di Domenico Massano*
Periodicamente gli organi d’informazione diffondono allarmanti notizie di gravi violenze contro persone che vivono nelle varie tipologie di strutture residenziali, ma molto probabilmente è solo la punta dell’iceberg di un fenomeno diffuso in maniera preoccupante, strettamente correlato con una serie di violazioni dei diritti a danno di persone con disturbi mentali, disabilità, anziane e/o vulnerabili: parte da questo assunto, per concentrarsi sul concetto di “maltrattamento istituzionale”, il presente approfondimento di Domenico Massano.

Periodicamente – e anche, in questi giorni, sulla testata «Superando.it» – vengono diffuse dai mass media allarmanti notizie di gravi violenze contro le persone inserite in comunità alloggio o terapeutiche, in “repartini” ospedalieri, RSA, case famiglia… Pur senza voler fare improprie generalizzazioni, molto probabilmente si tratta solo della punta dell’iceberg di un fenomeno diffuso in maniera preoccupante, che è in continuità ed è strettamente correlato con una serie di violazioni dei diritti, di diversa forma e complessità, frequenti e a danno di molte di quelle persone con disturbi mentali, disabilità, anziane e/o vulnerabili, che vivono nelle varie tipologie di strutture residenziali (1).
Nel tentativo di affrontare tale problema nelle sue reali dimensioni, potrebbe rappresentare un’utile chiave di lettura ed analisi, sia per i singoli che per le organizzazioni, quella del “maltrattamento istituzionale”, concetto che ha iniziato ad emergere e ad essere utilizzato negli ultimi anni, soprattutto nell’àmbito dei servizi e degli interventi rivolti ai minori.
Secondo lo psichiatra Juan Luis Linares, professore all’Università Autonoma di Barcellona, si incorre nel maltrattamento istituzionale «quando le istituzioni sociali a cui è affidata l’erogazione di alcuni servizi falliscono nello svolgimento della loro missione, provocando danni alle persone alle quali dovrebbero servire». Linares ritiene che una delle principali cause all’origine del maltrattamento istituzionale sia il fatto che «le istituzioni incaricate di vigilare, prendersi cura e proteggere le persone sono allo stesso tempo le stesse incaricate di controllarle e vigilare sui loro comportamenti: comportamenti che la stessa istituzione si occupa di definire come idonei o non adatti» (2).
Attraverso il costrutto di maltrattamento istituzionale, Linares ha cercato di aprire uno sguardo critico sugli interventi, professionali e istituzionali, che non solo non rispondono ai bisogni delle persone, ma che spesso ne violano i diritti e causano sofferenze.
Restando nella sfera minorile, anche Aurea Dissegna, sociologa, docente universitaria e giudice onorario del Tribunale per Minori, si è posta l’obiettivo di porre in evidenza il tema del maltrattamento istituzionale, che ritiene sia «perpetrato, se pur non sempre consapevolmente e con effetti indiretti a volte imprevedibili, dalle stesse istituzioni preposte alla cura, protezione e tutela […]. Sono forme di maltrattamento sfuggente, difficili da riconoscere, rilevare e dimostrare, attribuibili a varie cause che possono di fatto approdare a disattesa e violazione, anche grave, di diritti e a forme di vittimizzazione secondaria. […] le sue espressioni sono identificabili a volte con azioni od omissioni di singole persone e professionisti coinvolti, altre volte, invece, le modalità possono essere di tipo più generale, dovute ai contesti, all’organizzazione, alle procedure, a competenze di più istituzioni che non si coordinano. […] Il maltrattamento istituzionale è un fenomeno subdolo e sommerso, che richiede (agli operatori ed alle organizzazioni) di averne consapevolezza, per essere preso in considerazione, analizzato, approfondito, definito e gestito» (3).
Secondo Dissegna, quindi, il maltrattamento istituzionale rappresenta l’esito di dinamiche sia di tipo organizzativo-istituzionale, sia di carattere professionale-personale, difficili da gestire, controllare e, a volte, anche dimostrare, ma, soprattutto, è un fenomeno di cui manca una piena consapevolezza individuale e collettiva, così come manca il coraggio di un’assunzione di responsabilità per svelarlo, affrontarlo ed indagarne le cause.
