Le donne esposte a discriminazione intersezionale, tra le quali rientrano le donne con disabilità, corrono un rischio maggiore, rispetto alle altre, di subire violenze di genere, e gli Stati membri dell’Unione Europea devono prestare la dovuta attenzione a questo aspetto adottando misure specifiche per loro: è questa una delle tante prescrizioni a tutela delle donne con disabilità contenute nella “Direttiva Europea sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica” adottata pochi giorni fa. La stessa scelta del Parlamento Europeo di utilizzare lo strumento della Direttiva per disciplinare la materia potrebbe rivelarsi ancora più efficace, rispetto ad altri strumenti già esistenti, nel contrastare il fenomeno della violenza di genere.
Come abbiamo già avuto modo di riferire, lo scorso mercoledì 24 aprile il Parlamento dell’Unione Europea ha approvato in via definitiva – con 522 voti a favore, 27 contrari e 72 astensioni – la Direttiva sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica (la versione definitiva del testo è disponibile in lingua italiana a questo link). Accolto con un favore trasversale agli schieramenti del Parlamento, il testo della Direttiva è stato elaborato anche col contributo della Lobby Europea delle Donne (EWL) e del Forum Europeo sulla Disabilità (l’EDF, all’interno del quale opera anche il Forum Italiano sulla Disabilità, il FID), e sebbene non siano state incluse importanti istanze – tra le quali, una definizione di stupro basata sull’assenza consenso, e la criminalizzazione della sterilizzazione forzata (una terribile forma di violenza a cui sono particolarmente esposte le donne con disabilità, se ne legga a questo link) –, si tratta comunque della prima Direttiva che stabilisce che a tutte le donne e le ragazze che si trovano nell’Unione Europea devono essere garantiti gli stessi diritti minimi alla protezione dalla violenza di genere indipendentemente dal Paese di residenza.
È proprio l’articolo 1 a chiarire che l’oggetto della Direttiva consiste nello stabilire «norme per prevenire e combattere la violenza contro le donne e la violenza domestica». Ed in particolare essa fissa norme minime riguardanti la definizione dei reati e delle sanzioni in materia di sfruttamento sessuale femminile e minorile e di criminalità informatica; i diritti delle vittime di tutte le forme di violenza contro le donne o di violenza domestica prima, durante e per un congruo periodo dopo il procedimento penale; la protezione e l’assistenza delle vittime, nonché la prevenzione di detta violenza e un intervento precoce qualora si verifichi.
La Direttiva contiene anche numerosi e specifici riferimenti posti a tutela delle donne con disabilità. Il presente testo si propone di illustrarli. E tuttavia, per comprenderne appieno l’importanza è necessario chiarire che le Direttive sono una delle fonti derivate del Diritto dell’Unione Europea. I destinatari delle Direttive sono gli Stati membri dell’Unione, i quali sono vincolati al raggiungimento degli scopi indicati dalla Direttiva entro un certo limite temporale. Nel caso della Direttiva sulla violenza di genere questo limite è stato fissato in tre anni dalla data di entrata in vigore della stessa (articolo 49), vale a dire a partire dal ventesimo giorno successivo alla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea (articolo 50). E se agli Stati membri è lasciata piena libertà quanto alla scelta della forma e dei mezzi da utilizzare per il raggiungimento degli scopi della stessa, va tenuto ben presente che l’inosservanza del termine indicato per il conseguimento di detti scopi si configura come una violazione del Trattato sull’Unione Europea (TUE).
Fatte queste fondamentali precisazioni, dall’esame del testo risulta che le specificità delle donne con disabilità sono ripetutamente considerate sia nella parte introduttiva, che nei diversi Capi in cui la Direttiva è articolata.
Un primo riferimento alla disabilità si trova nella parte introduttiva allorquando nella Direttiva è esplicitato l’intento di sostenere gli impegni internazionali assunti dagli Stati membri per combattere e prevenire la violenza contro le donne e la violenza domestica, e tra i diversi trattati all’origine di tali impegni è indicata anche la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (punto 4).
Poco più avanti (al punto 6) è illustrato come «la violenza contro le donne e la violenza domestica possono essere ancor più gravi quando si intersecano con la discriminazione fondata sul sesso in combinazione con altri motivi di discriminazione», di cui all’articolo 21 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, e la disabilità è esplicitamente citata tra i motivi che possono fare insorgere una «discriminazione intersezionale» (segnaliamo che la formattazione utilizzata non è corrispondente a quella originale né in queste, né nelle successive citazioni testuali). «È pertanto opportuno che gli Stati membri prestino la dovuta attenzione alle vittime colpite da questa discriminazione intersezionale, adottando misure specifiche – si legge ancora nel medesimo punto –. Il rischio di subire violenza di genere è ancora maggiore per le persone colpite da discriminazione intersezionale. Gli Stati membri dovrebbero pertanto tenere conto di questo maggiore livello di rischio nell’attuazione delle misure previste dalla presente Direttiva, in particolare per quanto riguarda la valutazione individuale per determinare le esigenze di protezione delle vittime, l’assistenza specialistica alle vittime nonché la formazione e l’informazione dei professionisti che potrebbero entrare in contatto» con esse.
