di Stefania Delendati *
Già autrice qualche tempo fa, per il portale «Superando.it», dell’esauriente approfondimento intitolato “Quel primo Olocausto” e dedicato allo sterminio delle persone con disabilità durante il regime nazista, Stefania Delendati torna sul tema a pochi giorni dal 27 gennaio, data in cui, com’è noto, si celebra ogni anno il Giorno della Memoria dedicato a tutte le vittime dell’Olocausto. E lo fa, questa volta, trattando un argomento ancora poco dibattuto, che rischia di passare quasi inosservato anche nel Giorno della Memoria, vale a dire l’Olocausto vissuto dalla donne, tante delle quali donne con disabilità fisiche e mentali, internate nel lager di Ravensbrück, poco a nord di Berlino.
C’è un fiore, una rosa, che ricorre in disegni, bigliettini, poesie e ricami. Li hanno abbozzati segretamente le donne internate a Ravensbrück, quei fiori, un modo per continuare a riconoscersi come persone, unite per resistere all’orrore nazista.
A Ravensbrück, letteralmente “ponte dei corvi”, villaggio prussiano a ottanta chilometri a nord di Berlino, le SS concepirono un luogo destinato alla “detenzione preventiva femminile”, in realtà l’unico campo di concentramento progettato dal Reich per eliminare le donne “non conformi” che avrebbero potuto contaminare la “razza ariana”, oppure semplicemente giudicate “inutili”.
Dal maggio del 1939, quando arrivarono le prime prigioniere, all’ingresso dell’Armata Rossa che liberò il campo, il 30 aprile 1945, da Ravensbrück passarono 132.000 donne provenienti da venti nazioni, soprattutto tedesche, italiane, polacche, francesi, austriache e russe.
Erano donne con disabilità fisiche e mentali, oppositrici politiche, omosessuali, mendicanti, Rom, testimoni di Geova, prostitute, solo il 10% di origine ebraica.
Dai documenti sopravvissuti alla distruzione risulta che ve ne morirono circa 92.000, vittime di sevizie e “sperimentazioni” pseudo-scientifiche, oppure debilitate dagli stenti, malate, pertanto uccise nelle camere a gas con lo Zyklon B, lo stesso agente tossico a base di acido cianidrico utilizzato negli altri campi di sterminio, e infine bruciate nei forni crematori.
Le vicende accadute a Ravensbrück sono tra quelle che ricorrono meno nel Giorno della Memoria. Sino alla fine della guerra fredda, quindi all’inizio degli Anni Novanta, pochi sapevano della sua esistenza. Le sopravvissute si vergognavano di raccontare, come se fosse stata colpa loro, e se lo facevano venivano additate come “bugiarde”, o peggio “complici”, accusate di essersi concesse volontariamente al nemico per salvarsi.
Tra le prime a sentire il dovere di tramandarne la testimonianza, ad avere il coraggio di farlo in un clima ostile e in anticipo sui tempi, fu un’italiana, Lidia Beccaria Rolfi, che arrivò a Ravensbrück il 30 giugno 1944, a bordo di un carro bestiame. Era partita quattro giorni prima dalle Carceri Nuove di Torino nelle quali aveva trascorso due mesi di angoscia, fra torture e minacce di morte, insieme ad altre donne in una cella sovraffollata.
Lidia era una maestra di Mondovì, staffetta partigiana dall’età di diciotto anni con il nome di “maestrina Rossana”; quando non insegnava fabbricava bombe a mano in casa e le nascondeva sotto il letto. Quando giunse in Germania, le parve perfino una liberazione, niente sarebbe stato peggio di quello che aveva passato, pensava, mentre incolonnata a piedi con le compagne marciava per i quattro chilometri che separavano la stazione ferroviaria dal campo.
Ravensbrück si presentò con un alto muro sormontato da torrette di guardia e filo spinato elettrificato. Quelle donne che varcarono il portone furono le prime italiane non ebree ad essere internate.