Entrambi questi contributi, pur riferendosi all’area minorile, non solo fanno emergere e definiscono un problema, quello del maltrattamento istituzionale, ma costituiscono un utile strumento di analisi e denuncia che dovrebbe e potrebbe essere utilizzato anche in altri contesti, come, ad esempio, per i servizi e le istituzioni rivolte a persone con disabilità, anziane o con disturbo psichico.
Provando a concentrare l’attenzione su quest’ultimo ambito, attraverso la chiave di lettura del maltrattamento istituzionale si possono evidenziare diverse forme di violenza e violazioni dei diritti poco visibili, riconoscibili e dimostrabili, spesso giustificate da necessità terapeutiche o semplicemente attuate “per il bene del paziente”, che si traducono in abusi di potere, in arbitrarietà delle decisioni, in dinieghi e/o concessioni discrezionali, in sottili manipolazioni o raggiri, in situazioni di trascuratezza…, violenze per certi aspetti più “morbide” e dissimulate che, però, fanno da substrato culturale, da terreno fertile e presupposto per la deriva verso altre ben più gravi ed esplicite. In campo psichiatrico, inoltre, il costrutto di maltrattamento istituzionale sembra, in parte, poter richiamare e riportare l’attenzione sul concetto di “crimini di pace”, introdotto da Franco Basaglia per offrire una chiave di lettura di tutte le violenze istituzionalizzate, anche quando discrete e coperte con la giustificazione di teorie scientifiche, compiute dai tecnici del sapere pratico, da quei professionisti che sono i «funzionari, consapevoli o inconsapevoli, dei crimini di pace che si perpetrano in nome dell’ideologia dell’assistenza, della cura, della tutela dei malati e dei più deboli» (4).
L’attualità di queste parole sembra confermata dalle considerazioni dello psichiatra Benedetto Saraceno che, nella sua “Ultima lezione” (5), titolata Trattare bene le persone (un’implicita denuncia dei maltrattamenti che invece subiscono), stigmatizzava le ipocrisie di una psichiatria che, dimentica del suo passato, delle sue lotte e delle sue conquiste, è tornata a mettere in campo «tutta la sua durezza, la sua disumanità, la violenza costrittiva di Diagnosi e Cura, la miseria dei suoi luoghi, l’arroganza dei suoi operatori o magari e semplicemente soltanto la loro impotenza», in un contesto in cui emerge una sorta di progressiva miopia dei diversi professionisti «che sembrano adattarsi alla paralisi dei servizi e soprattutto a quella dei propri cervelli» ed in cui «anche il bravo operatore è spesso la prima vittima del suo stesso servizio».
I servizi, le comunità terapeutiche e le varie strutture residenziali per la salute mentale vedono una presenza sempre più diffusa di personale formato e convinto – indipendentemente dal ruolo e dalla qualifica – che il proprio lavoro di cura abbia poco o nulla a che fare con l’apertura e la collaborazione con i diversi soggetti presenti sul territorio e con la garanzia dei diritti delle persone, ma che consista principalmente nel controllarle e confinarle a tempo indeterminato, concedendo diversi gradi di libertà a seconda del livello di condiscendenza terapeutica; nel convincerle dell’ineluttabilità di alcune scelte che le riguardano; nel contenerle occupate, moltiplicando attività, laboratori e gite; nel compilare test, diari, verbali, pieni di fredde valutazioni (6). «Il compito di queste figure intermedie sarà quindi quello di mistificare, attraverso il tecnicismo, la violenza, senza tuttavia modificarne la natura; facendo sì che l’oggetto di violenza si adatti alla violenza di cui è oggetto. [Lo psichiatra, lo psicoterapeuta, l’educatore, l’infermiere, …] sono i nuovi amministratori della violenza del potere… il loro compito, che viene definito terapeutico-orientativo, è quello di adattare gli individui ad accettare la loro condizione di “oggetti di violenza”, dando per scontato che l’essere oggetto di violenza sia l’unica realtà loro concessa» (7).
Quello ai “crimini di pace”, quindi, è un parallelo e un richiamo particolarmente calzante, che ricorda come nei diversi servizi, dipartimenti, istituzioni in àmbito psichiatrico (ma non solo), le persone continuino spesso ad essere «l’ultimo anello di una catena di violenze e di esclusioni [dalla famiglia, dal lavoro, dagli amici, dalla società…], di cui ci si continua ad illudere di non essere responsabili» (8).