Al punto 9 sono indicati alcuni reati previsti dagli ordinamenti nazionali che la Direttiva considera inclusi nella definizione di violenza contro le donne. Tra essi vi sono annoverati anche l’aborto e la sterilizzazione forzati, e sebbene non vi sia un riferimento esplicito alle donne con disabilità, un’ampia letteratura scientifica documenta come queste ultime vi siano esposte in modo sproporzionato rispetto alle altre donne. Si parla delle vittime di aborto e sterilizzazione forzati anche al punto 57, prescrivendo che anch’esse dovrebbero essere sostenute dai servizi di assistenza specialistica, «indipendentemente dal fatto che abbiano presentato o meno una denuncia formale» (ma, come al punto 9, manca un riferimento esplicito alle donne con disabilità).
In merito al reato di stalking online (gli atti persecutori attuati mediante dispositivi tecnologici come, ad esempio, quelli per il monitoraggio della vittima senza il suo consenso), è specificato che «vi sono tuttavia situazioni in cui la sorveglianza è effettuata per motivi legittimi, ad esempio nel contesto di genitori che monitorano l’ubicazione e le attività online dei figli, di parenti che monitorano la salute di persone malate, anziane, vulnerabili o con disabilità, oppure di monitoraggio dei media e intelligence da fonte aperta» (punto 21). A parere di chi scrive, questa formulazione presenta una pericolosa ambiguità nella parte in cui si parla di “sorveglianza effettuata per motivi legittimi” senza tuttavia prescrivere che essa deve comunque essere subordinata al consenso dei soggetti adulti che vi sono sottoposti.
«Nel valutare le esigenze di protezione e assistenza della vittima, la preoccupazione principale dovrebbe essere garantirne l’incolumità e fornirle un’assistenza su misura, tenendo conto tra l’altro della sua situazione individuale», è scritto al punto 39, che prosegue includendo «i rischi per le vittime con disabilità» nell’elenco delle diverse situazioni che richiedono una particolare attenzione.
Par farsi carico in modo efficace delle molteplici esigenze di protezione e assistenza delle vittime, agli Stati membri è richiesto di agevolare l’accesso ai servizi di assistenza specialistica attraverso un «punto di accesso unico online» che «richiederebbe, come minimo, che sia creato e aggiornato un sito web unico in cui reperire tutte le informazioni utili sui servizi di assistenza e protezione disponibili e le indicazioni per accedervi. Tale sito web dovrebbe rispettare i requisiti di accessibilità per le persone con disabilità», è scritto al punto 60 della parte introduttiva.
In merito alle case rifugio e alle altre sistemazioni temporanee adeguate per le vittime di atti di violenza, è specificato che esse, «oltre ad essere strutture di accoglienza sicure, dovrebbero fornire anche l’assistenza necessaria per tutti i problemi collaterali riguardanti la salute della vittima, compresa la salute mentale, la sua situazione finanziaria e il benessere dei suoi figli, preparandola in ultima analisi ad affrontare una vita autonoma» (punto 67).
Il punto 71 ribadisce e integra quanto già espresso nel punto 6, ovvero che «le vittime di discriminazione intersezionale sono esposte a un maggiore rischio di violenza», che tra queste potrebbero figurare, tra le altre, anche le donne con disabilità, e che esse «dovrebbero pertanto ricevere una protezione e un’assistenza specifiche».
Ancora più esplicito è il punto 72, dove è evidenziato che le donne con disabilità sono esposte a violenza di genere ed a violenza domestica in misura non comune, e che «a causa della loro disabilità hanno spesso difficoltà ad accedere a misure di protezione e assistenza. È pertanto opportuno che gli Stati membri provvedano affinché queste possano pienamente godere dei diritti stabiliti nella presente Direttiva» sulla base di parità con le altre vittime, e «prestando nel contempo la dovuta attenzione alla loro particolare vulnerabilità e alle loro probabili difficoltà a ottenere aiuto».
