl from Mars, aveva già 52 anni quando venne scritturata per Freaks, l’attrice più “anziana” del cast.
Dopo nove settimane di lavoro, una delle quali non prevista, il film era pronto. I novanta minuti totali montati narravano le vicende della bella trapezista Cleopatra che, in complicità con il forzuto fidanzato Ercole, seduceva il nano Hans, segretamente innamorato di lei, al fine di derubarlo. Il piano veniva intuito dalla fidanzata di Hans, Frida, a sua volta affetta da nanismo (Hans e Frida erano i fratelli Earles). La storia finisce nel sangue, con l’“assistenza” di tutti gli artisti del circo che aggrediscono i malintenzionati per vendicare l’amico.
Alla trama principale, si intrecciavano le storie d’amore tra i circensi: la donna barbuta aveva un figlio dallo scheletro umano, le gemelle siamesi cercavano un modo per intrattenere relazioni con l’altro sesso nella loro condizione che non favoriva la riservatezza.
Nel gennaio 1932 il debutto a San Diego della versione integrale si concluse con il fuggifuggi generale degli spettatori. La pellicola tornò in sala di montaggio, venne tagliata mezz’ora di girato e furono tolte le scene più violente, mai più ritrovate. Venne aggiunto un prologo con un imbonitore che presentava la storia, e un nuovo finale dove Hans e Frida si riconciliavano.
Riportato al Fox Criterion a Los Angeles il 10 febbraio, fu un altro flop sia di pubblico che di critica; dopo due sole settimane venne ritirato anche dai cinema di Chicago e New York; ad Atlanta un giudice ne vietò la proiezione perché violava le leggi cittadine.
La “maledizione” di Freaks pareva inarrestabile e si accanì anche sul regista, da allora in poi bandito da Hollywood. Unica pellicola della Metro-Goldwyn-Mayer ad essere ritirata dai cinema prima del previsto, registrò perdite pari a 164.000 dollari. Né andò meglio fuori dagli Stati Uniti. In Gran Bretagna, infatti, la visione fu vietata per trent’anni, proibita in Germania dal 1933 al 1945.
Ci furono anche alcune eccezioni, con incassi superiori alla media a Boston, Buffalo, Cleveland, Saint-Paul, Minneapolis, Omaha e Houston. Qui la massiccia operazione di marketing aveva funzionato e il film si costruì una buona reputazione.
Nel 1948 venne riproposto come b-movies con diversi titoli (Nature’s Mistake, The Monster Show e Forbidden Love), slogan pubblicitari pruriginosi del tipo «Le sorelle siamesi fanno l’amore?» e un prologo degno del nazismo che auspicava l’eliminazione degli “errori della natura” presenti nel film da parte della scienza.
Eppure Freaks non è una pellicola “mostruosa”; al netto infatti delle scene più violente, è una toccante allegoria che tratta il tema della diversità con sentimenti umani. Se ne accorsero per la prima volta al Festival di Cannes nel 1962, cinque anni dopo alla Mostra del Cinema di Venezia. Nel ’69 la proiezione allo Studio de l’Étoile di Parigi venne accolta con grande entusiasmo dalla quasi totalità dei critici. Negli Anni Settanta la pellicola venne riscoperta dalla controcultura e per tutti gli Anni Ottanta regolarmente proiettata in vari cinema statunitensi.
L’Italia nel 1983 lo mandò in onda in prima visione TV su Raitre e, a partire dal 2016, il film fu distribuito in una serie di sale selezionate dalla Cineteca di Bologna come parte della rassegna Il cinema ritrovato.
Freaks è diventato dunque un capolavoro che sfiora la leggenda, capace di segnare l’immaginario collettivo e di influenzare come pochi altri film una serie di lavori successivi, l’ultimo dei quali American Horror Story: Freak Show, quarta stagione della serie tv American Horror Story, andata in onda in Italia sul canale satellitare Fox nel 2015. Negli episodi sono palesi i richiami ai personaggi e alle vicende della pellicola di Browling.
