Il lavoratore caregiver che si prende cura di una persona con disabilità non è obbligato a svolgere attività durante l’orario notturno, né può essere trasferito senza il suo consenso, neanche nel caso in cui la certificazione di l’handicap della persona di cui si cura non attesti la connotazione di gravità. È quanto risulta da un’Ordinanza della Corte di Cassazione dello scorso 21 marzo che interpreta la norma in senso estensivo. Tale Ordinanza costituisce un precedente giurisprudenziale di grande rilievo.
È arrivato sino al terzo grado di giudizio il contenzioso tra una datrice di lavoro che non riconosceva il diritto ad essere esonerato dal lavoro notturno ad un lavoratore caregiver che presta assistenza ad una persona con disabilità non grave. A porvi fine ci ha pensato, lo scorso 21 marzo, la Corte di Cassazione (Sezione Lavoro) con l’Ordinanza 12649/2023, nella quale ha stabilito che i lavoratori che si prendano cura di un familiare con disabilità non sono obbligati a svolgere attività durante l’orario notturno, neanche nel caso in cui la certificazione di l’handicap non attesti la connotazione di gravità. La Corte ha altresì fornito un’interpretazione estensiva della norma stabilendo il divieto di trasferimento del lavoratore senza il suo consenso anche nelle situazioni nelle quali la persona di cui si prende cura non ha una disabilità grave (sebbene la condizione di gravità sia un requisito previsto esplicitamente dalla norma per accedere al beneficio). Si tratta certamente di un precedente giurisprudenziale di grande rilievo.
Il caso sul quale la Corte si è espressa è quello di un lavoratore che si prende cura della madre disabile, con una certificazione di handicap non grave (articolo 3, comma 1, della Legge 104/1992). La datrice di lavoro non era disponibile a riconoscere l’esenzione del lavoratore dal lavoro notturno sostenendo che «solo in caso di accertato stato di gravità dell’handicap può ritenersi provata e necessaria un’assistenza sistematica ed adeguata, effettiva appunto, alla persona del disabile tale da giustificare la compressione di contrapposti obblighi lavorativi». Tuttavia la Corte non ha ritenuto di accogliere tale argomentazione, e si è allineata alle sentenze espresse dal Giudice di primo grado e dalla Corte d’Appello, le quali avevano accertato il diritto del lavoratore nei confronti della datrice di lavoro a non prestare lavoro notturno «sino a quando […] avrà a suo carico la madre disabile ai sensi delle Legge n. 104 del 1992».
Un secondo motivo di contestazione espresso nel corso del processo dalla datrice di lavoro, consisteva nell’affermare che la sentenza della Corte d’Appello, sulla quale la Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi, «avrebbe omesso di considerare che il lavoratore non aveva mai offerto la prova dell’assistenza (sistematica e adeguata) effettivamente garantita alla persona con disabilità perché “a carico”, tale da determinare una maggiore difficoltà nella vita lavorativa, non essendo sufficiente la sola circostanza della convivenza, di per sé sterile a tal fine, se non commisurata al grado di impegno (assistenza) che la condizione (gravità) di handicap può comportare». In merito a questa argomentazione, la Corte ha chiarito che «l’essere “a carico” nulla di dirimente lascia inferire sul grado di invalidità di cui debba essere affetta la persona con handicap, più o meno grave, ma indica una relazione di assistenza che deve evidentemente sussistere tra lavoratore e disabile; infatti, non può certo negarsi che si possa avere cura e fare carico di una persona che presenti una minorazione che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione, anche quando la stessa non renda necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione» (grassetti nostri nella citazione). (Simona Lancioni)
Ultimo aggiornamento il 24 Luglio 2023 da Simona