La “vittimizzazione secondaria” espone le donne vittime di violenza ad una seconda aggressione agita dalle Istituzioni o da altri soggetti della rete antiviolenza. Le donne con disabilità vi sono particolarmente esposte, e tuttavia esse non sono state considerate nella recente Relazione su questo fenomeno approvata Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio. Per la seconda volta in pochi mesi le donne con disabilità sono state ignorate e discriminate dalle Istituzioni: prima dal Parlamento (con la norma sulle indagini statistiche in tema di violenza di genere), e ora dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio.
Esiste ormai un’ampia letteratura scientifica che documenta come le ragazze e le donne con disabilità abbiano da 2 a 5 volte più probabilità di subire violenza rispetto ad altre donne e ragazze. Un dato terribile. C’è tuttavia un aspetto che è meno conosciuto, ossia il fatto che dopo aver subito una qualche forma di violenza, le donne (disabili e non) rischiano di subire ulteriori violenze da parte di altri soggetti incontrati proprio nel percorso di fuoriuscita dalla violenza. Si tratta del fenomeno chiamato “vittimizzazione secondaria”, ed espone le vittime di violenza ad una seconda aggressione agita dalle Istituzioni o da altri soggetti della rete antiviolenza. La vittimizzazione secondaria può manifestarsi in vari modi. Dalla colpevolizzazione della vittima – attribuendole, in tutto o in parte, la responsabilità delle violenze o delle discriminazioni subite –, al disconoscimento o alla minimizzazione delle violenze stesse, sino alla riduzione/preclusione dell’accesso alla giustizia. Capita così che le “agenzie di controllo” (il personale sanitario, quello della polizia, gli addetti dei servizi socio assistenziali, gli avvocati, i pubblici ministeri, i giudici, i consulenti tecnici, gli ausiliari) dubitino delle parole della donna, pensino che esageri, che sia instabile o emotiva, valutino se possa avere qualche convenienza a mentire, non sappiano distinguere tra violenza e conflitto, non si attivino per tutelare la vittima, né per sanzionare il reato e punirne l’autore. Inutile dire che anche sotto questo profilo le donne con disabilità sono più penalizzate sia dal fatto che la stessa rete antiviolenza e i servizi nel loro complesso non sono stati progettati tenendo conto della loro presenza e delle loro caratteristiche (quanti centri antiviolenza, quante caserme, procure, tribunali presentano barriere di qualche tipo?), sia dal tipo di disabilità. In particolare le donne con disabilità intellettive e psichiatriche hanno ancora minori possibilità di essere credute, e, se sono madri, poiché questo tipo di disabilità è spesso considerata causa di inidoneità al ruolo materno, oltre a non ottenere tutele e giustizia rischiano anche di vedersi levare i figli. Pertanto, se il dato sulla maggiore esposizione alla violenza sembra terribile, quello sulla vittimizzazione secondaria non è meno terrificante.
Proprio nell’intento di fare luce questi aspetti, nella seduta dello scorso 20 aprile, la Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e ogni altra violenza di genere, istituita presso il Senato della Repubblica il 16 ottobre 2018, e presieduta da Valeria Valente, ha approvato all’unanimità la Relazione su “La vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti che disciplinano l’affidamento e la responsabilità genitoriale”. Ma prima di proporre qualche riflessione sulla Relazione della Commissione, è necessario ricordare che la Convenzione di Istanbul (ovvero Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica) è stata ratificata dall’Italia (con la Legge 77/2013), e che l’articolo 18 della stessa stabilisce che gli Stati firmatari accertino che le misure adottate in materia di protezione e sostegno alle vittime «mirino ad evitare la vittimizzazione secondaria», e «soddisfino i bisogni specifici delle persone vulnerabili, compresi i minori vittime di violenze e siano loro accessibili» (grassetti miei in queste e nelle successive citazioni testuali). Va altresì segnalato che il Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2021-2023, approvato il 17 novembre 2021 dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri annovera, tra le sue finalità, anche «la tutela delle […] vittime di discriminazioni multiple» (pag. 1), e tra i princìpi ispiratori, quelli dell’inclusione, nella prospettiva di considerare le vulnerabilità e le discriminazioni delle vittime, e dell’intersezionalità, giacché la parità di genere va considerata in rapporto a tutte le possibili discriminazioni (pag. 2).
