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La istituzionalizzazione in Italia, storia, dati e prospettive

di Giampiero Griffo
Membro del Consiglio mondiale di DPI – Disabled Peoples’ International

Con piacere pubblichiamo questo ampio approfondimento curato da Giampiero Griffo, componente del Consiglio mondiale di DPI – Disabled Peoples’ International, sul tema della istituzionalizzazione, con particolare riferimento alle persone con disabilità. L’intento è anche quello di rilanciare il dibattito pubblico su questo importantissimo tema che negli ultimi tempi è rimasto un po’ in ombra.

Elaborazione grafica dedicata alla discriminazione delle persone con disabilità (©Dadu Shin).

Negli ultimi giorni è ritornato in evidenza il tema della istituzionalizzazione, con varie prese di posizione. Il tema è importante è necessita di una riflessione sia culturale che legale e politica.

La storia e l’eredità delle istituzionalizzazioni

Intanto perché si pensa che le persone con disabilità debbano essere rinchiuse in istituti? Ripercorrendo la storia delle pratiche di istituzionalizzazione si evidenzia che esse nascono da due importanti iniziative che originano da un lato da motivazioni caritative e religiose e dall’altro da considerazioni culturali e politiche.

Il primo approccio si basa su un approccio caritativo, mai superato. Prima le epidemie del tardo medioevo che avevano fatto nascere i cosiddetti lazzaretti, luoghi fuori le mura delle città dove venivano isolate le persone colpite da malattie infettive e trasmissibili, come la peste o la lebbra. La soluzione sanitaria era quella di separare le persone infette, i malati dal resto della popolazione, per bloccare la diffusione dell’epidemia. A questa azione di segregazione, si combinavano le condizioni di abbandono e estrema povertà delle persone che avevano limitazioni funzionali, costrette a vivere ai margini della società, speso sopravvivendo solo diventando mendicanti. Alcuni ordini religiosi decidono di accogliere queste persone in lughi protetti, dove vengono assistiti nelle esigenze di sopravvivenza quotidiana (cibo, un giaciglio, un luogo protetto ma separato dalla società).

A queste iniziative, con la rivoluzione industriale, in Inghilterra vengono istituite le workhouse, dove venivano rinchiuse e obbligate a lavori forzati tutta una serie di persone che erano fuggite dalle pratiche feudali, ma non avevano un ruolo definito nelle comunità. A esigenze di generico ordine pubblico nel ‘600 dopo la guerra dei 30 anni, che aveva insanguinato una gran parte dell’Europa, per risarcire un gran numero di feriti che avevano combattuto sotto le bandiere dei regnanti, nascono delle istituzioni create dagli stati. Tipico esempio è l’hotel des invalides a Parigi (1670), allo scopo di ospitare soldati invalidi, considerati non in grado di vivere n società.

I due approcci sono basati su una comune considerazione che certe persone – per varie ragioni – non possono vivere in società la quale deve relegare queste persone in luoghi lontani dal vivere comune a cui – in varie forme – creano disturbo. Ricordiamo che spesso le famiglie molto povere che si trovavano con una persona da assistere, quindi improduttiva, erano necessitate a rivolgersi a questi luoghi segregativi. Nello steso tempo si sviluppano forme di istituzionalizzazione legate a comportamenti considerati immorali (per esempi le ragazze madri e/o le streghe, gli eretici) o legate a pratiche di disturbo sociale (gli oppositori politici).

Dal ‘700 al ‘900 le prattiche di istituzionalizzazione si perfezionano e assumono caratteristiche “riabilitative”. Il termine, nato in un contesto carcerario (riabilitare il carcerato per essere riammesso in società) si trasferisce progressivamente ad altri contesti segregativi, come i manicomi e gli istituiti che ospitano persone con limitazioni funzionali.

In Italia sono presenti sia le istituzioni private – inizialmente riconosciute come IPAB (Istituti di Previdenza, Assistenza e Beneficenza) e poi trasformate come strutture accreditate da comuni, province, regioni e stato – e quelle pubbliche gestite direttamente da enti pubblici.