I Giganti delle Alpi e Cilién, freaks italiani
Sembrano un’istallazione pubblicitaria le due gigantesche statue in acciaio e fibra di vetro, una rosa shocking e l’altra verde mela, che accolgono i viaggiatori all’ingresso del Forte Albertino di Vinadio, paese della Valle Stura, in Piemonte. Create dall’artista scozzese David March nel 2012 e chiamate Giants (“giganti”), non passano inosservate e hanno da dire molto più di quel che appare.
Sono l’omaggio della Valle ai fratelli Battista e Paolo Ugo, che a cavallo tra Ottocento e Novecento da quelle montagne partirono in cerca di fortuna. Due migranti sui generis, perché la molla che li portò in Francia e in America fu il loro essere freaks. Battista e Paolo, infatti, non passavano inosservati: il primo, nato il 21 giugno 1876, era alto 265 centimetri e pesava più di duecento chili; Paolo, venuto alla luce il 28 giugno 1887, era di poco più basso.
I genitori Antonio e Maria Teresa erano gente umile e laboriosa, una vita di sacrifici per crescere sette figli. La nascita dei due “giganti” complicò un po’ la quotidianità; si racconta che già alle elementari Battista fosse troppo imponente per utilizzare un comune banco, così gli adattarono un grosso tronco di castagno. Da ragazzo passeggiava curvo sotto i portici di Cuneo per non battere la testa e riusciva a portare da solo un carro di quattrocento chili. Vestire sia lui che il fratello era un’impresa e una spesa, dagli abiti alle scarpe, ogni cosa doveva essere fatta su misura.
I fratelli Ugo erano conosciuti da tutti gli abitanti della Valle, non solo per la stazza e la forza fisica, erano bravi ragazzi che contribuivano al sostentamento della numerosa famiglia, lavorando come contadini, taglialegna e pastori. I loro pasti erano evidentemente abbondanti, nel piatto mezza dozzina di uova alla volta e il vino in boccali da mezzo litro. Si accendevano il sigaro al fuoco dei lampioni, oppure sfregavano i fiammiferi sotto i balconi a tre metri da terra, bastava allungare un braccio. Mentre Paolo lasciò estasiato il medico della leva che disse di vederlo bene come guardia al Palazzo Reale di Roma, il fratello Giuseppe, per ironia della sorte, venne riformato in quanto alto soltanto un metro e mezzo.
Nel 1891 la svolta. Papà Antonio mandò Battista in Francia, a Barcellonette, per fare il boscaiolo. Nel Paese oltralpe il giovane italiano fu notato dal proprietario di un circo itinerante che gli offrì un posto. Con la prospettiva di guadagni e notorietà, Battista diventò un circense giramondo con il nome di Baptiste Hugo. Pochissimi sapevano che era italiano, gli avevano infatti cambiato anche le origini, dal momento che ufficialmente risultava nativo di Saint-Martin-Vésubie, piccolo centro delle Alpi Marittime. Era il classico “capriccio della natura”, esibito sotto il tendone, e diventò tanto famoso che si stamparono cartoline ricordo con la sua immagine che la gente poteva portarsi a casa per pochi centesimi. Tornava a Vinadio di tanto in tanto, ed era festa grande, accolto come la celebrità del posto. Un calzolaio di Cuneo gli chiese un suo stivale con la suola lunga quarantadue centimetri da esporre in vetrina, e alcuni familiari in suo onore aprirono a Pratolungo La Trattoria del Gigante, di cui oggi è ancora possibile vedere l’insegna sbiadita.
Battista era un brand alla moda e Paolo ne rimase affascinato al punto da decidere di unirsi alla vita circense. Così a Baptiste si unì Paul Hugo e insieme formarono il duo Les Géants des Alpes (“I Giganti delle Alpi”) che per anni furoreggiò nelle piazze di tutta Europa e nei salotti di famiglie benestanti.
Ai fratelli sembrava di vivere un sogno, malgrado fossero trattati come un passatempo fuori dell’ordinario e i soldi finissero in gran parte nelle tasche degli impresari. Riuscivano lo stesso a mandare a casa un po’ di denaro, vestivano bene e portavano grossi orologi da polso. La casa a Maisons-Alfort, poco distante da Parigi, fu la loro spesa più ingente, diedero fondo ai risparmi per adattarla alle loro esigenze di spazio.