Effettuati questi doverosi richiami, ci avventuriamo nella Relazione, che prende le mosse dalla seguente motivazione: «La Commissione, sollecitata anche dalle numerose richieste di madri vittime di violenza a cui sono stati – in molti casi – sottratti i figli, facendosi carico di questo tema, ha deliberato di svolgere un’inchiesta volta a verificare la concreta attuazione in Italia dei principi della Convenzione di Istanbul e a individuare la portata del fenomeno cosiddetto di vittimizzazione secondaria in danno di donne e minori vittime di violenza. La necessità di accertare le dimensioni e l’ampiezza del fenomeno della vittimizzazione secondaria è derivata, inoltre, dalla consapevolezza che solo una risposta coerente di tutte le istituzioni può arginare la diffusione dell’endemico fenomeno della violenza domestica e di genere. Non si può reprimere la violenza domestica nella normativa sanzionatoria penale e nei procedimenti penali, ed ignorarne gli effetti nei procedimenti che abbiano ad oggetto la disciplina dell’affidamento dei figli o della responsabilità genitoriale», si legge nella Premessa, a pagina 2). Rimando per un approfondimento sui contenuti della Relazione alla nota informativa Vittimizzazione secondaria delle donne vittime di violenza e dei loro figli: sì alla Relazione del 4 maggio 2022, redatta dall’avvocata Irene Marconi per il quotidiano giuridico «Altalex». In questa sede mi limito a verificare se e in che modo le donne con disabilità siano state considerate nell’indagine sulla vittimizzazione secondaria e nella stesura della Relazione che ne è conseguita.
Nella Relazione è specificato che nell’àmbito dei lavori la Commissione ha svolto anche un’ampia serie di audizioni di esperti ed esperte della materia. Questi sono indicati nella nota 4 (a pagina 3 e seguenti). Tra i tanti soggetti auditi figura Elena Bonetti, ministra per le Pari Opportunità e la Famiglia, Carla Garlatti, garante nazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza, ma non Erika Stefani, ministra per le Disabilità, né l’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità (al cui interno si è costituito un Gruppo di lavoro – il Gruppo 9 – specificamente dedicato alle donne con disabilità).
Nella Relazione è evidenziato che «Come tutta la violenza di genere, anche la vittimizzazione secondaria ha profonde radici culturali: i rappresentanti delle istituzioni, in quanto espressione della società, possono essere portatori, anche inconsapevoli, di pregiudizi e stereotipi di genere che sono alla base della violenza domestica, con possibile tendenza a colpevolizzare la vittima (cosiddetto victim blaming)», si legge nella parte dedicata alla definizione dell’àmbito dell’indagine (pag. 8). Vero, verissimo, ma di pregiudizi e stereotipi ve ne sono altrettanti sulla capacità genitoriale delle donne con disabilità, e questi non sono stati minimamente illustrati. Sono quelli che ritengono che le donne con disabilità dovrebbero evitare di diventare madri perché ciò arrecherebbe un danno alla società, alla comunità o alla famiglia; e quelli che ritengono che la disabilità le renda incapaci di essere buone madri e di prendersi cura dei propri figli e figlie in modo adeguato.