Questa breve storia produce una cultura che diviene senso comune diffondendo l’idea che queste persone debbano vivere in luoghi separati dalla società dove possono essere “curati e assistiti”. L’eredità nella cultura odierna di uno stigma negativo legato a queste persone è ancora fortissima e influenza i servizi territoriali, che per persone con disabilità complesse ricorrono spesso a queste istituzioni, in particolare per le persone con disabilità intellettive e relazionali (altri usano il termine disturbi del neurosviluppo, altri ancora neurodivergenti).  Eppure importanti passi avanti almeno nelle riflessioni e nelle pratiche sono stati fatti. Cerco di sintetizzarne le principali.

 

La comprensione di chi siano e come dovrebbero essere trattate le persone con disabilità

Negli ultimi anni varie persone con la sindrome di Down hanno conseguito la laurea in scienze dell’educazione. Ha cominciato Pablo Pineda in Spagna (2009), seguito poi in Italia da Giusi Spagnolo e Filippo Adamo. Molte persone si sono meravigliate: come è possibile? La domanda è invece un’altra: quante persone con quelle caratteristiche avrebbero potuto conseguire quel titolo, ma non hanno avuto i sostegni appropriati? Le ferrovie nord milanesi occupano persone con lo spettro autistico per controllare gli scambi di binari ferroviari che richiedono precisione ed alta attenzione. Alcune grandi industrie che fanno capo alla rete Business and disability occupano persone on disabilità intellettive e relazionali.

L’American Association of Intellectual and Developmental Disability [Associazione Americana sulle Disabilità Intellettive e dello Sviluppo, N.d.R.] sottolinea che le persone con una disabilità intellettiva e relazionale hanno un loro modo di funzionamento specifico che va compreso per progettare sostegni appropriati. Ciò significa che queste persone piuttosto che essere valutate come esseri umani a cui manca qualche cosa, vanno invece accettate come parte della diversità umana e dell’umanità stessa, come afferma l’articolo 3 della UNCRPD [Convenzione ONU sui diritti delle Persone con Disabilità, N.d.R.]. Un altro elemento che è stato evidenziato dalla ricerca medica americana è quello che è definito come medicina di precisione. Se si confrontano due persone con la stessa diagnosi, patologia e gravità si scopre che esse funzionano in maniera differente. Cioè le persone con la stessa diagnosi sono spesso molto diverse tra loro. Infatti una cosa è assegnare una diagnosi con l’ICD [International Classification of Diseases, N.d.R.] dell’OMS [Organizzazione Mondiale della Sanità, N.d.R.], altra cosa è analizzarne le caratteristiche della persona. Infatti queste ultime sono influenzate da vari fattori che possono offrire alle persone competenze, capacità e potenzialità specifiche. Cioè la diagnosi va accompagnata con la comprensione del modo di funzionamento del singolo individuo. Non vi è perciò un determinismo diagnostico automatico oppure una conseguenza deterministica dell’eredità genetica. L’epigenetica ha fatto emergere infatti quanto le esperienze di vita e di apprendimento possano influenzare il funzionamento di una persona che ha un’eredità genetica che lo avrebbe destinato ad una determinata propensione di rischio malattia. La stessa medicina narrativa, che esplora quanto determinate relazioni umane possano creare condizioni negative allo sviluppo personale e/o sociale, influenzabili dai contesti familiari, dai comportamenti delle comunità di vita, etc., evidenzia l’importanza dell’osservazione per conoscere le persone ed i loro comportamenti personali e sociali.

Detto in altre parole lo stigma negativo che avvolge le persone con disabilità, in particolare le persone con disabilità intellettiva e relazionale e con disabilità complesse, andrebbe affrontato non solo con interventi riabilitativi, spesso inefficaci e che sovente sfociano in accanimento terapeutico, bensì con interventi abilitativi. (vedi l’art. 26 della UNCRPD).  Accanirsi a cercare di recuperare capacità abiliste (cioè basate su un modello di funzionamento “normale”) è spesso controproducente, sia perché sottopone la persona ad un trattamento contro la sua natura, sia perché spesso non produce risultati significativi. Sarebbe molto più efficace comprendere il modo di funzionamento di una persona e accompagnarlo ad abilitarlo a svolgere le attività che le interessino attraverso adeguate formazioni, uso di assistive devices, miglioramento delle relazioni umane e adeguamento degli ambienti di vita. La salute degli esseri umani – sottolinea l’OMS – non è la mancanza di limitazioni funzionali, ma il benessere di vita.

