C’è una componente del linguaggio inclusivo che solitamente non è sondata da chi si occupa di disabilità, vale a dire l’uso del genere linguistico quando ci si rivolge a una moltitudine mista di persone. Ce ne occupiamo in questo spazio cercando di conciliare l’accessibilità della comunicazione e delle informazioni alle persone con disabilità con l’inclusività delle differenze tra i generi.
L’articolo 21 (Libertà di espressione e opinione e accesso all’informazione) della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (ratificata dall’Italia con la Legge 18/2009) prescrive che gli Stati Parti adottino «tutte le misure adeguate a garantire che le persone con disabilità possano esercitare il diritto alla libertà di espressione e di opinione, ivi compresa la libertà di richiedere, ricevere e comunicare informazioni e idee su base di uguaglianza con gli altri e attraverso ogni mezzo di comunicazione di loro scelta» (grassetti nostri nella citazione). L’articolo 21 individua anche specifiche misure atte a conseguire questo scopo: mettere a disposizione delle persone con disabilità le informazioni destinate al grande pubblico in forme accessibili e mediante tecnologie adeguate ai differenti tipi di disabilità, tempestivamente e senza costi aggiuntivi; accettare e facilitare nelle attività ufficiali il ricorso da parte delle persone con disabilità, alla lingua dei segni, al Braille, alle comunicazioni aumentative ed alternative e ad ogni altro mezzo, modalità e sistema accessibile di comunicazione di loro scelta; richiedere agli enti privati che offrono servizi al grande pubblico, anche attraverso internet, di fornire informazioni e servizi con sistemi accessibili e utilizzabili dalle persone con disabilità; incoraggiare i mass media, inclusi gli erogatori di informazione tramite internet, a rendere i loro servizi accessibili alle persone con disabilità; riconoscere e promuovere l’uso della lingua dei segni.
Come possiamo constatare la libertà di espressione e di opinione è strettamente legata all’accessibilità della comunicazione e delle informazioni, e presenta un certo grado di complessità. Potremmo semplificare dicendo che persone con disabilità diverse fruiscono delle informazioni e comunicano con modalità diverse, ma questa è un’affermazione imprecisa perché talvolta anche le persone con lo stesso tipo di disabilità fanno scelte diverse su questa materia, e, potendo optare tra diverse soluzioni, esprimono delle preferenze personali. Si pensi, solo a titolo esemplificativo, alle persone sorde, alcune delle quali utilizzano le protesi, mentre altre non lo fanno, alcune delle quali comunicano con la lingua dei segni italiana (LIS), mentre altre leggono il labiale, ecc. Va inoltre precisato che, oltre a questi aspetti, è necessario considerare anche l’accessibilità dei diversi tipi di supporti, ed in particolare di quelli digitali, quelli fruibili in loco o da remoto (attraverso internet), della miriade di applicazioni che ideate in relazione a questo o a quel servizio, dei materiali e degli strumenti impiegati nella didattica, ecc. E, volendo allargare ulteriormente lo sguardo, dovremmo considerare anche l’accessibilità dei prodotti culturali, dell’arte e dei musei, e tanto altro ancora. Insomma, l’argomento è complesso, sfaccettato, potenzialmente sterminato ed in continua evoluzione.
In parallelo al tema dell’accessibilità della comunicazione e delle informazioni diventa opportuna anche una riflessione sui contenuti e sulle forme del linguaggio, con riferimento a ciò che – prendendo in prestito il nome di un interessante progetto consultabile online – potremmo chiamare “parlare civile”, intendendo con questa espressione sia la comunicazione volta a riconoscere, rispettare e valorizzare le innumerevoli espressioni della diversità umana, sia un linguaggio che non discrimina (o almeno ci prova).