L’impatto è ben descritto da un’altra superstite, Mirella Stanzione: «Il lager si presenta grigio, tetro, silenzioso. Si odono solo comandi secchi in tedesco e il latrato dei cani che insieme ai soldati ci circondano. Sulla piazza del lager notiamo una colonna di donne: sono le deportate che ci hanno precedute. Sono magre, sembrano affaticate, sono visibilmente sporche, e molte sono rapate. Hanno poco l’aspetto di donne, indossano una divisa a righe e ai piedi hanno gli zoccoli, tutte però hanno ben visibile sul vestito un numero e un triangolo di colore diverso che le contraddistingue, le qualifica».
Per le deportate politiche come Lidia e Mirella il triangolo era rosso. La sorte peggiore toccava alle lesbiche, loro non “meritavano” neppure il triangolo rosa riservato agli uomini omosessuali negli altri campi. Erano insignificanti in quanto donne con l’aggravante di un comportamento “deviato”, pertanto passibili di ogni brutalità.
Lo scopo principale era annientare la dignità e l’identità delle prigioniere, tutto concorreva a raggiungere l’obiettivo. A partire dalla fame, il bisogno primario di cibo e l’istinto di sopravvivenza creavano conflitti fra le detenute. Il resto lo facevano il freddo, la sporcizia, il lavoro massacrante, le botte e le umiliazioni.
Non tutte venivano rapate all’ingresso, un altro modo per spaventarle era lasciarle nell’incertezza di quello che sarebbe accaduto durante la prima visita medica. Nessuna aveva le mestruazioni, Mirella è convinta che mettessero qualche farmaco nei magri pasti, perché il ciclo le tornò quando venne liberata.
Con i primi capelli bianchi e il corpo coperto da piaghe provocate dall’avitaminosi anche Lidia dimostrava molto più dei suoi 19 anni. Poi c’era la paura, la paura del dopo, soprattutto, il terrore di fronte all’ignoto che le aspettava. Le accomunava tutte, Lidia e Mirella, come l’amica di quest’ultima Bianca Paganini Mori, Livia Borsi e le sorelle Lina e Nella Baroncini, Maria Massariello Arata e Teresa Noce, solo per citarne alcune.
Erano giovani ragazze, all’epoca dei fatti, che divenute donne hanno dedicato la vita alla testimonianza. Alcune non sono più tra noi: Lidia è scomparsa nel 1996, Bianca nel 2013 e Nella nel 2015, Teresa nel 1980, Maria, cui è dedicato un parco a Forte dei Marmi, all’inizio degli Anni Settanta. I loro ricordi, tramandati oralmente e per iscritto, sono un’opera corale che nella sua drammaticità esorta alla speranza.
Ravensbrück era sorto su una proprietà personale di Heinrich Himmler, il capo delle SS, una duna sabbiosa e desolata, circondata da conifere e betulle. Vennero costruite trentadue baracche per le deportate, uffici amministrativi, le case per le guardie e un complesso industriale dove le donne cucivano e tessevano. Nel 1941 venne aggiunto un campo di concentramento minore, per gli uomini, oppositori politici tedeschi che dovevano essere “rieducati”, e nel ’42 fu la volta di un campo di “custodia preventiva minorile”. Poco fuori dal perimetro si trovavano le venti officine della Siemens di Berlino, dove le prigioniere venivano sfruttate come manodopera a bassissimo costo per equilibrare dei manometri. I turni erano di dodici ore, di giorno e di notte, il lavoro non era di per sé particolarmente gravoso e c’era il vantaggio di poter stare sedute al coperto, ma in quelle condizioni fisiche poteva diventare insopportabile. Era un compito delicato, se si sbagliava bisognava trovare il modo di buttare il manometro senza farsi vedere, altrimenti le aspettavano il frustino, il bastone e la cella di punizione. Una volta tornate nella baracca non potevano riposare, c’era l’appello, due-tre ore all’aperto nel freddo del Nord Europa, vestite leggere, e si dovevano svolgere incombenze pesanti, tipo trasportare bidoni e caricare il carbone.