La nuova definizione delle persone con disabilità introdotta dall’art. 1 comma 2 della UNCRPD cambia il modo di conoscere la condizione di queste persone. Infatti le persone con disabilità sono «coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri», è evidente che i tradizionali sistemi di valutazione della limitazione funzionale della persona (il sistema di assegnazione di una percentuale di invalidità parametrata sulla gravità della diagnosi) risultano sbagliati e forvianti. Quali invece sono le barriere, gli ostacoli e le discriminazioni che la persona vive nell’interazione con l’ambiente di vita e comunitario? Come queste limitazioni sociali ed ambientali impediscono il godimento dei diritti nell’àmbito sanitario, educativo, sociale, sportivo etc.? E se tutte le persone con disabilità devono godere dei diritti umani come tutti, che senso ha la istituzionalizzazione? Perché limitare la loro partecipazione alla società in eguaglianza di opportunità?

 

La UNCRPD per il sostegno alla vita indipendente e la deistituzionalizzazione

La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (2006), ratificata da 192 Paesi (99,4% di paesi membri dell’ONU) è molto chiara negli articoli 19 (Vita indipendente ed inclusione nella società) e 20 (Mobilità personale). Gli Stati che hanno ratificato la UNCRPD «riconoscono il diritto di tutte le persone con disabilità a vivere nella società, con la stessa libertà di scelta delle altre persone, e adottano misure efficaci ed adeguate al fine di facilitare il pieno godimento di tale diritto da parte delle persone con disabilità e la loro piena integrazione e partecipazione nella società». Queto impegna gli stati a garantire che «le persone con disabilità abbiano la possibilità di scegliere, su base di uguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione (…) abbiano accesso ad una serie di servizi a domicilio o residenziali e ad altri servizi sociali di sostegno, compresa l’assistenza personale necessaria per consentire loro di vivere nella società e di inserirvisi e impedire che siano isolate o vittime di segregazione», e che «i servizi e le strutture sociali destinate a tutta la popolazione siano messe a disposizione, su base di uguaglianza con gli altri, delle persone con disabilità e siano adattate ai loro bisogni».

Gli Stati «adottano misure efficaci a garantire alle persone con disabilità la mobilità personale con la maggiore autonomia possibile, provvedendo in particolare a:

a)  facilitare la mobilità personale delle persone con disabilità nei modi e nei tempi da loro scelti e a costi accessibili;
b)  agevolare l’accesso da parte delle persone con disabilità ad ausilii per la mobilità, apparati ed accessori, tecnologie di supporto, a forme di assistenza da parte di persone o animali e servizi di mediazione di qualità, in particolare rendendoli disponibili a costi accessibili;
c)  fornire alle persone con disabilità e al personale specializzato che lavora con esse una formazione sulle tecniche di mobilità;
d)  incoraggiare i produttori di ausilii alla mobilità, apparati e accessori e tecnologie di supporto a prendere in considerazione tutti gli aspetti della mobilità delle persone con disabilità».

Coniugando questi 2 articoli con l’art. 5 sulla parificazione di opportunità e la non discriminazione significa superare la pratica delle istituzionalizzazioni.

Da segnalare le Guidelines on deinstitutionalization, including in emergencies del 9 settembre 2022, CRPD/C/27/3 [Linee guida sulla deistituzionalizzazione, anche in caso di emergenza, N.d.R.] del Comitato sui diritti delle persone con disabilità delle Nazioni Unite che danno importanti indicazioni da seguire.