Riguardo alle appropriate misure preventive che dovrebbero essere adottate dagli Stati membri, è segnalato che esse potrebbero includere campagne di sensibilizzazione per contrastare la violenza contro le donne e la violenza domestica, ed interventi educativi svolti nell’àmbito dell’istruzione formale, è sancito al punto 74. «Tenendo conto delle barriere linguistiche e dei diversi livelli di alfabetizzazione e abilità, gli Stati membri dovrebbero rivolgere misure mirate ai gruppi a rischio, tra cui i minori, in funzione della loro età e maturità, le persone con disabilità, [ecc.]», è specificato nel medesimo punto.
«Per far sì che le vittime siano identificate e ricevano un’assistenza e una protezione adeguate, gli Stati membri dovrebbero garantire che i funzionari che possono entrare in contatto con le vittime seguano un’apposita formazione e ottengano informazioni mirate» (punto 77). Tra i funzionari indicati vi sono: il personale giudiziario, gli avvocati, i pubblici ministeri, i giudici e gli operatori che forniscono alle vittime sostegno o servizi di giustizia riparativa. «Tale formazione dovrebbe comprendere, se del caso, una formazione sugli specifici servizi di sostegno cui indirizzare le vittime o una specializzazione qualora debbano occuparsi di vittime con esigenze particolari e una formazione specifica in campo psicologico». In questo caso il riferimento alle donne con disabilità è implicito, essendo esse ricomprese tra le “vittime con esigenze particolari”.
Sin qui abbiamo visto la parte preliminare. Ora entriamo nel merito dei singoli articoli della Direttiva.
Nelle Disposizioni generali (Capo 1), vi è un solo riferimento indiretto alla disabilità. Esso si trova nell’articolo 2 (Definizioni) quando viene definita la “persona a carico”, intendendo con tale espressione «il figlio minore della vittima o qualsiasi altra persona diversa dall’autore del reato o dall’indagato, che convive con la vittima e [a] cui la vittima fornisce cure e sostegno». Consideriamo questo un riferimento indiretto alle persone con disabilità perché esso descrive una situazione in cui possono trovarsi le persone non autosufficienti (si pensi, ad esempio, alle persone con disabilità supportate dai/dalle rispettivi/e caregiver).
Nel Capo 2, dedicato ai Reati di sfruttamento sessuale femminile e criminalità informatica, gli unici riferimenti alla disabilità si trovano nella disciplina delle Circostanze aggravanti (articolo 11), che potrebbero essere introdotte, tra gli altri, nel caso in cui «il reato è commesso nei confronti di una persona in situazione di particolare vulnerabilità, ad esempio in stato di dipendenza o di disabilità fisica, mentale, intellettuale o sensoriale», o quando «la condotta ha causato la morte della vittima o arrecato un grave danno fisico o psicologico» alla stessa. Quest’ultima situazione può rimandare al caso, non infrequente, che la violenza sia causa di disabilità.
Il Capo 3, Protezione delle vittime e accesso alla giustizia, contiene indicazioni molto importanti e utili per la nostra analisi. Infatti l’articolo 14 (Denuncia di violenza contro le donne o di violenza domestica) prescrive che gli Stati membri provvedano «affinché la vittima possa denunciare alle autorità competenti atti di violenza contro le donne o di violenza domestica attraverso canali accessibili, di facile utilizzo e prontamente disponibili», ed include fra questi, almeno per i reati informatici, la possibilità che vengano segnalati con dispositivi «online o tramite altre TIC [tecnologie dell’informazione e della comunicazione, N.d.R.] accessibili e sicure». Le stesse modalità possono essere utilizzate per presentare elementi di prova della violenza contro le donne o della violenza domestica. Risulta evidente quanto questi richiami all’accessibilità possano essere fondamentali nel permettere un effettivo accesso alla giustizia anche alle donne con disabilità.
Nell’articolo 16 (Valutazione individuale delle esigenze di protezione delle vittime) ci sono due riferimenti alla disabilità. Il primo si riferisce alla valutazione del rischio che può rappresentare l’autore del reato o indagato qualora abbia, tra le altre eventualità, «problemi di salute mentale». A parere di chi scrive tale formulazione si presta a rafforzare il pregiudizio che le persone con problemi di salute mentale siano violente. Più chiara è invece la disposizione che la valutazione individuale debba tenere conto della situazione specifica della vittima, compresa l’eventualità che subisca discriminazioni intersezionali (che la espongono a un maggior rischio di violenza), «e di quanto riferito dalla vittima e della sua valutazione della situazione». La valutazione individuale, si legge ancora, «è condotta nell’interesse superiore della vittima, prestando particolare attenzione alla necessità di evitare la vittimizzazione secondaria o ripetuta».
