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Lesbismo e lavoro di cura

di Maria Laricchia *

Quella narrata da Maria Laricchia non è una semplice testimonianza, ma una riflessione che, partendo dalla propria esperienza di donna lesbica e di sorella di una persona con disabilità, arriva a mettere in discussione le aspettative stereotipate che ancora oggi gravano sulle donne (anche sulle donne lesbiche) riguardo alle mansioni di cura. Una lettura intersezionale che considera simultaneamente le variabili del genere, della disabilità e dell’orientamento sessuale, e si concentra sulle diverse forme di oppressione che possono scaturire da esse. (S.L.)

 

Alcune rose con i colori dell’arcobaleno, gli stessi utilizzati per identificare la comunità LGBTQ (acronimo che indicare le persone Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transgender e Queer).

Di essere lesbica l’ho sempre sentito, di essere sibling[1] l’ho capito molto presto nella vita.

Ho un fratello con disabilità e questo fa di me una sibling. Che la disabilità di mio fratello fosse una condizione per la quale sarebbe stato discriminato l’ho capito dai primi giorni all’asilo insieme. Prima che l’ambiente scolastico e sociale stigmatizzasse mio fratello come un problema, lo condannasse a trascorrere i giorni nella classe H (handicap) privandolo del diritto all’istruzione, lo bullizzasse con minacce e molestie, posso dire che non avevo ancora incontrato la disabilità. A disabilitare una persona non è tanto la condizione cognitiva, psichica, fisica che può vivere, ma il sistema-ambiente.

Nei mesi scorsi ho partecipato, assieme ad altre donne, a un gruppo di condivisione per sibling giovani adulti, uno spazio di confronto guidato dalla psicologa e psicoterapeuta Giulia Franco.

Grazie alla condivisione dei vissuti ho riconosciuto molte caratteristiche che accomunano i vissuti delle sibling: il senso di colpa, il non legittimarsi a perseguire i propri obiettivi e la propria gioia, il carico di aspettative da parte dei genitori, lo sviluppo di patologie, la preoccupazione per il futuro delle proprie sorelle o fratelli, l’anteporre le altre persone a sé, le discriminazioni e le violenze subite e assistite, i rapporti familiari tossici. Ma anche la capacità di ascolto attivo e di accoglienza, di comunicare con linguaggi diversi dai convenzionali e tanto altro, tutto meritevole di riflessioni.

Il dato che subito ho notato e su cui mi voglio soffermare è che le partecipanti al gruppo fossero tutte sorelle. Non credo sia casuale.

Le politiche che si attuano sulle (e non “con le”) persone con disabilità sono assistenzialistiche e molto distanti dal garantire i diritti fondamentali sanciti nella Convenzione Onu dei diritti delle persone con disabilità, ratificata nel 2009 anche dall’Italia [con la Legge 18/2009, N.d.R.].

Oggi la prospettiva con cui si progettano gli spazi pubblici, i servizi e le politiche non si cura di creare un ambiente in cui una persona che vive una condizione di disabilità, al pari di una persona che non vive tale condizione, possa realmente agire i propri diritti e scegliere per sé una vita indipendente.

La mancanza di un ambiente capace di farsi attraversare da tutte le soggettività genera esclusione. Matteo Schianchi nel suo libro La terza nazione al mondo stima che il numero delle persone con disabilità sia il 10% della popolazione globale, che equivarrebbe alla nazione più popolata del mondo dopo Cina e India. Ma se, come accade, le persone con disabilità, nonostante siano così tante, non si vedono in giro nei luoghi che frequentiamo abitualmente, dove sono?

Sono recluse e segregate negli istituti o sono a casa con le loro famiglie. Ancora troppo poche possono costruirsi una vita indipendente e partecipare alla vita pubblica.

Il sistema abilista dominante, ancora oggi, spinge ai margini le soggettività che vivono una condizione di disabilità. Il nostro welfare è un sistema strutturato sulla delega alla famiglia (tradizionale) della cura e del benessere delle persone. Mentre percorro questa riflessione trovo un punto di giunzione, un nodo dove si intersecano l’abilismo e il patriarcato.

Non è stato un caso che a partecipare al gruppo sibling fossimo tutte sorelle. L’aspettativa sociale della cultura patriarcale prevede implicitamente la delega del lavoro (gratuito) di cura alle donne (o socializzate donne, come le lesbiche).