 

L’impegno dell’Unione Europea per la vita indipendente e la deistituzionalizzazione

L’Unione Europea ha approvato il documento Un’Unione dell’eguaglianza. Strategia europea per i diritti delle persone con disabilità (2021-2030). All’interno del documento una specifica attenzione è posta al tema 4 – Qualità della vita dignitosa e vita indipendente. «La Commissione emanerà orientamenti per raccomandare agli Stati membri migliorie per quanto riguarda la vita indipendente e l’inclusione nella comunità, per consentire alle persone con disabilità di vivere in alloggi accessibili e assistiti, all’interno della comunità, o di continuare a vivere nella propria casa (compresi piani per l’assistenza personale).

Nel novembre del 2024 l’Unione ha licenziato il documento Guidance on independent living and inclusion in the community of persons with disabilities in the context of EU funding[1] .

A partire dall’attuale quadro europeo volontario per la qualità dei servizi sociali, entro il 2024 la Commissione presenterà un quadro europeo di qualità per servizi sociali di eccellenza per le persone con disabilità.

La Commissione europea invita gli Stati membri a:

  • attuare buone pratiche di deistituzionalizzazione nell’’ambito della salute mentale e in relazione a tutte le persone con disabilità, compresi i minori, al fine di rafforzare la transizione dall’assistenza prestate negli istituti a servizi di sostegno erogati all’interno della comunità;
  • promuovere e garantire finanziamenti per alloggi sociali accessibili e inclusivi sul piano della disabilità, anche per gli anziani con disabilità, e ad affrontare le sfide delle persone con disabilità senza fissa dimora.

Anche il Green paper on mental health[2] della Commissione Europea sottolinea la necessità di ridurre le istituzionalizzazioni fra questa popolazione.

Inoltre da vari anni i fondi strutturali europei proibiscono di finanziare gli istituti per le persone con disabilità. Nell’ultimo settennale degli stessi fondi strutturali (2021-27) i progetti finanziabili devono rispettare i contenuti della UNCRP, ratificata da tutti gli Stati membri e dalla stessa Unione Europea, pena la revoca dei fondi.

 

La crescita dell’Istituzionalizzazione in àmbito sociale nei Paesi europei e la crisi pandemica

Una recente ricerca europea[3] si è occupata della istituzionalizzazione per minori, adulti ed anziani nei 27 Paesi membri [dell’Unione Europea, N.d.R.]. La ricerca ha fatto emergere che negli ultimi anni si è accresciuto il ricorso agli istituti di degenza e lungo degenza in tutte le aree del sociale (orfanatrofi, homeless, migranti, etc.). I dati, a volte solo parziali mancando le informazioni di alcuni Paesi, sono impressionanti. (si veda la Tabella 1).

 

Tabella 1 – Istituzionalizzazione nei 27 paesi membri dell’Unione europea

Anno Minori 0-17 anni Adulti 18-64 anni Anziani oltre 64 anni Totale istituzionalizzati
Vari anni 481.631 920.343 2.609.192 4.011.166
Francia      191.514 + 37%

Germania 121.273 + 21%

Svezia         26.500 + 27%

Italia           23.127 + 56%

Francia       290.280 + 101%

Germania   229.687 – 5%

Paesi bassi 117,460 + 26%

Italia          70.000 + 36%

Germania 721.569 + 10%

Francia      535.829 + 12%

Spagna      208.062 + 50%

Italia          267.000 – 4%

Posti Letto in ospedale per pazienti psichiatrici Germania 108.898 + 10%

Francia        53,633 – 6%

Polonia       22.905 – 6%

Italia              4.720 – 22%

327.180

Fonte: dati della ricerca Paths towards independent living and social inclusion in Europe, rielaborati dall’Autore.

La crescita si evidenzia sia nell’area dei minori, sia in quella degli adulti, sia in quella degli anziani. Sono infatti 4.011.166 le persone istituzionalizzate (gli anni purtroppo variano non essendo i dati disponibili con sequenze cronologiche omogenee). I Paesi che ricorrono in maggior misura sono la Francia e la Germania, superando largamente il milione di internati ciascuna. Per i primi 3 Paesi sono state evidenziate le crescite percentuale negli ultimi anni

Le recenti valutazioni rispetto alle persone con disabilità nell’Unione Europea parlano di 1.400.000 ricoverati[4] (il termine per descrivere come queste persone sino inserite in istituti varia a seconda delle motivazioni che causano la degenza e/o la lunga degenza).