Agli Stati membri dell’Unione Europea è indicata anche la possibilità di «emanare orientamenti per i casi di violenza contro le donne o di violenza domestica per le autorità competenti che agiscono nei procedimenti penali, compresi orientamenti sull’azione penale», lo prevede l’articolo 21 (Orientamenti per le forze dell’ordine e le autorità inquirenti), il quale specifica che «tali orientamenti sono attenti alla prospettiva di genere, hanno natura consultiva e possono includere linee guida», tra gli altri aspetti, anche per «interagire con le vittime in modo consono al trauma, alla dimensione di genere, alla disabilità e all’età del minore», o per «sensibilizzare in merito a tutti i gruppi di vittime nel contesto della violenza domestica».
Rientra nell’àmbito del Capo 4 (Assistenza alle vittime) l’articolo 25 che disciplina l’Assistenza specialistica alle vittime, stabilendo che essa vada fornita «indipendentemente dal fatto che abbiano presentato querela». Tali servizi, prosegue la Direttiva, «sono adattati alle esigenze delle vittime e sono facilmente accessibili e prontamente disponibili, anche online o attraverso altri mezzi adeguati, come le TIC», e sono «necessari per rispondere in modo esauriente alle molteplici esigenze delle vittime». In questo caso non vi è un riferimento alle donne con disabilità, ma il richiamo all’accessibilità e quello a “rispondere in modo esauriente alle molteplici esigenze delle vittime” lascia intendere che anche le esigenze delle donne con disabilità non possano essere disattese. Tale interpretazione è da considerarsi verosimile anche alla luce di un’altra disposizione contenuta nel medesimo articolo: «gli Stati membri provvedono affinché siano emanati orientamenti e protocolli a beneficio dei professionisti della sanità e dei servizi sociali» che, tra le altre cose, indichino «come rispondere alle esigenze specifiche delle vittime a maggior rischio di violenza a causa di discriminazioni fondate su una combinazione di sesso e qualsiasi altro motivo di discriminazione».
«Gli Stati membri predispongono centri anti-stupro o centri anti-violenza sessuale adeguatamente attrezzati e facilmente accessibili, che possono far parte del sistema sanitario nazionale, per garantire un’assistenza efficace alle vittime di violenza sessuale», è la disposizione contenuta nell’articolo 26 (Assistenza specialistica alle vittime di violenza sessuale), che specifica anche che detti servizi includono anche quelli per la salute sessuale e riproduttiva e «sono gratuiti, fatti salvi i servizi previsti dal sistema sanitario nazionale, e accessibili ogni giorno della settimana».
In base all’articolo 29 (Linee di assistenza telefonica per le vittime) «gli Stati membri provvedono affinché le linee di assistenza telefonica a livello statale siano disponibili gratuitamente 24 ore al giorno e sette giorni alla settimana, per fornire informazioni e consulenza alle vittime». Lo stesso articolo incoraggia gli Stati a fornire le linee telefoniche di assistenza anche attraverso altre TIC sicure e accessibili, comprese le applicazioni online. Esso prevede inoltre che essi adottino misure adeguate per garantire agli utenti finali con disabilità l’accesso a questi servizi, «anche fornendo assistenza in un linguaggio di facile comprensione. Tali servizi sono accessibili in linea con i requisiti di accessibilità per i servizi di comunicazione elettronica» definiti dalla Direttiva (UE) 2019/882 del Parlamento Europeo e del Consiglio.
Tra i servizi di assistenza alle vittime rientrano certamente le Case rifugio e altre sistemazioni temporanee (di cui all’articolo 30), che «rispondono specificamente alle esigenze delle vittime, tra cui quelle delle vittime ad alto rischio […] fornendo loro condizioni di vita sicure, facilmente accessibili e adeguate ai fini del ritorno a una vita indipendente». Torna quindi, ancora una volta il tema dell’accessibilità, anche immateriale, sia nella disposizione appena citata, sia nella seguente: «le case rifugio e altre adeguate sistemazioni temporanee devono essere fornite in numero sufficiente e devono essere facilmente accessibili e attrezzate per soddisfare le esigenze specifiche delle donne».
Sotto quest’ultimo profilo sono molto importanti anche le disposizioni contenute nell’articolo 33, in tema di Assistenza mirata alle vittime con esigenze intersezionali e ai gruppi a rischio. Proprio in virtù di questo articolo gli Stati membri debbono provvedere «affinché sia prestata un’assistenza specifica alle vittime di discriminazioni intersezionali che sono a maggior rischio di violenza contro le donne o di violenza domestica». Esso prescrive anche che i servizi di assistenza specialistica, le case rifugio e altre eventuali sistemazioni temporanee «devono disporre di capacità sufficienti per accogliere le vittime con disabilità tenendo conto delle loro esigenze specifiche, compresa l’assistenza personale». Il fatto di aver previsto che alle vittime di violenza con disabilità debba essere fornita anche l’assistenza personale è uno degli elementi più qualificanti e innovativi dell’intera Direttiva.
