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Montessori: dall’educazione dei bambini con disabilità alla scuola di tutti

di Stefania Delendati*

È la didattica inclusiva che trasforma l’ambiente educativo, coinvolgendo e favorendo la crescita dell’intera comunità scolastica e anche l’attuale orientamento di concezione della disabilità è legato ad un modello sociale che vede la condizione della persona come il prodotto fra il suo livello di “funzionamento” e il contesto di vita. Con altri termini era questa, in estrema sintesi, l’intuizione di Maria Montessori, una figura ancora oggi non valutata e valorizzata quanto meriterebbe e il cui percorso educativo prese le mosse proprio dalla disabilità.

Una bella immagine giovanile di Maria Montessori (1870-1952).

Ricordo una bella signora non più giovane, i capelli ingrigiti dagli anni, il volto gentile e lo sguardo amorevole. È l’immagine di Maria Montessori sulla vecchia banconota da mille lire che molti di noi rammentano. Probabilmente è stato grazie a quel pezzo di valuta ormai fuori corso che per la prima volta abbiamo sentito il nome di questa donna che ha fatto la storia dell’Italia.

Maria Montessori, pedagogista, scienziata e neuropsichiatra infantile, famosa a livello internazionale per il metodo educativo che porta il suo nome, è stata tra le prime donne italiane a laurearsi in Medicina e con il suo agire si è battuta per l’emancipazione femminile. Qui scopriremo come tutto questo ha preso le mosse dalla disabilità, perché i primi passi nella pedagogia Maria Montessori li ha compiuti proprio accanto ai bambini con disabilità.
Occorre una premessa per inquadrare l’epoca e la società. Nel testo che segue leggerete parole che accostate alla disabilità oggi fanno inorridire. Era il linguaggio del tempo, viene qui riportato soltanto per il dovere di riferire i fatti così com’erano, per addentrarci meglio in quella mentalità.

Nell’Ottocento i bambini con difficoltà a livello psicofisico erano considerati irrecuperabili, inadatti a ricevere un’educazione. La Legge Casati del 1859, che sancì la nascita della scuola pubblica italiana, stabilì l’obbligatorietà e la gratuità della frequenza scolastica ai bambini e alle bambine, escludendo però quelli con disabilità. C’era una parola per definirli, “frenastenici”, definizione che per lo psichiatra italiano Andrea Verga indicava il soggetto che «non delira come il pazzo, soltanto non sa ragionare […]. Non è propriamente dunque un malato, un delirante ma […] una mostruosità psicologica».
Si riteneva che nell’età evolutiva la ragione ancora non fosse sviluppata, pertanto i bambini non potevano essere “folli” come gli adulti e questo li escludeva dall’assistenza sanitaria (non che per gli adulti con patologie psichiatriche questa “assistenza” fosse adeguata e umana, anzi). Frequentemente venivano ricoverati in manicomio, dimenticati dal mondo e abbandonati ad un triste destino; si pensava addirittura che da grandi sarebbero diventati dei delinquenti.
Bastava davvero poco per ricevere una “diagnosi” di frenastenia, era sufficiente uno stato di povertà nel quale un bambino non poteva sviluppare le proprie capacità per mancanza di stimoli adeguati. Gli istituti accoglievano quindi bambini con disabilità socialmente emarginati e li classificavano in tre livelli di gravità: l’imbecillità era quello più lieve, seguito dal ritardo mentale e, infine, l’idiozia, il più serio.
Diversi erano gli elementi analizzati per stabilire a quale grado un bambino appartenesse, si guardavano i tratti somatici, il linguaggio, la capacità di giudizio, la volontà e la memoria. Da loro, in ogni caso, non ci si aspettava nulla e nei centri che li ospitavano trascorrevano le giornate nell’ozio, l’unica attività consisteva nel mangiare all’ora dei pasti.