Su questi temi chi opera nel settore della disabilità ha disquisito a lungo producendo una vasta letteratura. Pertanto, proprio perché questi aspetti sono già stati ampiamente trattati ed esposti, non è su di essi che vogliamo soffermarci in questo spazio, anche se era necessario fare un cenno al tema dell’accessibilità perché essa costituisce il prerequisito di qualsiasi riflessione che voglia essere inclusiva delle persone con disabilità. Posto dunque che la comunicazione e l’informazione debbano essere accessibili anche alle persone con disabilità, in questo spazio vogliamo soffermarci su alcune questioni linguistiche.
C’è una componente del linguaggio inclusivo che solitamente non è sondata da chi si occupa di disabilità, vale a dire l’uso del genere linguistico quando ci si rivolge ad una moltitudine mista di persone. Proviamo a spiegare meglio di che si tratta. Il centro Informare un’h, occupandosi con una certa frequenza di disabilità al femminile, ha constatato come l’invisibilità che spesso caratterizza le donne con disabilità dipenda almeno in parte da un certo uso del linguaggio. Capita ancora troppo frequentemente che la narrazione delle persone con disabilità non presti attenzione alle differenze di genere, e questa modalità ha veicolato i messaggi che le differenze tra donne e uomini con disabilità non ci siano o siano irrilevanti, e che le donne con disabilità non abbiano un punto di vista specifico e delle altrettanto specifiche esigenze. Per ovviare a questo problema, oltre a sensibilizzare sulle questioni del genere femminile (si veda l’apposta sezione tematica), abbiamo cercato di evitare, per quanto possibile, l’uso del maschile sovraesteso. Quando c’è da indicare una moltitudine di persone in cui sia presente anche un solo maschio la lingua italiana prevede che si usi il maschile. Un esempio aiuta a illustrare cosa intendiamo. Se diciamo “tutti gli uomini sono uguali” chi ascolta intende che sia gli uomini che le donne sono uguali; ma se diciamo “tutte le donne sono uguali” difficilmente chi ascolta intende che ci stiamo riferendo anche ai maschi, questo perché nel linguaggio corrente il maschile si sovraestende sino ad includere anche il femminile (come abbiamo visto nell’esempio), mentre solitamente non accade il contrario. Per evitare il maschile sovraesteso si possono usare diverse soluzioni. Facciamo qualche esempio di quelle che abbiamo utilizzato sino ad ora: invece di dire “buongiorno a tutti” abbiamo usato la doppia forma: “buongiorno a tutti e a tutte”, oppure abbiamo fatto ricorso alla barra seguita dalla desinenza femminile: “buongiorno a tutti/e”, o, ancora, abbiamo usato un termine che non connota il genere: “buongiorno a tutte le persone”. Tuttavia le prime due soluzioni hanno il difetto di fare riferimento solo al genere maschile e a quello femminile (modello di genere binario), e di non rappresentare – e dunque escludere – le persone che non si identificano né con l’uno né con l’altro genere (modello di genere non binario o genderqueer). Nella sostanza si pongono anche per le persone di genere non binario lo stesso tipo di questioni linguistiche accennate pocanzi in relazione al genere femminile: quella di utilizzare un linguaggio che riconosca questa differenza, e quella di rendere visibili anche queste persone nominandole esplicitamente nel discorso pubblico.