A occuparsi e preoccuparsi della persona con disabilità dunque deve essere la madre, la figlia, la sorella: il patriarcato ritiene siano vocate naturalmente alla cura di anzianə, bambinə, malatə, persone con disabilità.

Quando a essere investita di questa aspettativa sociale è una soggettività lesbica, viene ancor più legittimato il fatto che il ruolo di caregiver (colei che si prende cura) sia in capo a lei. La cultura lesbofoba da una parte socializza le lesbiche come donne, assegnando loro ruoli tradizionalmente attribuiti al genere femminile (tra cui il lavoro gratuito di cura) e dall’altra invisibilizza e rimuove le relazioni sentimentali e le reti affettive lesbiche: «Non hai figli, non hai famiglia, hai tempo e energie per dedicarti alla cura, più di tuo fratello etero che si sposerà, avrà famiglia e farà carriera».

Quando ho iniziato a interpretare il mondo con le lenti di un lesbofemminismo radicale e intersezionale mi sono liberata del ruolo imposto di caregiver e ho scelto la relazione con mio fratello. Il rifiuto dell’automatismo nell’affidamento del lavoro di cura e di un approccio assistenzialistico non voleva dire non desiderare di avere una relazione con lui. Anzi, si è andata consolidando una relazione consapevole, reciproca, circolare, supportiva dell’autodeterminazione di entrambə.

Questo mi ha stimolato riflessioni sulle relazioni e sulle reti oltre la famiglia tradizionale e sulla possibilità di rendere collettiva la responsabilità della cura.

Il tema della cura, dei ruoli di genere, delle violenze di genere, dell’autodeterminazione, della costruzione di una vita indipendente e non subordinata a un uomo, sono temi dibattuti nei movimenti femministi. Tuttavia questi movimenti non hanno considerato, se non negli ultimi anni, che le stesse rivendicazioni valgono quando si vive una condizione di disabilità. Dall’altra parte, i movimenti delle persone con disabilità per lungo tempo non hanno tenuto conto delle specifiche questioni di genere, non hanno decostruito il modello tradizionale di famiglia, né scardinato il tabù sulla sessualità. Le cose stanno cambiando grazie all’impegno delle attiviste che lavorano su questi temi ed esplorano le connessioni fra le oppressioni multiple, tra cui Valeria AlpiFrancesca ArcaduChiara BersaniMarina Cuollo,  Valentina FiordelmondoSimona LancioniPiera NobiliMaria Chiara e Elena PaoliniMaria Cristina PesciSofia RighettiRosalba TaddeiniFrancesca TalozziMaria Venditti.

Credo che come lesbiche dovremmo essere parte di un processo che fa sì che i movimenti lesbici, femministi e delle persone con disabilità si parlino, si ascoltino, si mescolino, creino alleanze. Per dirlo con le parole del documento politico di Lesbiche Bologna Cambiamo tutto«Non può esserci femminismo né lesbismo senza lotta all’abilismo». È necessario che i movimenti attivino politiche intersezionali contro la molteplicità delle oppressioni che il sistema abilista e patriarcale esercita sulle nostre vite, disabilitandoci. Come scrive Donna Haraway in Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto: «Questo significa aprirsi a collaborazioni e combinazioni inaspettate, essere prontə[2] a far parte di caldi cumuli di compost. Con-diveniamo insieme […], oppure non diveniamo affatto».

 

Nota della redazione: nel presente articolo, in luogo delle desinenze maschile e femminile, è utilizzato il seguente simbolo «ə» (schwa) allo scopo di indicare le persone di tutti i generi, non solo quelle di genere maschile e femminile.

 

* Il presente articolo è già stato pubblicato su «La Falla», la pubblicazione mensile del Cassero LGBT center di Bologna, con il titolo “Lesbica è chi la lesbica fa – con-divenire insieme”, e viene qui ripreso, con lievi adattamenti al diverso contesto, per gentile concessione.

 

Vedi anche:

Cassero LGBT center di Bologna

Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema del “Lavoro di cura”.

Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “Donne con disabilità: diritti sessuali e riproduttivi”.

Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “Donne con disabilità”.

 

[1] Il termine sibling nasce in Italia circa 23 anni fa dal bisogno di autodefinirsi da parte di un gruppo di sorelle e fratelli di persone con disabilità, su suggerimento della dottoressa Anna Zambon Hobartpsicologa del Servizio informazione e consulenza dell’Associazione Bambini Down.

[2] Mi sono permessa di sostituire il plurale maschile con lo schwa.

 

Ultimo aggiornamento il 13 Ottobre 2020 da Simona