Il Capo 5 si occupa di Prevenzione e intervento precoce. L’articolo 34 (Misure preventive) non contiene riferimenti espliciti alla disabilità, ma prevede che venga adottato un approccio globale a più livelli, e che le campagne o programmi di sensibilizzazione possano essere messi a punto in cooperazione con le pertinenti organizzazioni della società civile, i servizi di assistenza specialistica, le parti sociali, le comunità interessate e altri portatori di interessi. Questo fa pensare che anche le organizzazioni di persone con disabilità possano essere coinvolte, anche perché le informazioni in materia che gli Stati membri mettono a disposizione del pubblico devono essere «presentate in formati accessibili alle persone con disabilità».
L’articolo 35 disciplina le Misure specifiche per prevenire lo stupro e promuovere il ruolo centrale del consenso nelle relazioni sessuali, ma non contiene riferimenti espliciti alla disabilità. Un unico riferimento indiretto può essere rinvenuto allorquando, parlando del materiale di educazione al consenso nelle relazioni sessuali, è specificato che esso «è adattato all’evoluzione delle capacità delle persone cui è destinato».
Un richiamo diretto alla disabilità è invece contenuto nell’articolo 36 sulla Formazione e informazione dei professionisti. Infatti, quando si parla della formazione sia generale che specialistica che deve essere fornita ai giudici e ai pubblici ministeri coinvolti nei procedimenti penali relativi a casi di violenza di genere e/o domestica, è spiegato come essa sia «basata sui diritti umani, incentrata sulle vittime e sensibile alle specificità di genere, delle persone con disabilità e dei minori». È inoltre specificato che le attività di formazione rivolte ai funzionari che hanno probabilità di entrare in contatto con le vittime (come gli agenti di polizia e il personale giudiziario), ed anche al personale sanitario (professionisti/e della sanità interessati/e, compresi pediatri/e, ginecologi/ghe, ostetrici/che e psicologi/ghe) «possono comprendere una formazione sul modo di individuare e affrontare le esigenze specifiche di protezione e assistenza delle vittime esposte a maggior rischio di violenza a causa della discriminazione intersezionale». In questo caso il richiamo è quasi diretto, visto che, come chiarito più volte, le donne con disabilità rientrano tra i gruppi soggetti a discriminazione intersezionale.
Spiace infine constatare che nella parte dedicata alla Raccolta dei dati e ricerca (articolo 34, inserito nel Capo 6, Coordinamento e cooperazione), non sia esplicitamente richiesto che i dati vengano disaggregati anche per la disabilità della vittima. Possiamo però sperare che, poiché l’Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione Europea, ha recentemente varato due nuovi strumenti per migliorare la fruibilità e la comparabilità dei dati sulle persone con disabilità dell’UE (se ne legga a questo link), questo orientamento sia mantenuto anche nelle indagini in tema di violenza di genere.
In conclusione, possiamo convenire che per gli Stati membri dell’Unione Europea – che pure già dispongono di altri importanti atti giuridici di contrasto alla violenza di genere (si pensi, ad esempio, alla Convenzione di Istanbul, ovvero la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica) –, dover tener conto delle priorità individuate dalla Direttiva in esame, con i vincoli anche temporali stabiliti per l’attuazione degli scopi in essa indicati, potrebbe rivelarsi una modalità ancora più efficace per contrastare il fenomeno della violenza contro le donne e la violenza domestica. O almeno ce lo auguriamo. Le tante misure introdotte a tutela delle donne con disabilità da questo nuovo strumento, se concretamente attuate, introdurrebbero un importante rinnovamento nella rete dei servizi antiviolenza che al momento attuale, almeno in Italia, fate salve poche apprezzabili eccezioni, risulta ancora complessivamente impreparata ad individuare e a rispondere alle loro esigenze specifiche.
Simona Lancioni
Responsabile di Informare un’h – Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa)
Vedi anche:
Il Parlamento Europeo approva la Direttiva sulla lotta alla violenza contro le donne, «Informare un’h», 25 aprile 2024.
A rischio l’adozione della Direttiva Europea in tema di violenza contro le donne, «Informare un’h», 23 aprile 2024.
Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “La violenza nei confronti delle donne con disabilità”.
Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “Donne con disabilità”.
Ultimo aggiornamento il 14 Maggio 2024 da Simona