di Stefania Delendati
Migliaia di persone ammassate negli ospedali psichiatrici morirono di stenti nella Francia occupata dai nazisti. Tra loro vi fu anche Séraphine de Senlis, un’artista geniale e smarrita, un’alienata paragonabile a Vincent Van Gogh e ad Antonio Ligabue, emarginata come loro perché non corrispondente ai canoni della “normalità”, una donna finita in una fossa comune, che ci ha lasciato una serie di dipinti con fiori fiammeggianti e tappeti di vegetazione, conservati in vari musei francesi.
Senlis è una splendida città medievale di pietra grigia, a una cinquantina di chilometri da Parigi. Mura, piazze e monumenti ricordano le epoche che l’hanno attraversata, dalla fondazione al tempo dei Romani fino all’elezione come dimora dei Re di Francia nel X secolo. La solenne cattedrale gotica di Notre-Dame è la sua attrazione principale, ed è all’interno di questo spazio sacro che si svolge l’avvenimento cardine della storia che stiamo per raccontare.
Nel 1906 la Vergine Maria “ordina” di dipingere ad una umile domestica quarantaduenne raccolta in preghiera. La donna si chiama Séraphine Louis, ma i posteri la conosceranno come Séraphine de Senlis, dal nome del paese in cui vive.
Poverissima, emarginata, solitaria e religiosa al punto da perdere la ragione, è abituata ad obbedire. Convinta di avere ricevuto un ordine dall’alto dei cieli, obbedisce anche questa volta. Solo che ora non le costa fatica, perché dipingere è il solo spiraglio in una vita desolata.
Séraphine lucida i pavimenti nelle case borghesi di Senlis, sgrassa le pentole dove sono stati cucinati i lauti pasti dei suoi padroni, fa il bucato nell’acqua gelida del fiume. Sono i “lavori neri” del giorno, così li chiama, quelli che le permettono di guadagnarsi da vivere. Quando la pittura si impadronisce di lei, rinuncia a comprarsi il cibo, pur di acquistare il materiale necessario per dipingere. Di notte, china a terra nella stanza dove abita, rischiarata da una lampada a petrolio, colora a tinte brillanti i ricordi di bambina: fiori selvatici, frutta, piume e alberi.
Non ci sarà mai un volto, una persona, un paesaggio nei quadri di Séraphine. Le sue pennellate fanno germogliare una natura di impressionante intensità, con connotazioni a metà strada tra il naïf e il surrealismo, la flora si ramifica sulla tela e sembra vera, eppure al contempo minacciosa, nata da un’ossessione.
La prima “ossessione” è stata la mamma, venuta a mancare quando Séraphine aveva un anno. Rimasta orfana anche del papà, a sette anni viene affidata alle cure della sorella maggiore Argentine, sposata e presto vedova, poi di nuovo sposa con una figlia da crescere.
Si sa poco del loro rapporto, solo che insieme idealizzano la figura materna, fino a considerarla una sorta di “santa” da venerare. Passano la giovinezza tra mille difficoltà economiche, come avevano trascorso l’infanzia. Séraphine proviene infatti da una famiglia francese di umili origini, residente ad Arsy, cittadina nella regione dell’Oise, nella Francia del Nord. Si conosce con esattezza il suo anno di nascita, il 1864, incerto il giorno, forse il 2 o il 3 settembre.
Quando viene al mondo, i genitori hanno superato i quarant’anni e perduto due figli. Da ragazzina, per aiutare la sorella e portare a casa un tozzo di pane, accudisce le pecore e a tredici anni diventa la domestica tuttofare in varie case che le offrono vitto e alloggio in cambio di incombenze pesanti.
Nel 1881 entra in servizio nel convento delle Sorelle della Provvidenza di Clermont. L’atmosfera mistica, il silenzio e la lontananza dal mondo hanno un effetto estraniante sulla sua mente fragile. «Ci sono rimasta per tanto tempo – dirà – perché mi trovavo bene e il lavoro non era troppo faticoso».