Per l’Italia il dato più attendibile è quello della Relazione al Parlamento del 2022 del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale: in Italia nel 2019 sono 284.781 le persone con disabilità istituzionalizzate in 12.458 strutture (dati del 2018) (81,6% anziani non autosufficienti), 78.926 (27,7%) in strutture con oltre 100 posti letto. Delle 284.781 persone con disabilità in istituto: 3.131 erano minori con disabilità e disturbi mentali dell’età evolutiva; 49.025 adulti con disabilità e patologia psichiatrica; 232.625 anziani non autosufficienti (nell’81,6% dei casi si trattava di anziani non autosufficienti con livello di assistenza sanitaria medio-alto).

Nel 98,3% dei casi erano ospiti di strutture che non riproducevano le condizioni di vita familiari e avrebbero dunque potuto risultare come potenzialmente segreganti. Allo stesso modo, il 93,2% dei 32.648 posti letto rivolti alle persone con disabilità risultavano collocati in strutture che non riproducevano l’ambiente della casa familiare.

Sono dati precedenti alla pandemia SAR-COV-2. Una ricerca fatta dall’Istituto Superiore di Sanità del 5 maggio 2020, cioè dei primi 3 mesi dell’epidemia da coronavirus, hanno verificato che il 41,2% delle persone residenti sono morte nelle RSA [residenze sanitarie assistite, N.d.R.] (si parla di 3.772 deceduti per Covid-19 e sintomi analoghi, su un campione di istituti che ha risposto al questionario di 1356 strutture, il 41% del totale). Purtroppo i dati italiani si limitano agli anziani, non sappiamo cosa è successo nelle residenze dove erano ricoverate persone con disabilità.

È da segnalare che l’OMS Europa ha dichiarato che la metà dei morti da coronavirus è avvenuta nelle residenze ([dichiarazioni di] Dr. Hans Henri P. Kluge, Direttore Regionale per l’Europa dell’OMS).

La commissaria europea all’eguaglianza, Helena Dalli, durante il periodo del contagio da coronavirus, ha dichiarato che le persone con disabilità e le loro famiglia hanno subito un carico sproporzionato di problemi rispetto agli altri cittadini.

 

La risposta alle criticità emerse dalla pandemia: la Legge Delega in materia di disabilità 227/2021

Il Governo Conte 2, per affrontare gli elementi critici evidenziati dalla pandemia nominò una commissione economico-sociale coordinata da Vittorio Colao, con il compito di proporre come intervenire nella fase successiva all’emergenza pandemica.

Nel rapporto conclusivo del giugno 2020 veniva proposto di intervenire tra l’altro con:

  • Strumenti per potenziare il welfare inclusivo e territoriale di prossimità, per un sostegno più efficace a tutti coloro che si trovano ad affrontare difficoltà straordinarie e salvaguardare/promuovere la coesione sociale.
  • Misure per il sostegno e l’inclusione delle persone fragili e rese vulnerabili. Per le persone con necessità di supporto bisogna adottare nuovi obiettivi del welfare basati sulla domiciliarità, che consente loro di mantenere i legami territoriali – e quindi protegge maggiormente le comunità – e che potrebbe sopperire alle lacune mostrate dal modello centrato sulle residenze.

Il dibattito nazionale ha fatto emergere l’inadeguatezza, e non solo in Italia, di un welfare basato sulla protezione, che però non ha protetto le persone con disabilità. La ministra senatrice Erika Stefani, allora ministra per le disabilità, anche sulla base dell’impegno contenuto nel PNRR [Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, N.d.R.] di elaborare una nuova legge sulla disabilità, nel giugno del 2021 ha nominato un gruppo di lavoro che alla fine ha licenziato la Legge del 22 dicembre 2021 n. 227, Legge Delega al Governo in materia di disabilità.