In questo stato li trovò Maria Montessori alla fine dell’Ottocento, già laureata in Medicina e specializzata in Neuropsichiatria, assistente presso la Clinica Psichiatrica dell’Università di Roma.
Durante una visita venne portata in una stanza dove si trovavano alcuni bambini detti “deficienti”. Erano sul pavimento, raccoglievano briciole di pane e le mettevano in bocca dopo averle accarezzate. Maria capì che quei gesti non erano dettati dalla fame, ma dal bisogno di impegnarsi in un compito. In un luogo completamente spoglio, quelle briciole erano l’unico svago, un’occasione per servirsi delle mani, un modo inconscio per tenere occupata la mente. Il loro disagio non aveva soltanto un’origine biologica, l’ambiente fatto di miseria fisica e morale in cui erano nati ne aveva impedito lo sviluppo della personalità, continuavano ad essere costretti a raccogliere briciole di vita anche dove avrebbero dovuto essere curati.
Nel 1898, durante il Congresso Pedagogico di Torino, Maria Montessori mise in evidenza i limiti della scuola dove vigeva una disciplina rigida che chiedeva ai bambini conformità e obbedienza, un metodo incentrato sul binomio punizione-ricompensa, senza attenzione per le differenze individuali e i diversi bisogni.
Era necessario formare insegnanti specializzati, servivano interventi didattici specifici, istituti dove medicina e pedagogia avrebbero dovuto camminare fianco a fianco, servivano più classi. Lei era convinta che con il giusto supporto fin dalla più tenera età quei bambini avrebbero potuto avere da adulti un ruolo attivo nella società. Ricordò all’uditorio che nel 1831 il medico francese Édouard Séguin aveva dimostrato che «l’idiota non è incapace di imparare ma soltanto incapace di seguire i metodi normali di istruzione».

La copertina dell’opera “Il Metodo della Pedagogia Scientifica applicato all’educazione infantile nelle Case dei Bambini” (1909) di Maria Montessori.

Nel 1900 la dottoressa Montessori fondò a Roma la Scuola Magistrale Ortofrenica per la formazione dei maestri ai nuovi metodi di educazione dei bambini frenastenici, frutto del lavoro della Lega per i Fanciulli Deficienti, fondata nel 1899 insieme a Clodomiro Bonfigli e Giuseppe Ferruccio Montesano. Ideò inoltre materiale sensoriale all’avanguardia, semplice e al contempo creativo.
Il tatto era sollecitato dalle superfici lisce o rugose, i colori allietavano la vista, piccoli tamburi e campanelle che riproducevano la scala musicale stimolavano l’udito, attraverso il gioco diverse aree del cervello venivano attivate e si liberava il potenziale di ognuno. Utilizzava un alfabeto tattile, tesserine e lettere di carta vetrata che anche attraverso la memoria muscolare permettevano ai bambini, nel giro di pochi mesi, di scrivere e leggere semplici frasi. Nello stesso lasso di tempo, i coetanei cosiddetti “normali” che frequentavano la scuola pubblica, sempre seduti al banco a ripetere le nozioni dell’insegnante, a stento riuscivano a sillabare.
Era prezioso pure il silenzio, aiutava la concentrazione e l’autocontrollo. Una cinquantina di bambini, trasferiti dal manicomio alla Scuola Ortofrenica, beneficiò di questo metodo sperimentale; i progressi venivano annotati sulla carta biografica di Giuseppe Sergi, antropologo e psicologo con cui aveva avviato una proficua collaborazione. I risultati furono insperati, alcuni bambini seguiti da Maria superarono infatti gli esami di licenza elementare brillantemente, accanto agli altri alunni e non in una sezione “speciale”, con voti migliori dei compagni che avevano frequentato la scuola “normale”.
«Questi effetti meravigliosi avevano quasi del miracolo per coloro che li osservavano. Ma per me i ragazzi del manicomio raggiungevano quelli normali agli esami pubblici sol perché avevano seguito una via diversa. Essi erano stati aiutati nello sviluppo psichico e i fanciulli normali erano stati invece soffocati e depressi», commentò Montessori, nella quale iniziò a farsi strada un pensiero nuovo: se tanto beneficio il suo approccio aveva portato ai fanciulli con disabilità, avrebbe potuto regalarne altrettanto a tutti i bambini?