Accarezza l’idea di farsi monaca, ma non prende i voti e il bisogno di denaro, all’inizio del nuovo secolo, la porta a Senlis, ancora in un convento. Alcune famiglie borghesi la assumono come cameriera ad ore, e così per la seconda volta lascia il monastero, per relazionarsi con gli altri.
Entra nelle eleganti case della città in punta di piedi, operosa e silenziosa, e a fine giornata se ne va. L’unico svago è la frequentazione della Cattedrale, le vetrate policrome l’affascinano e ispirano. Con la coda dell’occhio osserva le figlie dei suoi padroni dipingere ad acquerello, come si conviene alle ragazze di buona famiglia, e nelle sue notti insonni ne imita la tecnica. Lei è soltanto una domestica, però nessun professore di disegno sarebbe disposto a darle lezioni.
Si rivolge al pittore Charles-Jean Hallo, detto Alo, residente a Senlis, che le consiglia di lavorare da sola, lei non deve essere l’allieva di nessuno. Inizia dunque ad esprimersi in libertà, priva di preparazione artistica e istruzione. Procede per tentativi e approda allo smalto, più intenso dell’evanescente acquerello. Fabbrica un miscuglio rimasto segreto di succhi vegetali, argille e sangue di macelleria, mescolandolo all’olio dei lumini che sottrae in chiesa e alla cera per pavimenti: il risultato sono colori forti e lucidi. È un’artista primitiva che dipinge in modo forsennato, fa correre veloce il pennello, mentre canta lodi alla Madonna e beve vino in abbondanza.
Questo fino al 1912. Quell’anno, in autunno, a Senlis approda il collezionista e critico d’arte Wilhelm Uhde, protettore di artisti quali Picasso e Braque, sostenitore del cubismo quando ancora la corrente veniva derisa dai più. È in fuga da Parigi e dai pettegolezzi sulla sua omosessualità. Stabilitosi nella cittadina, domanda in giro se c’è una domestica disponibile e gli raccomandano Séraphine. Si reca a casa di Uhde tutte le mattine, conferma l’ottima reputazione di lavoratrice affidabile, ma non gli parla mai della sua pittura. Il collezionista lo scopre casualmente un giorno, in una casa del paese, quando vede una natura morta che lo emoziona. Sono soltanto alcune mele posate su un tavolo, ma si percepisce la scintilla del talento: «Erano delle vere mele, modellate in una bella pasta consistente. Cézanne sarebbe stato contento di vederle», dirà più tardi. Chiede chi le ha dipinte e rimane molto colpito nello scoprire che l’autrice è proprio la donna che accudisce la sua abitazione.
Séraphine entra in questo modo nella cerchia di Uhde che acquista le sue tele, la incoraggia, la promuove e riesce ad imporla come artista naïf. Parigi la accoglie a braccia aperte, le vendite vanno bene e Séraphine attraversa un periodo di benessere finanziario. A causa, però, delle nubi della Grande Guerra, Séraphine e Uhde si perdono di vista. Lui è un tedesco che vive in Francia, guardato con crescente sospetto e abbandonato dal mondo artistico.
L’occasione di un nuovo incontro, nel 1927, è la mostra collettiva degli Amici dell’Arte, allestita ogni anno nel Municipio di Senlis. Vi sono esposti anche tre grandi quadri di Séraphine, dopo ché Alo è riuscito a vincere le resistenze della donna e l’ha convinta a portarle.
Vengono vendute tutte, l’acquirente è Uhde, tornato sul suolo francese dopo dieci anni di assenza. Riprende la pittrice-domestica sotto la sua ala protettrice e l’aiuta con generosità, in modo che possa abbandonare il lavoro per dedicarsi unicamente all’arte. E tuttavia, la ricchezza inaspettata e le attenzioni non fanno altro che alimentare in lei una mania di grandezza deleteria che piano piano inizia a corroderne il già precario equilibrio psichico.