Nell’articolo 2 comma 2 della Legge Delega è citato il tema della deistituzionalizzazione. Quando parla di «prevedere che, nell’ambito del progetto di vita individuale, personalizzato e partecipato diretto ad assicurare l’inclusione e la partecipazione sociale, compreso l’esercizio dei diritti all’affettività e alla socialità, possano essere individuati sostegni e servizi per l’abitare in autonomia e modelli di assistenza personale autogestita che supportino la vita indipendente delle persone con disabilità in età adulta, favorendone la deistituzionalizzazione e prevenendone l’istituzionalizzazione, come previsto dall’articolo 8 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, e dall’articolo 19 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, anche mediante l’attuazione coordinata dei progetti delle missioni 5 e 6 del PNRR e attraverso le misure previste dalla legge 22 giugno 2016, n. 112».

Risulta evidente dalla Legge che i progetti di vita individuali, personalizzati e partecipati sono indirizzati proprio a prevenire l’istituzionalizzazione e favorire la deistituzionalizzazione. Purtroppo nei Decreti delegati di applicazione della Legge 227/21 questi termini spariscono, come se non fossero gli obiettivi di chi ha definito il testo dei decreti delegati.  Tuttavia in merito a come interpretare gli obiettivi di questi progetti di vita individuali è il testo della Legge che guida la loro elaborazione, prevenendo la istituzionalizzazione e promuovendo la deistituzionalizzazione.

 

Come fare tesoro delle criticità emerse durante la pandemia negli istituti e residenze

La pandemia da SAR-COV-2 ha infatti evidenziato tutti i limiti di un sistema italiano ancora orientato in modo prevalente alla “protezione” della persona con disabilità e non pienamente strutturato per riconoscerne e valorizzarne il potenziale nei suoi contesti di vita ed in seno alla comunità di appartenenza. I sistemi di welfare rivolti alla protezione (la cosiddetta sicurezza sociale) si sono rivelati inadeguati sia sotto il profilo sociale che sanitario, non riuscendo difatti a proteggere le persone con disabilità. Drammaticamente alto è stato il numero dei morti registrato nelle residenze. Scarsa, invece, la capacità negli interventi di emergenza, al pari di quella volta a offrire alternative alla chiusura di importanti servizi. Da più parti si è dunque posta l’esigenza di riorientare il welfare verso azioni di effettiva inclusione e partecipazione, ancorandolo ad una maggiore prossimità territoriale e favorendo la piena cittadinanza delle persone con disabilità, obiettivo condiviso dalle Federazioni FISH [Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie, N.d.R.] e FAND [Federazione tra le Associazioni Nazionali delle Persone con Disabilità, N.d.R.].

Tra gli altri un tema importante è proprio quello di intervenire per riformare l’area degli istituti e residenze. L’UNCRPD è molto chiaro, anche nei Commenti Generali interpretativi della Convenzione. La istituzionalizzazione va superata, garantendo a tutte le persone con disabilità, qualsiasi natura presenti, l’obiettivo di vivere nella propria comunità di nascita e di vita, non segregandole in luoghi separati dalla società. Ciò non toglie che in alcuni casi l’esistenza di istituti e residenze sia necessaria, per situazioni che non possono trovare altre soluzioni. Il tema però è molto diverso da quello che accade oggi, dove la mancanza di competenze di valutazione appropriata, di soluzioni inclusive adeguate, di utilizzo di pratiche sanitarie, educative, lavorative e sociali possono prevenire le istituzionalizzazioni. In particolare va combattuta con vigore l’idea che per le persone con disabilità complesse (disabilità intellettive e relazionali, disabilità psico-sociali, forti dipendenze assistenziali) il ricorso agli istituti sia la soluzione necessaria. La UNCRPD sottolinea che la disabilità è un concetto in evoluzione e le prospettive di appropriati sostegni alla partecipazione e alla cittadinanza siano anch’esse in evoluzione.

Per quello che riguarda la riforma degli istituti e le residenze, dove vivono decine di migliaia di persone con disabilità (gli anziani non autosufficienti sono persone con disabilità) vi sono alcune proposte che vanno realizzate per tutelare i loro diritti umani.