Il 15 febbraio 1914 Paolo morì dopo una breve malattia, aveva 26 anni. Un giornale francese pubblicò una foto del funerale in cui si vedeva Battista seguire il feretro verso il cimitero di Maisons-Alfort. Dovette pagare un sovrapprezzo per la tomba di dimensioni maggiorate, una tomba che non esiste più. Rimasto solo e con il cuore a pezzi, Battista emigrò in America con in tasca un contratto per entrare nel celebre Circo Barnum&Bailey di New York, famoso per gli spettacoli di “curiosità umane”, come preferiva chiamare i freaks, termine ritenuto offensivo.
Battista e gli altri compagni di lavoro si autodefinivano “prodigi”, un nome differente che però non cambiava la degradante condizione di doversi esporre ogni giorno al pubblico pagante. Per il divertimento altrui, Battista indossava ridicoli vestiti da Tarzan e sentiva ogni giorno il peso della malinconia, pezzi di dignità che se ne andavano. Si lasciò andare, pieno di tristezza per gli affetti lontani e si spense il 23 aprile 1916 all’Ospedale Willard Parker di Manhattan. Il «New York Times» ne diede notizia dicendo che era morto per la nostalgia del sole e delle montagne dell’Italia.
Per molti anni si ritenne che il suo corpo fosse stato trafugato dai nativi indiani, amici sotto il tendone del circo, che avrebbero voluto seppellirlo nelle loro terre, invece ancora oggi riposa nel cimitero di Green-Wood, a Brooklyn.
Di generazione in generazione gli abitanti della Valle Stura hanno tramandato un ricordo affettuoso dei fratelli Ugo ed entrando nel Forte di Vinadio, passando sul ponticello di legno, si vede un dipinto che li ritrae e si conservano fotografie che ce li mostrano con abiti eleganti e gli occhi genuini di chi non ha dimenticato le proprie origini, malgrado le difficoltà.
Se ai Parmigiani un po’ più in là con gli anni chiedete chi era Icilio Pelizza, probabilmente qualcuno non saprà cosa rispondere, ma se fate il nome di Cilién quasi tutti vi risponderanno con un sorriso, per averlo conosciuto di persona o per averne sentito parlare.
Mito del teatro dialettale parmigiano, storico orologiaio di Via Farini che inventò un meccanismo di metalli termosensibili con cui gli orologi si caricavano da soli, ma soprattutto una delle personalità più simpatiche, istrioniche e intelligenti che la Città Ducale ricordi.
Cilién era alto poco più di un metro ed essendo nato nel 1897, in un’epoca dove erano ancora in voga i freaks, “rischiò” di diventare un fenomeno come quelli di cui si è finora detto, oppure una macchietta che faceva girare la gente per strada. Invece lui, uomo di grande spessore, fece della sua fisicità un talento, era il primo ad ironizzarne e quell’ironia fu la chiave che scardinò i pregiudizi.
Fuori dal suo negozio era affisso il cartello con la scritta «Non entri chi ha fretta». In questa frase c’era l’essenza del suo stare al mondo. Ancora si tramandano i racconti degli scherzi in combutta con l’amico inseparabile Alberto Montacchini con cui calcava i palcoscenici di Parma e Provincia; lo chiamarono anche per il film Torniamo in campagna di Franco Guerci, girato in città nel 1934.
Nulla o quasi poteva fermarlo: per assecondare la passione per le moto, si fece costruire perfino una due ruote da gara su misura e con quella partecipò a diverse competizioni. Tutti i libri sulla parmigianità pubblicati dal 1966, anno della sua scomparsa, fino ad oggi, lo citano e narrano delle sue battute fulminanti, ma anche del carattere che lo faceva amare e rispettare dalla gente.
Ci piace concludere questo approfondimento con la sua storia, perché parla di un tipo di inclusione che a volte, ancora ai giorni nostri, sembra un miraggio.
* Il presente testo è già stato pubblicato su Superando.it, il portale promosso dalla FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), e viene qui ripreso, con lievi adattamenti al diverso contesto, per gentile concessione.
Ultimo aggiornamento il 20 Agosto 2021 da Simona