Il primo contingente femminile arrivato a Ravensbrück era costituito da 867 donne austriache e tedesche, in gran parte comuniste, socialdemocratiche, testimoni di Geova e “ariane” accusate di avere avuto rapporti con uomini di “razza” inferiore. Poco dopo vennero internate 400 donne di etnia Rom e Sinti con i loro bambini.
Le storie dei bambini sono un capitolo ancor più doloroso. Nei sei anni in cui il campo fu in funzione, al suo interno ne nacquero 870, ma pochissimi resistettero al clima rigido e alla denutrizione. Molte donne subirono sterilizzazioni forzate, la maggior parte di quelle che entrarono incinte venne fatta abortire, ad alcune venne concesso di portare a termine la gravidanza e furono costrette a vedere il proprio bambino calpestato sotto i piedi delle SS.
Tra gli aguzzini si ricorda in particolare Hermine Brausteiner, una donna. Il personale di sorveglianza era formato da speciali reparti femminili, Ravensbrück, infatti, era anche un centro di preparazione per le ausiliarie SS. Tra il 1942 e il 1945 vennero addestrate circa 3.500 guardie, attirate dagli appelli sui giornali patriottici che promettevano uno stipendio buono. Il campo, dunque, era una perfetta macchina della morte, organizzata in ogni settore.
Le prigioniere confezionavano le divise della Wehrmacht, l’esercito tedesco, venivano usate come cavie per “esperimenti”, principalmente giovani polacche che venivano chiamate in maniera dispregiativa lapines (“coniglie”). Anche tra i medici impegnati in questa “attività” c’era una donna, Herta Oberheuser. Alcune venivano mandate come prostitute nei bordelli interni di altri campi di concentramento, alla mercé degli ufficiali e offerte come “premio” ai collaborazionisti. Uno dei più tristemente famosi era attivo ad Auschwitz.
In alcune baracche, ribattezzate Sonderbauten (edifici speciali), giovanissime sotto i 25 anni, per lo più tedesche, polacche e ucraine internate come “asociali” (escluse per principio le ragazze ebree), dovevano offrire prestazioni sessuali a una particolare categoria di prigionieri, quelli più produttivi, che svolgevano compiti di sorveglianza all’interno del lager. Erano stabiliti con rigore turni, tariffe e orari; ogni rapporto veniva sorvegliato attraverso degli spioncini. Pochissime le gravidanze, “risolte” con l’aborto, dal momento che le donne spesso venivano sterilizzate, oppure erano incapaci di avere figli per le condizioni fisiche. Una volta sfinite, se avevano ancora una scintilla di vita, diventavano oggetto di esperimenti. Tra quelle scampate, molte non ebbero nemmeno in questo caso il coraggio di raccontare.
Dal 1941 Friedrich Mennecke, il medico di Ravensbrück, impartì l’ordine dei “trasporti neri”. Era la cosiddetta Aktion 14F13, operazione segreta ordinata dal Reich per selezionare e assassinare i deportati divenuti inabili, inviandoli in centri attrezzati per l’eliminazione.
Il campo continuò ad essere ampliato fino al 1945. Aumentarono le baracche e divennero una quarantina i campi satellitari nei quali i prigionieri, donne e uomini, furono costretti a lavorare come schiavi. Rimase un luogo relativamente piccolo rispetto ad altri campi, ma non vi mancava nulla. Himmler lo visitò alla fine del 1944 e stabilì che si dovessero uccidere ogni giorno cinquanta-sessanta donne. Arrivarono da Auschwitz i componenti per costruire una camera a gas provvisoria, vicino al forno crematorio; in quella camera trovarono la morte per asfissia 6.000 donne, l’ultimo sterminio di massa del regime nazista, ignorato dalla storia per un lungo periodo.
Intanto proseguiva la lotta delle deportate per non soccombere. Le italiane erano viste con sospetto dalle altre prigioniere, considerate fasciste e alleate con la Germania, senza pensare che tutte, indipendentemente dalla nazionalità, erano lì dentro per gli stessi motivi.