Nel 1901 lasciò la Scuola Ortofrenica, una scelta dettata dalla fine della relazione con Montesano e dalla stanchezza di fronte ai limiti dell’ambiente scolastico tradizionale. Diventò insegnante di Igiene e Antropologia presso l’Istituto di Magistero Femminile di Roma; anche qui formava le future insegnanti e le rendeva consapevoli delle potenzialità della loro professione, svilita sul piano sociale in quanto ritenuta tipicamente femminile e quindi inferiore.
Partecipando ai Congressi Internazionali Femministi di Berlino e Londra, aveva denunciato la condizione delle maestre elementari italiane: solo loro accettavano il trasferimento in piccoli centri distanti dalla città, in zone rurali disagiate dove regnava il degrado materiale e morale, finendo non di rado vittime di angherie. Parole dure pronunciate da una donna e per questo ancor meno accettate dai colleghi uomini. Il Consiglio Direttivo dell’Istituto non vedeva di buon occhio la sua nomina, vista come «un elemento di possibile disordine, prima ancora che di rottura ideologica».
Maria Montessori non si fece intimidire, anzi, diventò anche libera docente in Antropologia nella Facoltà di Scienze e nella Scuola Pedagogica dell’Ateneo romano. Continuava intanto il lavoro accanto ai bambini. Svolse ricerche sperimentali in alcune scuole della Capitale con alunni dai 9 agli 11 anni. Obiettivo, dimostrare se gli allievi più intelligenti avessero un cranio più sviluppato. Le sue conclusioni contraddicevano le teorie in auge, dimostrando un rapporto diretto tra sviluppo cerebrale e condizioni socio-culturali di provenienza. Raccolse le storie dei bambini e disse che la scuola imponeva gli stessi traguardi, premi e castighi a tutti i bambini, anziché metterli nelle medesime condizioni di partenza. «E come la bellezza del corpo è indipendente dal merito individuale [così sono] involontarie anche le condizioni biologiche e sociali di nascita», evidenziò, mettendo in dubbio la definizione di “intelligenza” secondo i metodi pedagogici in uso, tesi a reprimere invece di far sbocciare gli adulti di domani: «Non vale preparare un nuovo maestro, se non si trasforma la scuola, una scuola ove i fanciulli sono soffocati nelle espressioni spontanee della loro personalità, come esseri morti; e fissi sul posto rispettivo, nel banco, come farfalle infilate in uno spillo».
L’intervento pedagogico individualizzato, che oggi è il perno dell’inclusione scolastica in Italia, è derivato anche dall’opera di Maria Montessori, che affiancò a pagelle e registri quella carta biografica introdotta da Sergi, ampliandola con annotazioni sull’ambiente familiare, ricavate dai colloqui con le madri, così da avere un quadro sulle cause dei comportamenti, per poter poi intervenire di conseguenza.

Una nota immagine di Maria Montessori in età anziana.