È nuovamente «percepibile l’ombra del manicomio», come evidenzia un altro noto psichiatra, Giuseppe Tibaldi, denunciando chiaramente questo chiaro e progressivo depauperamento della cultura e delle pratiche che avevano portato alla riforma della psichiatria in Italia e alla chiusura dei manicomi, ricordando come «al primo posto venivano, senza esitazioni, i diritti fondamentali di cittadinanza dei pazienti (alla permanenza nel contesto sociale, alla formazione ed al lavoro, alla partecipazione alle scelte che li riguardavano, ecc.); al secondo posto poteva essere collocata l’attenzione alla storia personale, alla ricostruzione dei significati – personali e familiari – della follia. Il farmaco – e la cultura medicalizzante che si portava dietro – veniva per ultimo. Nella pratica quotidiana di molti servizi, ospedalieri e ambulatoriali, questa gerarchia di valori e di priorità, individuali e collettivi, sembra venuta meno (anche se sul piano dei documenti ufficiali, delle dichiarazioni programmatiche, nessuno mette in discussione i principi fondamentali della Riforma). Sarebbe semplicistico cercare un colpevole, cui addossare la responsabilità principale di questo depauperamento della cultura del disturbo mentale cui stiamo assistendo, come testimoni, e come attori diretti. Il depauperamento, però, c’è: la crescente importanza del farmaco e delle teorie biologiche che lo accompagnano […] corre parallela ad un minor interesse per la dimensione dei diritti di cittadinanza, come la casa, il lavoro, la qualità delle relazioni sociali».
Questo depauperamento culturale si accompagna, ed è strettamente collegato, alla presenza sempre più invasiva di una “cultura paternalistica” tra gli operatori della psichiatria di comunità italiana: «A un estremo, il paternalismo democratico dei professionisti che ritengono di essere coloro che meglio conoscono e tutelano i diritti fondamentali delle persone che loro si rivolgono (fidati, sono sicuro che questo è il trattamento, la psicoterapia, l’attività, il farmaco – la dose, la durata, la necessità di continuarlo – che va bene per te); all’altro estremo, il paternalismo autoritario di chi dice se non fai il depot, ti ricovero in TSO [Trattamento Sanitario Obbligatorio, N.d.R.]» (9).
Questa deriva culturale, questo paternalismo democratico/autoritario, accompagnato da una sorta di “buonismo operativo”, sono il contesto dove il maltrattamento istituzionale trova terreno fertile e in cui può facilmente camuffarsi spesso dietro specialismi, tecnicismi o ineluttabili scelte terapeutiche che possono rivelarsi uno scivoloso piano inclinato verso pericolose derive: «Che sia in nome della punizione o della riabilitazione, dell’assistenza o della cura, i crimini di pace vengono perpetrati sui più deboli, sugli inermi, secondo uno schema di violenza istituzionalizzata che si ripete […] il grado di violenza può variare a seconda dell’istituzione, della capacità di occultamento, del margine di gioco concesso» (10).
Pur senza prendere in considerazione cliniche, grandi strutture istituzionali o “repartini” ospedalieri (SPDC-Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura), anche solo guardando a circoscritti e apparentemente innocui osservatori, come quelli di piccole comunità terapeutiche in bei contesti territoriali, con personale qualificato (psichiatra, psicologi, educatori, infermieri, operatori socio sanitari), e, quindi, per molti aspetti forse, servizi “sufficientemente buoni”, si può constatare come questo, tuttavia, non impedisca che, per diverse ragioni, si verifichino casi che si potrebbero inquadrare nella cornice del maltrattamento istituzionale. Val la pena sottolineare il fatto che per quanto l’osservatorio delle piccole comunità possa sembrare ristretto quanto a numeri, offre sicuramente un quadro significativo poiché molti degli accadimenti coinvolgono, in quanto condivisi o, quanto meno, comunicati e conosciuti, dipartimenti e servizi invianti che a loro volta seguono centinaia di persone con, presumibilmente, modalità analoghe facendo emergere un modus operandi che se non è consuetudine, è quantomeno tollerato.