Nei confronti di Lidia l’atteggiamento cambiò il giorno in cui si unì al canto di una ragazza francese che intonava Bandiera rossa. Quel gesto istintivo attirò le simpatie delle compagne d’oltralpe, che riuscirono a farla entrare nella fabbrica della Siemens dove si stava leggermente meglio.
Mirella ricorda una russa che la chiamava con disprezzo “Mussolini”, mentre con le pale spianavano una collinetta. Anche nei suoi confronti il comportamento mutò dopo mesi di permanenza: fu una prostituta francese ad evitare la separazione di Mirella dalla madre con un sotterfugio. Cominciò così una solidarietà trasversale che non badava alla provenienza, alla religione, all’ideologia politica, un movimento di resistenza per aiutare le donne più esposte e i pochi bambini del campo. Le deportate prese di mira dalle SS potevano contare su una rete clandestina che cercava di sottrarle alla violenza e sabotava i lavori forzati. La rosa di cui parlavamo all’inizio si può considerare il simbolo di questo movimento, un fiore nel quale le prigioniere si riconoscevano ed esprimevano amicizia e resistenza.
Lidia comprese che per non naufragare con la mente aveva bisogno di esercitare i ricordi; mettere nero su bianco quanto stava vivendo le avrebbe permesso di elaborarlo e raccontarlo in futuro. Nella fabbrica rubò della carta e alcune compagne recuperarono per lei un album da disegno e un mozzicone di matita. Se l’avessero scoperta avrebbe rischiato severe punizioni, ma iniziò ugualmente ad annotare ogni cosa che vedeva in una sorta di diario.
Nell’aria si sentiva sempre l’odore acre del forno crematorio e con l’avvicinarsi della fine della guerra le condizioni peggiorarono. Sparì il pezzo di pane che doveva durare tutto il giorno e nella zuppa di rape non si trovavano più pezzetti o bucce di patata. Il kaffee holen, una specie di caffè del mattino, diventò una brodaglia nera con filamenti che parevano erba. Mirella aveva ascessi sulla schiena, c’era chi li aveva sul viso, sulle gambe, sulle braccia; Lidia ormai pesava 32 chili ed era allo stremo delle forze.
Nel campo c’erano all’incirca 45.000 deportati, 1.200 gli italiani, di cui 391 uomini e 871 donne. Un accordo con la Croce Rossa svedese, voluto da Himmler il 23 aprile 1945, permise la liberazione di circa 7.000 deportate; tre giorni dopo venne ordinata l’evacuazione dei prigionieri restanti in grado di reggersi in piedi. Al freddo, sotto la pioggia battente e con pochissimo cibo, 20.000 internati, suddivisi in diverse colonne, si misero in marcia verso nord-ovest. I russi erano alle porte, bisognava fare presto; le SS non permettevano soste, si fermavano soltanto quando arrivava un aereo per mitragliare, allora ci si doveva sdraiare per terra. Chi cadeva veniva ucciso.
Quando la Seconda Armata Sovietica del fronte bielorusso entrò a Ravensbrück vi trovò 3.000 donne rimaste nelle baracche perché troppo deboli per seguire le compagne nella fuga forzata. Le superstiti in marcia vennero salvate poche ore dopo sempre dalle unità sovietiche in avanzata che le affidarono agli americani.
Le italiane si scontrarono da subito con l’insensibilità degli alleati, sospettate di aver concesso favori sessuali ai nazisti. Non venne riconosciuto loro neppure il diritto di ricevere i pacchi della Croce Rossa. Tornate in patria, sperimentarono un’accoglienza fredda e gli stessi pregiudizi.