Nel 1906 l’Istituto Romano Beni Stabili decise di riqualificare il quartiere San Lorenzo di Roma, un progetto innovativo che prevedeva una scuola per bambini in età prescolare. La dottoressa Montessori fu chiamata per rendere concreta l’idea e dalle sue parole comprendiamo l’entusiasmo di quei giorni: «Fui invitata dal direttore generale dell’Istituto dei Beni Stabili di Roma ad assumere l’organizzazione di scuole infantili da crearsi nelle case popolari. La magnifica idea era di riformare un quartiere pieno di rifugiati e di misera gente, come quello di San Lorenzo a Roma. V’erano operai disoccupati, mendicanti, prostitute, condannati appena usciti dal carcere, i quali tutti avevano cercato rifugio tra le pareti di case rimaste incompiute a causa della crisi economica, che aveva interrotto ogni costruzione in tutto il quartiere. Il progetto, ideato dall’ingegnere Talamo, si proponeva di comperare tutte quelle mura, quegli scheletri di case e completarli man mano, rendendoli abitazioni stabili per il popolo. Questo piano fu accoppiato con la idea veramente mirabile di raccogliere tutti i bambini al di sotto dell’età scolastica (dai tre ai sei anni) in una specie di scuola della casa. […] Frattanto la prima scuola si doveva aprire nel gennaio del 1907, in una grande casa popolare del quartiere di San Lorenzo. Questo tipo speciale di scuola fu battezzato con l’incantevole nome di “Casa dei Bambini”. La prima di esse fu aperta, con questo nome, il 6 gennaio 1907, in via dei Marsi, 53, e a me fu affidata la responsabilità della direzione».
Il primo gruppo di piccoli era composto da più di cinquanta alunni, e sono ancora i ricordi di Maria a descriverceli: «Era interessante vedere quelle creaturine […]. Erano timide e goffe, apparentemente stupide e irresponsabili. Non erano capaci di camminare in fila e la maestra faceva tenere ognuna attaccata al grembiulino di quella che la precedeva […]. Piangevano e sembrava che avessero paura di tutto, delle belle signore presenti, dell’albero e degli oggetti ad esso appesi. Non accettavano i doni, né assaggiavano i dolci, né rispondevano se interrogati».
Fu lei a curare ogni dettaglio, disegnò l’arredamento della scuola secondo criteri di armonia delle linee e dei colori. I mobili dovevano essere leggeri e di piccole dimensioni, a misura di bambino, in modo che gli alunni potessero utilizzarli, mentre i comuni elementi d’arredamento risultavano inaccessibili perché troppo ingombranti. Anche le famiglie erano coinvolte nell’educazione; prerequisito per entrare nella scuola era la cura della salute e dell’igiene. I bambini trovavano un ambiente proporzionato alle loro possibilità, si sentivano accolti ed erano trattati con rispetto, una novità per molti di loro che nella vita quotidiana venivano offesi e umiliati. Centrale era l’autonomia e la consapevolezza dell’autocorrezione da parte dei bambini, un obiettivo raggiunto con un rovesciamento del rapporto insegnante-alunno nel quale era quest’ultimo a mostrare come apprendeva, mentre l’insegnante doveva imparare ad osservare e accompagnarne la crescita secondo i ritmi naturali dei singoli bambini.

Nel 1908 venne aperta la prima Casa dei Bambini a Milano, all’interno del quartiere popolare della Società Umanitaria di Via Solari, che produceva anche il materiale didattico studiato da Maria.
Intanto Il Metodo della Pedagogia Scientifica applicato all’educazione infantile nelle Case dei Bambini, dato alle stampe nel 1909 e tradotto in vari Paesi, si andava diffondendo, in particolare negli Stati Uniti. Proprio in Italia, dove era nato, incontrò scarsa fortuna. Poco in linea con la tradizione, le scuole montessoriane mettevano in discussione l’autorità e il modo di gestire le Istituzioni. Il trattamento dei bambini con disabilità e le misure di sostegno dell’infanzia abbandonata, soprattutto durante il fascismo, erano inquadrati all’interno di un sistema di “rigenerazione della razza” che comprendeva anche l’educazione delle bambine che avrebbero dovuto diventare mogli sottomesse e brave madri. Non c’era nulla di più lontano dal pensiero di Maria Montessori, inizialmente sostenuta dal regime che tuttavia, non potendo avere su di lei un pieno controllo, l’accusò infine di “poca italianità”, spingendola ad abbandonare il Paese insieme al figlio Mario nel 1934.
Iniziò a viaggiare per diffondere le sue teorie educative nel mondo, arrivando fino in India. Tornò in Italia alla fine della seconda guerra mondiale, nel 1947. Morì a Noordwijk, nei Paesi Bassi, il 6 maggio 1952. Sulla sua tomba si legge nella nostra lingua un messaggio attuale più che mai in questi giorni di guerra: «Io prego i cari bambini, che possono tutto, di unirsi a me per la costruzione della pace negli uomini e nel mondo».

Grazia Honegger Fresco (1929-2020), una delle ultime allieve di Maria Montessori.