Ovviamente la comunità delle persone LGBTQIA+ (Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transessuali, Queer, Intersessuali e Asessuali) si sta occupando da tempo (da quattro o cinque anni) di questi aspetti. Tra le tante idee che sono in fase di sperimentazione alcune propongono di sostituire le desinenze del maschile e del femminile con caratteri non alfabetici o non presenti nell’alfabeto italiano standard quali l’asterisco (ad esempio: tutt*), la chiocciola (tutt@), o lo schwa (tuttə), quest’ultimo è una vocale che graficamente si presenta come una piccola ‘e’ rovesciata. Nel testo Lo schwa tra fantasia e norma («La Falla», 29 luglio 2020) la sociolinguista specializzata in comunicazione digitale Vera Gheno riassume il percorso fatto sino ad ora e le tante proposte in sperimentazione (nell’articolo ne cita 16) per promuovere un linguaggio inclusivo e rispettoso di tutti i generi. Gheno dichiara di avere una «preferenza per lo schwa perché questo simbolo, che appartiene all’alfabeto fonetico internazionale o IPA, International Phonetic Alphabet, rappresenta la vocale media per eccellenza: quella che possiamo pronunciare senza deformare in alcun modo la bocca (laddove A-E-I-O-U richiedono di fare… delle smorfie). Per chi non ne avesse chiaro il suono (che però è naturalmente presente in molti dialetti del Meridione), è una specie di forma intermedia tra A ed E. Per questa sua caratteristica, mi pare particolarmente adatto per il ruolo di identificatore del mix di generi maschile e femminile o di una moltitudine mista. Il vantaggio è che, al contrario di altri simboli non alfabetici, ha un suono (e un suono davvero medio, non come la U che in alcuni dialetti denota un maschile). Il problema principale è che il simbolo non compare al momento sulle tastiere di cellulari o computer; personalmente, o lo recupero dalla mappa caratteri oppure lo cerco e copio da Google» (nella citazione non è stata rispettata la formattazione utilizzata nel testo originale). Per conoscere la pronuncia e la storia dello schwa si può visionare il breve filmato (9.44 minuti) intitolato Brevissima storia dello schwa, anche questo realizzato da Gheno.
Anche il sito Italiano inclusivo promuove l’uso dello schwa per il singolare e dello schwa lungo (з) per il plurale, un carattere, quest’ultimo, che graficamente somiglia ad un tre. Per la pronuncia dello schwa lungo rimandiamo a quella che si può ascoltare attraverso lo schema delle vocali dell’alfabeto fonetico internazionale. Tuttavia abbiamo constatato che l’impiego dello schwa e dello schwa lungo può creare problemi sia alle persone con dislessia, sia agli screen reader (lettori dello schermo), i software che identificano i testi digitali e li presentano attraverso una sintesi vocale o un display Braille, utilizzati prevalentemente dalle persone con disabilità visive. Si pone dunque una questione di accessibilità del linguaggio che, come abbiamo visto, per le persone con disabilità è un aspetto irrinunciabile. Riguardo a tali questioni abbiamo chiesto a chi gestisce il sito Italiano inclusivo quale fosse lo stato dell’arte. Ci hanno risposto segnalandoci che al loro interno si sono già confrontatз sul problema degli screen reader e della maggiore difficoltà di lettura per le persone interessate da dislessia. Rispetto alla questione degli screen reader lə operatorə del sito ammette che ci sono delle difficoltà, ma crede che si tratti di «un problema assolutamente temporaneo, dovuto all’ancor scarsa diffusione dell’italiano inclusivo. Risolverlo non richiede che un aggiornamento del software. Per di più, in molti dei software che abbiamo testato, la pronuncia non è corretta ma il significato è comunque comprensibile. In particolare, per quanto riguarda il punto dei software di lettura: alcuni (Google, ad esempio) già leggono correttamente “maestrə”. Purtroppo il plurale, “maestrз”, viene letto come “maestrzeta”. Di fatto, ciò non pregiudica la comprensibilità del testo, una volta che se ne sia capito il significato». Corrisponde a verità anche che i due caratteri aggiuntivi creino ulteriori difficoltà alle persone dislessiche, ma tali difficoltà, ci dicono, sono «non dissimili da quelle che già causano alcune lettere del nostro alfabeto, quali “p” e “q”, “b” e “d”, “l” (L minuscola) e “I” (i maiuscola). Eppure nessunə si sognerebbe mai di chiederne l’abolizione perché… ci servono per comunicare. Altrettanto fanno lo “ə” e lo “з”». Questa la conclusione della risposta: «Confidiamo, comunque, che presto i principali software di lettura si aggiorneranno e adegueranno: se anche giganti come Google e Apple hanno preso atto di questa rivoluzione linguistica in atto e rispettivamente hanno aggiunto o stanno aggiungendo lo schwa alle loro tastiere italiane per smartphone, non dubitiamo che altrettanto possa avvenire presto per questi software».