Anni dopo si capirà che Séraphine era affetta da psicosi cronica e che avrebbe avuto bisogno di cure. All’epoca appare come una “stramba scontrosa” che spende senza ritegno e si indebita comprando oggetti inutili.
L’esaltazione che la pervade è il prologo della fine. La Grande Depressione che colpisce gli Stati Uniti nel 1929 si ripercuote anche sul mercato dell’arte, e Uhde incontra sempre più difficoltà a vendere le opere. Deve quindi rinviare la prima mostra personale di Séraphine e non è più in grado di darle denaro.
Dopo avere conosciuto la fama, l’artista si ritrova ancora più sola e i suoi dèmoni interiori, fino ad allora latenti, esplodono in un delirio crescente. Dubita di tutti, perfino dell’arte che è sempre stata la sua àncora di salvezza, è incerta sull’avvenire. Dipinge sempre meno, non dorme e la notte canta preghiere ad alta voce, impedendo ai vicini di riposare. Perseguitata da voci che le tormentano i pensieri, è convinta che la sorella morta, la Madonna e Dio le parlino. Pensa che qualcuno voglia avvelenarla, non si nutre più. È il sintomo delle manie di persecuzione che la portano a denunciare il parroco con una lettera alla polizia. Vaga per la città, bussando alle porte per annunciare la fine del mondo, ma Senlis è indifferente alla sofferenza che abita la sua anima.
Il 31 gennaio 1931 accatasta tutte le sue cose in strada. Il cumulo di mobili, cianfrusaglie, biancheria e tele spaventa i cittadini. Séraphine diventa un elemento di disturbo. La polizia la fa ricoverare per qualche tempo nell’ospedale cittadino e nel 1932 la porta nel manicomio di Clermont.
Abbandona completamente la pittura, ma riesce a scrivere, raccattando come può pezzi di carta, scarsi come il cibo in quel luogo tragico, ricovero sovraffollato dove malati e indigenti perdono ogni dignità umana. La situazione diventa drammatica con lo scoppio della seconda guerra mondiale. Nel più totale isolamento, dimenticata da tutti fuorché da Uhde, che è sempre andato a farle visita, Séraphine Louis si spegne l’11 dicembre 1942, all’età di settantotto anni.
Le ultime parole, scritte su un brandello di carta, sono state «ho fame»; uno degli ultimi gesti, strappare l’erba per cibarsene di notte; l’ultima immagine che hanno registrato i suoi occhi, probabilmente una parete bianca del manicomio.
Migliaia di persone ammassate negli ospedali psichiatrici sono morte di stenti nella Francia occupata dai nazisti. Tra loro, un’artista geniale e smarrita, un’alienata paragonabile a Vincent Van Gogh e ad Antonio Ligabue, emarginata come loro perché non corrispondente ai canoni della “normalità”, una donna finita in una fossa comune che sognava un epitaffio con scritto: «Qui riposa Séraphine Louis, che non ha rivali, aspettando la sua felice Resurrezione».
Ci ha lasciato fiori fiammeggianti e tappeti di vegetazione che possiamo ammirare al Musée Maillol di Parigi, al Musée d’Art di Senlis, nel Museo d’Arte Naïf di Nizza e in quello d’Arte Moderna Lille Métropole a Villeneuve d’Ascq.
* Il presente testo è già stato pubblicato su Superando.it, il portale promosso dalla FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), e viene qui ripreso per gentile concessione della testata e dell’autrice.
Per approfondire:
Séraphine, film del regista Martin Provost uscito in Francia nel 2008 e arrivato in Italia nel 2010, vincitore di sette Premi César nel 2009, tra cui Miglior Film e Miglior Attrice Protagonista (Yolande Moreau).
Françoise Cloarec, Séraphine. La vita sognata di Séraphine de Senlis, Milano, Archinto, 2010.
Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “Donne con disabilità”.
Ultimo aggiornamento: 19 aprile 2018
Ultimo aggiornamento il 19 Aprile 2018 da Simona