Qual è dunque l’eredità di Maria Montessori? Ripercorrendo la sua storia, riconoscendo la lungimiranza e la tenacia con cui ha portato avanti la pratica di una nuova professionalità educativa, si comprende che ancora oggi la sua figura non è valutata e valorizzata quanto meriterebbe.
Il concetto di inclusione che ha contraddistinto il suo lavoro, nella scuola italiana è stato un percorso complesso, frutto di una stratificazione normativa lunga decenni, a partire dal 1928 con la Riforma Gentile che istituì scuole speciali per bambini ciechi e sordi, seguita nel 1971 dalla Legge 118 secondo la quale «l’istruzione dell’obbligo deve avvenire nelle classi normali della scuola pubblica, salvi i casi in cui i soggetti siano affetti da gravi deficienze intellettive o da menomazioni fisiche di tale gravità da impedirlo» (articolo 28).
Il principio di uguaglianza di opportunità educative, stabilito dall’articolo 34 della Costituzione («La scuola è aperta a tutti») ha avuto per lungo tempo soltanto un significato teorico, nella pratica esistevano percorsi scolastici separati, scuole speciali e classi differenziali.
Quando le cose cominciarono a cambiare, negli Anni Settanta, inizialmente si parlò di “inserimento”, un termine che si riferisce all’adattamento dell’allievo con disabilità al resto del gruppo, un numero in più sul registro. Seguì l’integrazione, parola che tutt’oggi viene erroneamente utilizzata come sinonimo di inclusione, mentre si tratta di una strategia didattica differente, finalizzata alla partecipazione e al coinvolgimento degli studenti con disabilità; l’inclusione, invece, mette al centro della scuola il valore della diversità come occasione di crescita per tutti e tutte e vede la classe come una realtà caratterizzata da un’ampia pluralità di bisogni che, in maniera diversa, esprimono anche gli alunni senza disabilità.
Il Documento della Commissione Falcucci, nel 1975, affermò che occorreva «superare qualsiasi forma di emarginazione degli handicappati attraverso un nuovo modo di concepire ed attuare la scuola» e per la prima volta enunciò le basi di quella che qualche anno dopo diventerà la scuola inclusiva: la gestione integrata dei servizi, la formazione degli insegnanti, la collegialità e il coinvolgimento delle famiglie.
Il 4 agosto 1977 la promulgazione della Legge 517 rappresentò una data storica, vennero infatti abolite le scuole speciali.

Maria Montessori non ha mai visto nei bambini con disabilità i limiti, soltanto le potenzialità, e con loro ha messo in pratica un principio che in un secondo momento è stato esteso a tutti gli alunni che seguono il suo metodo: «Aiutami a fare da solo». Ogni piccolo gesto, ogni conquista, sono finalizzati al raggiungimento del più alto grado di indipendenza possibile, e questo assume un’enorme importanza in presenza di una disabilità. Classi eterogenee favoriscono lo sviluppo, i bambini si supportano a vicenda e nessuno si sente “poverino”: il pietismo scompare in maniera spontanea.
Sul portale «Superando.it», nel 2009, è stata pubblicata un’intervista a Grazia Honegger Fresco, una delle ultime allieve di Maria Montessori. Ci racconta di un bambino con spasticità che da solo si toglieva il cappotto seppur con fatica, la mamma interveniva soltanto per appenderlo all’attaccapanni posto troppo in alto; successivamente l’alunno entrava in aula tirando una cordicella che era stata messa accanto alla maniglia della porta per facilitarlo. Un’altra ragazza, più grande, con difficoltà di linguaggio, impiegava diversi minuti per dire una frase e i suoi compagni l’ascoltavano con attenzione, non erano spazientiti.

È la didattica inclusiva che trasforma l’ambiente educativo, coinvolgendo e favorendo la crescita dell’intera comunità scolastica e anche l’attuale orientamento di concezione della disabilità è legato ad un modello sociale che vede la condizione della persona come il prodotto fra il suo livello di “funzionamento” e il contesto di vita, così come definito dall’ICF, la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Con altri termini era comunque questa, in estrema sintesi, l’intuizione della Montessori, e dovremmo ricordarlo più spesso, quando ad esempio ci riferiscono ancora di bambini con disabilità esclusi dalle gite scolastiche, trattati come “fardelli” che rallentano lo svolgimento delle lezioni, una “fonte di disturbo” apostrofata con quei nomi che facciamo perfino fatica a scrivere, seppur riferiti al linguaggio del secolo scorso, figuriamoci nel nostro tempo.

 

* Il presente testo è già stato pubblicato su «Superando.it», il portale promosso dalla FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), e viene qui ripreso, con lievi adattamenti al diverso contesto, per gentile concessione.

 

Ultimo aggiornamento il 13 Dicembre 2023 da Simona