Una relazione amorosa e i rapporti sessuali, se scelti, ti fanno stare bene e ti colorano la vita. Se li scelgono altri o ti vengono imposti, ti deturpano l’esistenza. Accade la stessa cosa anche per le scelte di maternità. Per questo motivo è difficile capire come possa anche solo prendere in considerazione l’ipotesi di interferire con le scelte riproduttive delle donne chi dice di richiamarsi al rispetto dei diritti umani.
Ho bisogno di alleggerire le spalle.
Perché è da troppo tempo
che sono cariche di pesi
che non ho voluto e non ho chiesto.
E poi sotto ci sono le mie ali.
Ci sono io, che ho bisogno di volare.
Sono parole di Alda Merini (1931-2009), straordinaria poetessa a cui venne diagnosticato un disturbo bipolare all’età di 16 anni e trascorse una parte importante della sua esistenza in manicomio. Pochi versi per fotografare quello che è ancora il destino di molte donne, rinunciare a “volare” (a realizzare i propri sogni e le proprie aspirazioni), per occuparsi di cose (i “pesi”) che loro non hanno voluto e non hanno scelto, e che altri e altre hanno scelto per loro. Detto in poesia persino un concetto di così grande spessore si veste di leggerezza e sembra quasi ondeggiare al suono delle parole.
La Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (ratificata dall’Italia con la Legge 18/2009) ha definito un paradigma che si basa sul riconoscimento dei loro diritti umani. Si tratta di un traguardo fondamentale perché fornisce un criterio di valutazione per qualsiasi attività o azione si voglia intraprendere: se queste attività o azioni sono in linea con la Convezione ONU sono ammissibili, se non lo sono vanno rigettate. Nella sostanza si tratta di riconoscere a tutte le persone con disabilità gli stessi diritti e le stesse libertà riconosciute alle altre persone. Chi ha redatto il testo ha avuto anche la sagacia di introdurre disposizioni a tutela dei diritti e delle libertà delle ragazze e delle donne con disabilità perché, essendo queste discriminate sia in quanto donne che in quanto persone con disabilità, per esercitate tali diritti e tali libertà in condizioni di uguaglianza hanno necessità di attenzioni e accorgimenti specifici. Una delle aree di maggiore discriminazione a cui sono particolarmente esposte tutte le donne, ma le donne con disabilità ancora di più, è quella sessuale e riproduttiva, c’è sempre qualcuno o qualcuna che vuole sindacare su come le donne gestiscono questi aspetti personalissimi delle loro esistenze assumendo atteggiamenti paternalistici e cercando di sostituirsi a loro nelle loro scelte. Si tratta chiaramente di una forma di violenza, e questo è risaputo. Meno noto è che talvolta sono le stesse persone con disabilità, che questo tipo di violenza la subiscono in molti ambiti della propria vita, a volerla agire nei confronti delle donne.
Alcuni anni fa, a Firenze, una donna in sedia a rotelle mi spiegò di sentirsi lesa dal diritto delle donne di praticare l’aborto terapeutico, quello ammesso oltre il terzo mese di gravidanza in presenza di rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. Lei si sentiva discriminata e minacciata nella propria esistenza dall’idea che sua madre avrebbe potuto abortire in ragione della sua disabilità, e per contrastare questa minaccia si riproponeva di agire con la sua associazione per vietare questa possibilità. Non nego che rimasi molto impressionata da questa donna che pur di controllare le scelte riproduttive delle altre donne era fortemente determinata a limitare anche la propria libertà. Non ci fu occasione di confrontarci, lo scambio avvenne tra una riunione e l’altra. Peccato.
L’aborto terapeutico lede i diritti delle persone con disabilità? Per stabilirlo dobbiamo guardare la Convenzione ONU. Quindi la domanda diventa: l’aborto terapeutico è in contrasto con la Convenzione ONU? No! La Convenzione ONU non riconosce ad embrioni e feti lo status giuridico di persone, dunque nessuna delle sue disposizioni si applica a questi. Questa cosa è talmente vera che, proprio per questo motivo, lo Stato Vaticano, da sempre ossessionato dal sottrarre alle donne il controllo della funzione riproduttiva, si è rifiutato di ratificarla. Ma c’è di più, infatti la Convenzione ONU vieta espressamente che le persone con disabilità, ed in particolare le donne con disabilità, siano discriminate nell’area della salute sessuale e riproduttiva (articolo 25). Questo vuol dire che negli Stati in cui l’interruzione volontaria di gravidanza è legale le donne con disabilità, se lo desiderano, hanno diritto sia di intraprendere una gravidanza, sia di interromperla se, avendola intrapresa, si rendono conto di non sentirsi in grado di portarla avanti. Infatti costituisce una forma di coercizione riproduttiva interferire con le loro decisioni cercando di orientare la scelta in funzione di terzi (ossia qualsiasi persona che non sia la stessa donna con disabilità). E se ciò è riconosciuto alle donne disabili, non si capisce bene per quale motivo dovrebbe essere negato alle altre donne.