Mirella – che nel novembre scorso è stata proposta per la cittadinanza onoraria dal Comune di Castelraimondo, in provincia di Macerata, insieme alla senatrice Liliana Segre – racconta: «Io sono stata zitta per cinquant’anni, nessuno, neanche i miei compagni di scuola, nessuno mi ha domandato “Ma che cosa ti è successo?”. Nessuno. Non solo – e questo mi aveva colpito, non perché io volessi raccontare, non ne avevo nessuna voglia – pensavo che ci fosse un certo interesse a capire, a sapere qualche cosa. Era così fresca la cosa… Tant’è vero che ancora qualcuno non lo sa che io sono stata in un campo di concentramento, perché siamo arrivati al punto di provare quasi un senso di vergogna a dire “sono stata in un lager tedesco”. Tutto questo naturalmente era accentuato dal fatto che ero donna e quindi mi sentivo dire: “Perché non sei rimasta a casa? Chi te l’ha fatto fare? Chissà cosa avrai fatto! Eh! Sia con i tedeschi che con i russi o gli americani…”. Allora di fronte a questo uno dice “Ma no, non vale neanche la pena che io sprechi le mie parole per queste persone…”. Mi dispiace mettere nel mucchio tutti gli italiani, ma devo dire che è stato così».
Lidia rientrò a casa nel giugno del 1945. Tentò ripetutamente di parlare della sua sofferenza, ma i partigiani amici di un tempo la trattarono con indifferenza, giudicandola poco più di una prostituta, e anche i familiari che l’accolsero con gioia erano diffidenti di fronte ai suoi ricordi. I mutamenti avvenuti all’interno della società e della politica non aiutavano. Si faceva strada la guerra fredda, il nemico era il comunismo e un silenzio ottuso calò sui crimini nazifascisti.
In Italia molti ruoli di potere erano rimasti in mano a persone con un passato fascista, anche nel personale scolastico di cui Lidia faceva parte. Le venne impedito di ricominciare ad insegnare, un provvedimento in linea con le direttive non scritte per cui bisognava emarginare i “testimoni scomodi”. Quando ricominciò a lavorare in sperduti paesini, era tenuta sotto controllo dalle autorità.
Nessuno ancora sapeva di Ravensbrück, ormai “nascosto” dietro la cortina di ferro. Se ne fece cenno soltanto in un libro pubblicato per la prima volta in Italia nel 1955, Il flagello della svastica. Breve storia dei delitti di guerra nazisti di Edward Russell (Pgreco, 2017).
Vivevano situazioni analoghe le donne degli altri Paesi. Alla giornalista britannica Sarah Helm, autrice del libro If This Is A Woman. Inside Ravensbruck: Hitler’s Concentration Camp for Women (Little Brown Book Group, 2015), le vittime francesi hanno detto che l’unica domanda che veniva loro rivolta era se fossero state stuprate (il volume è uscito in Italia nel 2017 per Newton Compton con il titolo Il cielo sopra l’inferno).
In Unione Sovietica tacevano per paura, Stalin, infatti, poteva accusare di tradimento i connazionali che erano stati catturati e spedirli in Siberia dopo un’indagine sommaria. Meglio chiudersi nel mutismo e parlare soltanto con quelli che avevano vissuto la medesima esperienza.
Nel dicembre 1958 Lidia entrò a far parte del Consiglio Nazionale dell’Associazione Ex-Deportati, unica donna ammessa, e nel corso di quel secondo congresso, a Torino, in una sala piccola con poche persone, i giovani presenti si mostrarono sinceramente desiderosi di conoscere le storie dei sopravvissuti. Era l’incoraggiamento di cui sentiva il bisogno. Rielaborò gli appunti scritti durante la prigionia e partendo da quelli diventò l’instancabile testimone di un’epoca sconvolgente, rimanendo tale fino alla morte, senza pause, malgrado fosse, come molte compagne, debilitata nel fisico e nella mente. Fu la rappresentante italiana del Comitato Internazionale di Ravensbrück, fece parte di un’Associazione per il sostegno alle persone affette da malattie mentali e scrisse tre libri, Le donne di Ravensbrück (Einaudi, 2003), in collaborazione con Anna Maria Bruzzone, pubblicato nel 1978, L’esile filo della memoria (Einaudi, 1996) sul ritorno a casa e il difficile reinserimento e Il futuro spezzato. I nazisti contro i bambini (Giuntina, 1997), scritto a quattro mani con Bruno Maida e uscito postumo nel 1997. Lo stesso Maida le ha dedicato un affettuoso ritratto in Non si è mai ex deportati. Una biografia di Lidia Beccaria Rolfi (UTET, 2008).