Nella relazione gli unici riferimenti accostabili a una qualche forma di disabilità sono quelli inerenti alle perizie disposte nelle consulenze tecniche d’ufficio. Dall’indagine campionaria illustrata nella Relazione risulta che «il 7,8% (8 su 102) dei casi riporta diagnosi patologiche inserite nel DSM-5 (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), di cui metà sono riferite al padre e metà alla madre» (pag. 33). Altri accenni si trovano nei cosiddetti provvedimenti provvisori, nei quali sono rilevati «incarichi al [i.e. ai] Servizi per le Tossicodipendenze (SERT) e [ai] Servizi per le Dipendenze patologiche (SERD) ed ai centri di salute mentale» (pag. 53), e nelle decisioni conclusive dove, tra le indicazioni rivolte ai servizi sociali, vi sono gli «invii a SERT/ SERD e a centri di igiene mentale» (pag. 59).
Un passaggio interessante è questo: «le valutazioni delle consulenze tecniche d’ufficio sulle madri hanno rilevato i seguenti giudizi: ostativa/alienante; condizionante; patologica; disfunzionale; simbiotica/fusionale; vittimistica/non riflessiva; accusata di violazione della bigenitorialità/non accesso. Nelle consulenze emergono altresì in alcuni casi i giudizi di una patologia in atto e i giudizi di una disfunzionalità grave, su cui si sono basati i provvedimenti urgenti di allontanamento e prelievo del minore, senza che poi le successive smentite di queste valutazioni diagnostiche, operate dai servizi sanitari come quelli di salute mentale e neuropsichiatria, portassero ad una revisione del provvedimento: agli atti si trovano infatti i certificati del Servizio Sanitario Nazionale che attestano la mancanza di patologia nelle donne, giudicate invece patologiche dai consulenti e senza riscontri per altro con la loro storia anamnestica» (pag. 72). Da esso si rileva che i provvedimenti di allontanamento e prelievo del minore sono considerati illegittimi perché le valutazioni diagnostiche successive hanno smentito la presenza di patologie (psichiatriche) nella donna… se ne deduce la presenza di una patologia (psichiatrica) sia considerata una causa legittima di allontanamento e prelievo del figlio minore.
Nella sostanza nella relazione la variabile della disabilità delle madri vittime di violenza non è stata considerata. Uno dei passaggi evidenziati lascia intravvedere un pregiudizio nei confronti della capacità genitoriale delle donne con disabilità psichiatrica. Anche la tutela delle vittime di discriminazioni multiple e i princìpi di inclusione e di intersezionalità, presenti nel il Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2021-2023, sembrano finiti nel dimenticatoio. Nei mesi scorsi come centro Informare un’h avevamo denunciato pubblicamente come la norma che disciplina le rilevazioni statistiche sulla violenza di genere (approvata in via definitiva lo scorso 27 aprile) non prevedesse che i dati rilevati nelle indagini disposte dal provvedimento fossero disaggregati anche per la disabilità della vittima. In quel caso, dopo la mobilitazione di molte Associazioni, la lacuna è stata colmata con un ordine del giorno presentato dall’onorevole Lisa Noja, e recepito dal Governo, nel quale lo stesso si è impegnato a sanare le criticità. Nel caso della Relazione sulla vittimizzazione secondaria l’indagine si è già conclusa ed è difficile trovare un rimedio a posteriori.
Per la seconda volta in pochi mesi le donne con disabilità sono state ignorate e discriminate dalle Istituzioni: prima dal Parlamento, con la norma sulle indagini statistiche in tema di violenza di genere, e ora dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio. È difficile trovare motivi per continuare ad avere fiducia nelle Istituzioni. Almeno non in queste.
Simona Lancioni
Responsabile di Informare un’h – Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (PI).
Vedi anche:
Rosalba Taddeini e Flavia Landolina, Le donne con disabilità e le forme della vittimizzazione secondaria, «Informare un’h», 10 giugno 2022.
Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “La violenza nei confronti delle donne con disabilità”.
Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “Donne con disabilità”.
Data di creazione: 1 Giugno 2022
Ultimo aggiornamento il 10 Giugno 2022 da Simona