Individuata la falla giuridica, rimane la paura. Tuttavia, ad analizzarla, questa paura appare irragionevole. Non dispongo di evidenze di donne che abbiano praticato l’aborto terapeutico e poi abbiano agito violenze nei confronti delle persone con disabilità (se qualcuno/a le ha, me le mostri, le leggerò con attenzione). Quindi quella donna esattamente cosa temeva? Pensava forse di tornare nell’utero materno? Di ritornare ad essere embrione o feto? Se nessuna di queste eventualità è ipotizzabile, su quali basi si disponeva a limitare un diritto di tutte le donne (e dunque anche suo)? Una paura irrazionale può costituire una base ammissibile per la limitazione di un diritto? Direi di no. Penso che probabilmente per far passare la paura basterebbe smettere di considerare l’aborto come atto contro qualcuno, e iniziare a vederlo come uno strumento che consente ad ogni singola donna (e ad ogni singola coppia) di fare scelte riguardo alla propria genitorialità. Esattamente come lo considera la Legge 194/1978 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza) ed anche chi vi fa ricorso.
E d’altra parte, se una paura irrazionale fosse una ragione accettabile per limitare i diritti di qualcuno/a, le ragazze e le donne con disabilità sarebbero le prime ad avere motivi concreti di esserne spaventate. Infatti ci sono molte persone che ancora pensano che una donna con disabilità non possa e non debba diventare madre. Hanno paura che non sia adatta a prendersi cura dei propri figli e figlie. Hanno talmente tanta paura che anche in Europa sono ancora praticate la contraccezione, la sterilizzazione e l’aborto forzati ai loro danni. Anche questa è una paura irrazionale, può essere utilizzata per limitare i diritti delle donne con disabilità? Quando accade, e purtroppo accade, è aberrante, infatti anche queste pratiche derivano da un retaggio patriarcale che non riconosce alle donne (tutte, e ancor meno a quelle con disabilità) la capacità, l’autorità e il diritto di disporre liberamene del proprio corpo e di decidere delle proprie vite.
Una delle questioni sollevate riguardo a questi temi è che le donne (e le coppie) che si dispongono a praticare l’aborto terapeutico agiscono sempre sulla base di un pregiudizio. Che alcune persone abbiano pregiudizi e stereotipi sulla disabilità, e che questi possano influenzare le scelte anche in materia riproduttiva è vero. A livello personale mi batto da sempre perché le donne e le coppie abbiano informazioni corrette riguardo alla salute del nascituro, e sulle condizioni di vita dell’eventuale bambino/a qualora la decisione fosse quella di portare a termine la gravidanza. Tuttavia so per certo che l’aborto terapeutico è praticato con una certa frequenza dalle persone con disabilità che hanno patologie geneticamente trasmissibili, e che si deve proprio ai ricorsi intrapresi da queste coppie ed alle pronunce della Corte Costituzionale se la Legge 40/2004, la norma che disciplina la procreazione medicalmente assistita, inizialmente molto restrittiva, è divenuta accessibile anche a loro proprio allo scopo di evitare di trasmettere le proprie patologie (Sentenza 11/11/2015 n° 229). Tutte queste persone hanno esperienza diretta della propria disabilità, sono, giustamente, le uniche legittimate a decidere riguardo alla propria genitorialità, e non vi sono motivi per ritenere che agiscano sulla base di pregiudizi. Oltre a questo, chi considera come unico movente dell’aborto terapeutico solo il pregiudizio abilista, esclude, non si sa bene per quale motivo, un’altra miriade di motivazioni che possono incidere sulla scelta. Se, ad esempio, la donna è troppo giovane non è detto che sia in grado di gestire situazioni che spesso sono molto complesse. Qualche volta avere un figlio con disabilità vuol dire dover rinunciare al lavoro retribuito e ritrovarsi a non sapere come mantenere né se stesse né l’eventuale figlio. Stando a un dato fornito da «EpiCentro» (uno strumento dell’Istituto Superiore di Sanità) ben il 60% delle caregiver familiari sono state costrette ad abbandonare il lavoro fuori casa per potersi dedicare a tempo pieno alla cura dei familiari. Mi sembra che queste motivazioni non possano essere considerate semplici pregiudizi.