Sono molti gli episodi di maltrattamenti istituzionali occasionali o quotidiani di cui in questi piccoli contesti si possono raccogliere testimonianze: lasciare le persone nel letto sporco e/o bagnato per insegnare loro, magari incontinenti, a non “sporcare”; fare body shaming (ad esempio riferendosi ai “soliti ciccioni” parlando in équipe di persone con problematiche legate al peso anche a causa dei farmaci); buttare i “troppi libri” dalla mensola di un ospite perché “creano disordine”; somministrare la terapia al bisogno “alla prima parolaccia”, per sedare preventivamente ogni possibile lite; usare un linguaggio infantilizzante nel rivolgersi alle persone; minacciare l’interdizione o il TSO come strumenti per il consenso e l’obbedienza; violare la privacy, gestire discrezionalmente le risorse economiche, mentire o ingannare sulla somministrazione dei farmaci, chiamare o identificare le persone per diagnosi, piuttosto che per nome; ritardare o negare alcune comunicazione, informazioni, atti burocratici…; agire costantemente un paternalismo di cura e custodia stigmatizzante e spersonalizzante che non solo nega diritti, ma che inibisce o compromette qualsiasi percorso di emancipazione ed autodeterminazione.
Ci sono poi storie che procedono per anni, a volte nate da inserimenti forzati e involontari (o con un consenso estorto), sorta di deportazioni moderne sine die, dopo le quali si lavora (anche con colloqui psicologici, psichiatrici, educativi…) per convincere le persone che quella è la realtà più adatta per loro, l’unica consentita per il loro bene, condannandoli alla pratica quotidiana dell’intrattenimento spacciata come riabilitazione, e a una vita senza scopo, senza speranza e senza un altrove (11).
Ma il maltrattamento istituzionale passa anche da modalità di scrittura dei diari, delle comunicazioni o delle relazioni, in cui raramente sono riportati aspetti positivi, capacità e risorse, ma quasi solo difficoltà, criticità, episodi negativi, interpretazioni animate da stigma, sospetto, pregiudizi…
Quello della scrittura potrebbe sembrare un elemento secondario, ma non è così, perché, come insegnava Victor Klemperer, la lingua non si limita a creare e pensare per noi, dirige anche il nostro sentire: «Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico» (12).
Come è evidente, tutto ciò non solo va ad alimentare all’interno dei gruppi di lavoro e dei servizi alcune dinamiche che configurano maltrattamento istituzionale, ma, soprattutto, va a costruire un certo tipo di cultura di riferimento e, come argomentava Erving Goffman, «a sviluppare una teoria della natura umana [che] razionalizza le attività, provvede un mezzo sottile per mantenere la distanza sociale dagli internati, e un giudizio stereotipato su di loro, giustificando il trattamento cui sono sottoposti» (13).
Sono dinamiche e culture pervasive e invischianti, cui è difficile opporsi, facile assuefarsi, in particolare tenendo conto di alcuni meccanismi di funzionamento delle persone in gruppo, finemente analizzati da Stanley Milgram, ossia della pericolosa capacità degli individui di rinunciare alla loro morale e umanità, anzi, «della necessità di comportarsi in tal modo al momento in cui la loro personalità individuale viene incorporata in più vaste strutture istituzionali» (14).
Il maltrattamento istituzionale costituisce, in conclusione, una criticità e un campo di doverosa considerazione, approfondimento e ricerca, strettamente correlati alla dimensione del potere insito nei servizi e del rischio di un suo abuso o di un suo uso “violante”: «Le istituzioni, gli operatori, i professionisti sono chiamati a essere consapevoli di questo rischio, perché solo se consapevoli potranno non esserne sopraffatti. Il primo passo consiste nell’aver consapevolezza (da parte di istituzioni, servizi e personale) che questo rischio non residuale esiste per poter poi passar ad individuare ed elaborare possibili interventi di fronteggiamento, per riconoscerlo, riparlo e, per quanto possibile, almeno ridurlo» (15).
In preparazione alla Conferenza Nazionale del 2023, l’Ordine degli Assistenti Sociali coraggiosamente dichiarava: «Maltrattamento e violenza istituzionale, oppressione e soppressione dei diritti, sono molto più frequenti di quanto pensiamo. Noi assistenti sociali siamo parte del sistema e dobbiamo contrastare queste forme di discriminazione e di oppressione. Il tema del potere nelle professioni è spesso rimosso, ma come Ordine abbiamo deciso di accendere un faro su ciò che facciamo e soprattutto sul come. Tutti sbagliano, ma i professionisti – noi per primi – devono essere consapevoli che hanno più responsabilità di altri. La strada è ancora lunga, noi vogliamo percorrerla per migliorare e riconoscere cosa possiamo fare per essere dalla parte di chi è più debole. Speriamo di non essere i soli ad intraprendere questo percorso» (16).