Gli ex prigionieri di Ravensbrück e i membri di un’Associazione di perseguitati dal regime nazista, fin dal 1948 cercarono di preservare il campo dalla rovina, dopo che l’esercito sovietico lo occupò come caserma. Da allora, per un po’ di anni, si tennero cerimonie commemorative con la deposizione di fiori su un monumento provvisorio.
Il Ravensbrück National Memorial, uno dei tre memoriali nazionali della Repubblica Democratica Tedesca, venne inaugurato ufficialmente il 12 settembre 1959. Il progetto includeva il forno crematorio, la prigione e una sezione della cinta muraria alta quattro metri. È sotto il tratto ovest del muro perimetrale che sono stati traslati i resti delle detenute e le copiose ceneri rinvenute intorno al crematorio si trovano in un’unica grande fossa comune evidenziata da un roseto.
Simbolo del memoriale è la scultura in bronzo Tragende (“La portatrice”), opera di Will Lammert. Nel bunker, ovvero la vecchia prigione, ha sede un museo contenente centinaia di oggetti, disegni e documenti donati dalle ex deportate di tutta Europa. È lì che si trovano i fogli che Lidia rubò e scrisse di nascosto, sono stati portati dal figlio a Ravensbrück, scansionati e resi così facilmente visibili a quanti si recano nel luogo. Risalgono invece agli Anni Ottanta la Rassegna delle Nazioni, un centro con diciassette sale commemorative, a disposizione delle organizzazioni dei singoli Paesi per l’allestimento di mostre, e il Museo della Resistenza Antifascista, la principale esposizione permanente del memoriale.
Come Auschwitz e altri campi di sterminio sono il simbolo dei crimini contro gli ebrei, Ravensbrück è la “capitale” delle atrocità commesse nei confronti delle donne che, non dimentichiamolo, rappresentano più della metà delle vittime dell’Olocausto. Tra loro, molte erano affette da disabilità.
Non abbiamo dichiarazioni di donne con disabilità superstiti, talché è facile immaginare che nessuna sia sopravvissuta a Ravensbrück, considerando le condizioni svantaggiate di partenza sommate a quanto vissuto. “Diverse” per il resto dei loro giorni sono state anche le donne che hanno avuto salva la vita, reduci con la salute in molti casi compromessa, il peso di un’esperienza terribile da sopportare e la consapevolezza di non essere capite.
Ravensbrück è un luogo ancora poco conosciuto, purtroppo, ma lo stesso di grande importanza storica e umana. Per non dimenticare, adesso che le testimoni dirette sono rimaste poche, dobbiamo sentirci in dovere di raccogliere la loro eredità e tramandarla alle generazioni future.
Chiudiamo con le parole di Primo Levi, amico di Lidia Beccaria Rolfi: «Le deportate erano, nel migliore dei casi, estenuati animali da lavoro e, nel peggiore, effimeri “pezzi d’immondizia”. Ce lo confermano le pochissime a cui la forza, l’intelligenza e la fortuna hanno concesso di portare testimonianza».
* Il presente testo è già stato pubblicato su Superando.it, il portale promosso dalla FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), e viene qui ripreso, con lievi adattamenti al diverso contesto, per gentile concessione.
Vedi anche:
Stefania Delendati, Quel primo Olocausto, «Superando.it», 20 Gennaio 2015. Segnaliamo inoltre che alla pagina indicata, nella colonnina a destra del testo, è possibile consultare un cospicuo elenco di testi pubblicati nel portale negli ultimi anni sullo sterminio delle persone con disabilità da parte del regime nazista.
Ultimo aggiornamento il 30 Gennaio 2020 da Simona