Un altro problema è che, anche se non lo dicono apertamente, alcune associazioni, non tutte, ma soprattutto quelle delle persone con sindrome di Down, considerano l’aborto terapeutico e le indagini prenatali come strumenti di eugenetica che si pongono in contiguità con lo sterminio delle persone con disabilità operato dai nazisti. Recentemente si è espressa in questi termini l’ANFFAS (Associazione Nazionale Famiglie di Persone con Disabilità Intellettiva e/o Relazionale) commentando una Sentenza dell’Alta Corte inglese che ha respinto la richiesta avanzata dall’attivista per i diritti umani Heidi Crowter, una donna inglese con sindrome di Down, di modificare la legislazione in vigore in Inghilterra, Galles e Scozia (Abortion Act 1967) che permette alle donne di interrompere la gravidanza fino al momento della nascita, qualora venga individuato il rischio sostanziale di un feto «con anomalie fisiche o mentali tali da comportare disabilità grave », ivi inclusa la sindrome di Down. Non conosco la disciplina inglese, qui in Italia l’aborto terapeutico è praticato oltre il novantesimo giorno di gestazione (cioè nel secondo trimestre). La Legge 194/1978 non individua un limite di epoca gestazionale per la sua pratica, ma raccomanda che, nel caso in cui il feto abbia raggiunto uno stadio di sviluppo che ne permette la sopravvivenza al di fuori dell’utero, il medico metta in atto tutti gli interventi idonei a salvaguardarne la vita. Poiché tale condizione si verifica attorno alle 22-24 settimane, si tende ad evitare di procedere oltre tale limite, pur tenendo sempre presente la compatibilità della patologia fetale con la possibilità di vita autonoma. Tuttavia, a prescindere dalle differenze tra i due Paesi, la lettura del caso citato che viene proposta rimane comunque quella che intende l’aborto come un atto contro qualcuno/a. Va da sé che chi pensa questo, se avvicina le donne incinte, non le vuole informare, né pensa di rispettare le loro scelte, vuole solo “fermare lo sterminio”. Le donne sono dunque colpevoli di “sterminio”? In realtà, poiché la Convenzione ONU non riconosce una soggettività a embrioni e feti e, al contempo, conferisce alle donne (disabili e non) il diritto di scegliere in tema di maternità – un diritto esplicitamente tutelato all’articolo 25 della stessa –, le donne sono “colpevoli” solo di non voler più cedere a terzi il controllo del proprio corpo e di voler scegliere liberamente quali compiti e ruoli assumere e quali no.
Credo che ciò che rende bello l’amore sia che tutti e tutte lo possono scegliere. Una relazione amorosa e i rapporti sessuali, se scelti, ti fanno stare bene e ti colorano la vita. Se li scelgono altri o ti vengono imposti, ti deturpano l’esistenza. Accade la stessa cosa anche per le scelte di maternità. Per questo motivo è difficile capire come possa anche solo prendere in considerazione l’ipotesi di interferire con le scelte riproduttive delle donne chi dice di richiamarsi al rispetto dei diritti umani. Come faccia a non rendersi conto che in ballo ci sono quelli che Alda Merini chiamava i “pesi che non ho voluto e non ho chiesto”, che sotto quei “pesi” (gli impegni non scelti) ci sono le donne con le loro ali. Le donne che hanno bisogno di volare.
Simona Lancioni
Responsabile del centro Informare un’h di Peccioli (Pisa).
Vedi anche:
Simona Lancioni, La mistica della maternità e le associazioni di persone con disabilità, «Informare un’h», 15 ottobre 2021.
Simona Lancioni, Senza giudicare, è questo il modo più adeguato per parlare di aborto terapeutico, «Informare un’h», 7 ottobre 2021.
Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “Donne con disabilità: diritti sessuali e riproduttivi”.
Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “La violenza nei confronti delle donne con disabilità”.
Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “Donne con disabilità”.
Data di creazione: 22 Ottobre 2021
Ultimo aggiornamento il 26 Ottobre 2021 da Simona