Ci rendiamo conto che aз nostrз lettorз questo modo di scrivere suonerà alquanto bizzarro, suona curioso anche a noi, ma cercare di costruire una società che tenga dentro tuttз è un proposito a cui non vogliamo rinunciare solo perché all’inizio modificare le nostre abitudini linguistiche risulterà un po’ impegnativo.
Come abbiamo già segnalato, la scelta di utilizzare lo ə e lo з per indicare una moltitudine mista di persone è sperimentale, e, considerando che anche per noi si tratta di un esperimento, per il momento utilizzeremo questa modalità solo nei testi nei quali ci occupiamo delle questioni di genere, o, per meglio dire, dei diversi generi. Ovviamente seguiremo l’evoluzione del dibattito linguistico e cercheremo di adeguarci alla scelta maggioritaria, fermo restando che continueremo a insistere sull’aspetto dell’accessibilità del linguaggio alle persone con disabilità, che, lo ribadiamo, all’interno di un dibattito sul linguaggio inclusivo non è un aspetto trascurabile.
Le persone con disabilità sono state spesso ignorate dalla storia, e quando non sono state ignorate poteva capitare che ad essere cancellata fosse la loro disabilità, come se questa sminuisse in qualche modo la grandezza della persona o fosse motivo di vergogna. Molto difficilmente, ad esempio, è possibile leggere sui libri di storia che Giuseppe Garibaldi era in realtà una persona con disabilità (Stefania Delendati, Garibaldi, “disabile moderno”, «Superando.it», 20 febbraio 2015). Questi vissuti di invisibilità e di discriminazione dovrebbero in qualche modo suscitare un sentimento di vicinanza nei confronti di chi a propria volta, seppure per motivi diversi, sperimenta analoghe situazioni di invisibilità e di discriminazione. Essere cresciuti con la convinzione che i generi fossero due, può indurre qualcunə a credere che in fondo prestare attenzione a chi non si identifica con essi sia una questione di secondaria importanza, che questo sia un aspetto trascurabile perché tutto sommato interessa un numero relativamente contenuto di persone (in Italia si parla di una percentuale di popolazione compresa tra lo 0,5 e l’1,2% del totale), oppure, peggio ancora, che se queste persone non corrispondono alle categorizzazioni che utilizziamo per descrivere la realtà e darle un ordine ed un senso, forse sono loro ad essere sbagliate… e non ci sarebbe niente da dire, se non fosse che queste sono esattamente le stesse motivazioni che ancora oggi inducono molte persone non disabili a guardare e a trattare le persone con disabilità come fossero difettose e a discriminarle. Ma chi “pensa civile” sa bene che quando le categorizzazioni non riescono ad includere tutte le persone, non sono le persone ad essere sbagliate, sono le categorizzazioni stesse. E se il linguaggio si fa specchio e veicolo di una modalità escludente, allora è il linguaggio che va modificato. Senza che questo diventi un’imposizione calata dall’alto, sia ben inteso, ma seguendo quell’evoluzione anche culturale che caratterizza tutte le lingue vive. Sperimentando, per l’appunto. Non discriminare nessunə dovrebbe essere il primo comandamento di ciascunə, soprattutto, ma non solo, di chi incarna una o più differenze che lə espongono a discriminazione.
Simona Lancioni
Responsabile del centro Informare un’h di Peccioli (PI)
Vedi anche:
Vera Gheno, Brevissima storia dello schwa, TEDxFirenzeStudio, 2 giugno 2021, filmato, lunghezza 9.44 minuti.
Schema delle vocali dell’alfabeto fonetico internazionale con relativa pronuncia.
Sito Italiano inclusivo.
Sezione “Come si scrive” del sito Italiano inclusivo contiene alcune indicazioni su come affrontare alcuni dubbi grammaticali che si presentano nell’impiego del linguaggio inclusivo.
Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema: “Il contrasto all’abilismo e all’omolesbobitransfobia”.
Data di creazione: 26 Luglio 2021
Ultimo aggiornamento il 7 Marzo 2024 da Simona