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I rischi del lavoro di cura. Quando il caregiver si trasforma in angelo della morte

Nadia Muscialini, psicoanalista, dirigente SSN. Esperta in prevenzione e contrasto della violenza di genere.

Prosegue il confronto pubblico, intrapreso nei giorni scorsi nel sito del centro Informare un’h, sui tragici casi di omicidio-suicidio agiti dal caregiver ai danni di sé stesso e della persona di cui si cura*. Ben volentieri ospitiamo le riflessioni di Nadia Muscialini, psicoanalista e dirigente del Servizio Sanitario Nazionale, che ci propone un’analisi degli aspetti psicologici da tenere in considerazione per una corretta lettura scientifica di questi fenomeni.

Morning sun (Sole del mattino), opera di Edward Hopper, pittore e illustratore statunitense noto per i suoi dipinti sulla solitudine. Prodotto nel 1952, il dipinto raffigura un giovane donna sola, con i capelli raccolti, seduta su un letto, con un vestito rosa che le lascia le braccia e le gambe scoperte, ritratta di lato mentre prende il sole da una finestra da cui si intravvede un pezzo di cielo ed un edificio.

I casi di omicidio e\o suicidio dei caregivers ai danni della persona assistita con disabilità o grave malattia non sono cosa nuova; il dramma è che spesso si arriva alla conoscenza della drammaticità di alcune situazioni solo quando assurgono ad articoli di cronaca nera ed è quindi troppo tardi.

Seppur mi piacerebbe esprimere qualche riflessione su temi di pianificazione socio-sanitaria e anche di etica, mi limiterò a prendere in considerazione solo gli aspetti psicologici che ritengo siano da tenere presenti per una corretta lettura scientifica di questi fenomeni. Lettura che, per il fatto di voler essere coscientemente neutrale, non può sbilanciarsi in nessun giudizio sui gravi fatti di cui si tratta.

I recenti racconti di cronaca sugli omicidi ai danni di persone con disabilità per mano dei caregivers suscitano in me associazioni con alcuni fenomeni che ho studiato a lungo, quelli relativi alla maternità e il parenthood [genitorialità, N.d.R.], esperienze molto intense e impegnative, per certi versi molto simili a quelle della cura di cui parliamo e che possono, date o non date certe condizioni, esitare in tragedie.

Non c’è niente di più intenso e faticoso del prendersi cura di un soggetto dipendente in tutto e per tutto o in buona parte delle sue necessità da un’altra persona.

Tali esperienze di cura nella mia mente di psicologa in ascolto mi paiono molto simili e associabili sia per la fatica pervasiva che implicano, sia per il profondo coinvolgimento emotivo ed affettivo che si instaura tra assistito e caregiver, a quelle che si riscontrano in altre relazioni, sia che si tratti di un rapporto di parentela, sia che si tratti di un legame di intimità e identificazione profonda (a volte con-fusione) che si instaura nell’attività lavorativa.

Ho associato per analogia i crimini di cui stiamo parlando agli omicidi (con suicidio o meno) dei figli da parte dei genitori.

Alcuni autori[1] hanno effettuato ricerche e analisi dettagliate di quelle che potrebbero in qualche modo essere le cause per spiegare questi fenomeni. Il tentativo di trovare cause che possano portare alla comprensione di questi avvenimenti è sicuramente legato allo sconcerto, allo shock e al profondo sconvolgimento emotivo che suscitano queste tragedie, forse troppo spesso cronache di morte annunciate.

Per sintetizzare quanto espresso nella letteratura scientifica si può dire che gli studi riconducono questi omicidi alla presenza stati di panico e disturbi psicotici\depressivi acuti nel momento in cui viene compiuto il gesto.

Il tentativo di organizzare razionalmente le cause che portano a questi crimini ha generato una sorta di suddivisione degli omicidi nelle seguenti categorie: altruistici, eutanasia, psicosi acuta, disordini mentali del post partum, figli o gravidanze non desiderate, impulsi di rabbia incontrollata che si trasforma in agiti violenti, negligenza e trascuratezza, sindrome di Munchausen per procura, atti sadici e di punizione, abuso di alcool o di droga.

«Si potrebbero però raggruppare i diversi tipi di figlicidi in due grandi categorie: quelli commessi per dichiarato amore dei figli (…)  e quelli, invece, conseguenti ad atteggiamenti di fastidio, aggressività, insofferenza e incuria (…)[2] [grassetti nostri, N.d.R.]».

Nel primo caso il genitore è mosso dal desiderio\bisogno di alleviare le sofferenze del figlio e si preoccupa per il suo futuro, in questi casi è frequente avere pensieri o agiti suicidi dopo avere compito il gesto; ciò che muove la persona sarebbe quindi la preoccupazione di non potersi più occupare del loro assistito e di non sapere come occuparsi del loro destino soprattutto nell’evenienza di non esserci più. Negli omicidi commessi con l’idea di effettuare un’azione caritatevole come l’eutanasia prevale l’idea di porre fine alle sofferenze di un soggetto gravemente malato o disabile.

Tra gli omicidi agiti con l’intento di fare del male, invece, si possono distinguere quelli che sono l’esisto non programmato di abusi e violenze, e quelli che sono agiti invece con pianificazione e premeditazione. Gli scienziati concludono la disamina segnalando che vi sono anche omicidi che sono conseguenza di una prolungata omissione o fallimento di cure e accudimento in cui la carenza di cure può arrivare ad un livello di gravità tale da portare alla morte.

Altre considerazioni utili per la nostra analisi sono quelle che affermano che, a prescindere dalle motivazioni più o meno consapevoli, più o meno razionalizzanti, della presenza di patologie psichiche o stati psichici alterati per abuso di sostanze (spesso utilizzate come lenimento a sofferenze, depressione e disperazione), è dimostrato che gesti così estremi agiti da un caregiver sono perpetrati in condizione di forte stress e solitudine.