Tale sincera analisi e presa di consapevolezza dovrebbe tradursi in una sollecitazione e contaminazione positiva di altri ordini, istituzioni e professionisti, in modo tale che, congiuntamente, si inizi ad analizzare e affrontare il tema del maltrattamento istituzionale nei diversi servizi e ambiti di intervento (psichiatria, persone con disabilità, anziane…), ponendosi anche una scomoda domanda, ossia se si tratti di un problema superabile o che vi è connaturato e quindi tale da richiedere un radicale cambiamento dell’intero sistema.
In questo cammino complesso e avvolto nell’oscurità dell’indifferenza e dell’inconsapevolezza, è opportuno conservare «un pensiero sensato, ed un agire ad etica minima ispirato» (17) e, soprattutto, tenere come faro le parole e i contributi sempre attuali di Basaglia: «Analizziamo pure il mondo del terrore, il mondo della violenza, il mondo dell’esclusione, se non riconosciamo che quel mondo siamo noi – poiché siamo le istituzioni, le regole, i principi, le norme, gli ordinamenti e le organizzazioni – se non riconosciamo che noi facciamo parte del mondo della minaccia e della prevaricazione da cui il malato si sente sopraffatto, non potremo capire che la crisi del malato è la nostra crisi» (18).
*Pedagogista, curatore tra l’altro, insieme a Simona Piera Franzino, della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità in CAA (Comunicazione Aumentativa Alternativa). Il presente approfondimento è già apparso in Persone e Diritti.it ed è stato ripreso da «Superando.it», il portale promosso dalla FISH (Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie, già Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap). Il Centro Informare un’h lo riprende a propria volta dal menzionato portale, con lievi adattamenti al diverso contesto, per gentile concessione.
Note:
(1) Si vedano ad esempio: M. Palma, Garante Nazionale dei diritti delle persone private della liberta, Relazione al Parlamento 2023 (e anni prec.); A Buon Diritto, Rapporto sullo stato dei diritti in Italia (Persona e disabilità – Salute mentale); B. Saraceno, I “nuovi” manicomi, 2023; Monitorare le strutture dove vivono persone con disabilità, in «Superando.it», 9 gennaio 2025.
(2) L. Linares, in Il maltrattamento istituzionale dei minorenni, Alpes Italia, 2023.
(3) A. Dissegna, Maltrattamento istituzionale, FrancoAngeli, 2022.
(4) F. Basaglia, F.O. Basaglia, Crimini di pace. Ricerche sugli intellettuali e sui tecnici come addetti all’oppressione, Einaudi, 1975.
(5) L’ultima lezione: trattare bene le persone, Lectio Magistralis di Benedetto Saraceno pronunciata a Torino il 25 gennaio 2024.
(6) M. Benasayag, Funzionare o esistere?, Vita e pensiero, 2019.
(7) F. Basaglia, Le istituzioni della violenza, in Scritti (1953-1980), Il Saggiatore, 2017.
(8) F. Basaglia, Appunti di psichiatria istituzionale, in Scritti (1953-1980) cit.
(9) G. Tibaldi, Introduzione a Indagine su un’epidemia, di R. Whitaker, Giovanni Fioriti Editore, 2013. Si veda anche G. Tibaldi, Il gioco vale la candela?, in «Rivista Sperimentale di Freniatria», vol. CXL, n. 2, 2016.
(10) D. Di Cesare, Tortura, Bollati Boringhieri, 2016.
(11) B. Saraceno, L’ultima lezione: trattare bene le persone cit.
(12) V. Klemperer, LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, Giuntina, 1998.
(13) E. Goffman, Asylums, Einaudi, 1961.
(14) S. Milgram, Obbedienza all’autorità, Bompiani 1975.
(15) A. Dissegna, Maltrattamento istituzionale, cit.
(16) CNOAS (Consiglio Nazionale Ordine Assistenti Sociali), Con le vittime, sempre, 2023.
(17) F. Rotelli, Quale psichiatria? Taccuino e lezioni, Alphabeta, 2020.
(18) F. Basaglia, Crisi istituzionale o crisi psichiatrica?, in Scritti (1953-1980) cit.
Ultimo aggiornamento il 18 Aprile 2025 da Simona