Quando a posteriori si indaga su quali fossero le condizioni psicologiche di chi ha agito violenza spesso si rilevano la presenza di idee suicidarie, sensazioni di helplessness [impotenza, N.d.R.], stati acuti di ansia o di angoscia, forti oscillazioni del tono dell’umore, labilità nelle capacità di analisi della realtà e pensiero critico, ovvia conseguenza di uno stato prolungato di stress acuto.

La letteratura e l’esperienza clinica ci dicono, inoltre, che nella maggior parte dei casi questi gesti non si compiono in maniera improvvisa e imprevedibile, ma che vi sono segnali, indicatori che possono aiutarci ad evitarli. Spesso prima di commettere il gesto queste persone si rivolgono a operatori socio-sanitari per esprimere qualche grave disagio o problema nel lavoro di cura.

A questo punto, facendo le debite differenze, e avanzando certezze sulla necessità di effettuare studi specifici su questi fenomeni, mi viene naturale interrogarmi sul perché ai caregivers spesso soverchiati da pressanti fatiche fisiche e mentali non vengano offerti presidi di tutela del loro benessere e della loro salute. Il lavoro di cura, lo sappiamo, stanca, sfinisce, esaurisce energie fisiche ed emozionali anche quando viene fatto con amore, dedizione e autentico sentimento di compassione.

Perché i caregivers non possono avere congrui momenti in cui vengono sostituiti e godere dei necessari riposi e spazi di ristoro? Perché non vengono ascoltati per trasformare un eccesso empatico in compassione? Perché devono farsi carico e sostituire in toto carenze strutturali di assistenza statali e degli enti sussidiari?

Pensiamo davvero che questa mancata attenzione e l’inadeguatezza di un contesto di presa in carico della persona con disabilità non abbia ripercussioni negative sulla vita delle persone e sulla società intera?

Pensiamo davvero che non occuparsi della salute, dei bisogni e delle tutele dei caregivers non abbia in qualche modo una responsabilità nell’origine di questi gesti estremi?

Anche se in linea teorica potremmo trovare responsabilità in capo allo Stato o all’istituzione da esso delegate all’assistenza alle persone con disabilità poiché investono, di fatto, formalmente o meno, le famiglie a farsene carico, ciò non aiuterebbe i caregivers e nemmeno noi ad immaginare dei presidi di tutela e prevenzione; credo quindi che sia più utile, partendo da questi drammatici avvenimenti, sollecitare pensieri e azioni a tutela dei caregivers e di conseguenza dei loro assistiti.

Il punto di partenza è rimarcare quanto il lavoro di cura sia impegnativo e fronte di stress e burnout [si tratta di una sindrome collegata allo stress da lavoro, che porta la persona all’esaurimento delle proprie risorse psico-fisiche, ed alla manifestazione di sintomi psicologici negativi che possono associarsi a problematiche fisiche, N.d.R.] (a tal proposito è interessante anche la letteratura sugli “angeli della morte”, sanitari che compiono omicidi di persone ricoverate la cui salute è gravemente compromessa, invocando con convinzione motivi altruistici di lenimento delle loro sofferenze).

Quindi rimarcare che il mancato ascolto e la mancata rilevazione delle fatiche fisiche o psicologiche può fare degenerare il livello di equilibrio mentale verso stati di patologie acute in momenti di particolare carico.

Che la solitudine e la mancanza di condivisione delle azioni di cura e degli stati d’animo che sollecita sono fattori di rischio.

Che l’assistenza protratta e prolungata può produrre un’identificazione molto profonda tra caregiver e assistito fino ad arrivare alla con-fusione. Che la con-fusione e l’eccesso di sollecitudine possono tramutarsi in eccesso di empatia e a fenomeni di alterazioni dell’esame di realtà, stati di follia e delirio in cui si può immaginare la “soluzione alla sofferenza” nell’assassinio.

Che questi fenomeni avvengono quanto più i caregivers vengono lasciati o si percepiscono soli, inascoltati, senza supervisione ad assumersi tutto l’onere dell’assistenza e la responsabilità di decisioni che riguardano i loro assistiti; l’eccesso empatico, di sollecitudine e la con-fusione conseguenza di un’identificazione patologica può impedire di interpellare le persone con disabilità riguardo alle loro necessità e volontà e anche relativamente alle decisioni da prendere per la loro assistenza e vita.

Che la responsabilità di ciò che accade e del malessere dei caregivers è di chi disconosce ancora la fatica e i rischi, questo disconoscimento può portare a sottostimare il fatto noto che la disperazione e la stanchezza possono esitare in gesti drammatici se non si attivano quei presidi di tutela e prevenzione primaria e secondaria previsti sulla Carta.

Credo sia anche indispensabile agire contro gli stereotipi e una lettura della disabilità in termini negativi come “sventura” e “difetto di fabbrica”, attraverso interventi di informazione e formazione che raggiungano tutti e non solo i portatori di interessi, ossia le persone che gravitano intorno alle persone con disabilità per affetto o per lavoro.

 

* Simona Lancioni, Non vediamo le cose come sono, vediamo le cose come siamo, «Informare un’h», 8 febbraio 2023.

Lorenzo Cuffini e Simona Lancioni, Ulteriori riflessioni su quei casi di omicidio-suicidio, «Informare un’h», 10 febbraio 2023.

Note:

[1] Nadia Muscialini, Maternità difficili. Psicopatologia e gravidanza: dalla teoria alla pratica clinica, 2010 Franco Angeli Milano

[2]Nadia Muscialini, ibidem.

 

Ultimo aggiornamento il 13 Febbraio 2023 da Simona