Gli elementi che sono considerati necessari per intervenire sul tema riguardano alcune aree del funzionamento di queste strutture, che avevano preoccupato le Nazioni Unite nelle Osservazioni conclusive al primo rapporto italiano di applicazione della CRPD (2016, commento 42 che sollecitava che il «Meccanismo Nazionale di Prevenzione – il Garante per le persone private della libertà – visiti immediatamente gli istituti psichiatrici o altre strutture residenziali per persone con disabilità, specialmente quelle con disabilità intellettive o psicosociali, e riferisca sulla loro condizione)». Nel dibattito pubblico che ne è seguito sono state individuate delle criticità, richiamiamo le principali:
a) Il numero di posti letto negli istituti. La denuncia della mancanza di una dimensione familiare o para-familiare nelle residenze deriva spesso dal numero di persone ricoverate dove viene cancellata la possibilità di garantire una personalizzazione degli interventi ed una relazione umana migliore. Il Garante delle persone private della libertà l’ha più volte denunciata. Andrebbero definiti degli standard di tutti gli istituti e residenze, partendo dalla Legge 112/2016.
b) La limitazione alle libertà individuali dei ricoverati. Infatti il regime degli istituti prevedono la possibilità di uscire e rientrare nella struttura solo dietro autorizzazione della direzione. La libertà di movimento all’esterno dell’istituto va garantita. Altro elemento è la libertà di definire l’organizzazione della giornata secondo le proprie esigenze ed interessi, spesso impedita da regolamenti interni rigidi. Infine la stessa personalizzazione delle stanze e del loro arredo viene considerata inessenziale, producendo una modesta percezione del luogo di residenza come luogo della propria identità.
c) Va garantito che le persone ricoverate possano uscire dalla struttura quando lo ritengano necessario, anche attraverso progetti personalizzati e partecipati che costruiscano soluzioni alternative all’istituto. Questa possibilità deve essere definita al momento del ricovero e garantita quando la persona ricoverata ne esprima la volontà.
d) L’organizzazione della relazione ricca con il mondo esterno alla residenza. La gran parte degli istituti organizza in maniera spesso autoreferenziale le attività che coinvolgono le persone ricoverate. Questo comporta attività di vario tipo però organizzate all’interno della struttura. La relazione con il mondo reale risulta così impoverita, riducendo le esperienze relazionali con il mondo non istituzionalizzato, sia con persone esterne alla struttura e sia con attività di vita ordinaria.
e) Le cartelle personali dei ricoverati annotano solo le attività sanitarie. Anche questa memoria di cosa avvenga all’interno degli istituti è molto limitata. Nelle visite agli istituti che ospitavano persone con disabilità il Garante per le persone private della libertà faceva emergere l’impossibilità di rilevare la soddisfazione delle persone che vivevano in una struttura istituzionalizzante. Sarebbe utile intervenire per arricchire queste cartelle con altre informazioni dove possano intervenire anche i ricoverati.
f) Le visite di controllo sulla struttura sono spesso formali e relative solo alla verifica del rispetto dei criteri di accreditamento (spazi e personale). I contenuti delle visite di controllo degli enti pubblici competenti dovrebbero prevedere da un lato il coinvolgimento delle organizzazioni di persone con disabilità, costituendo un albo comunale di persone accreditate; dall’altro lato dovrebbe essere verificata anche la qualità di vita delle persone ricoverate nell’istituto attraverso vari strumenti tecnici (interviste periodiche, questionari, arricchimento delle cartelle personali);
g) Ampliare le modalità ed i tempi di visita di parenti ed amici dei ricoverati;
h) Per prevenire l’inserimento in servizi residenziali e favorire la deistituzionalizzazione, i progetti di abitare, diversi e alternativi a quelli dell’inserimento della persona con disabilità nei servizi, devono poter contare sulle stesse risorse economiche, tanto di origine sanitaria che sociale, disponibili per il pagamento dei servizi residenziali.

 

Il rapporto tra il Garante nazionale dei diritti delle persone con disabilità e il Garante per le persone private della libertà

L’istituzione dell’Autorità Garante nazionale dei diritti delle persone con disabilità è un’importante novità, perché introduce una nuova figura a chi far riferimento per la tutela dei diritti umani, senza oneri per il denunziante. Infatti i poteri del Garante si uniforma quasi completamente ai Principi di Parigi delle Nazioni Unite, che descrivono come devono operare le istituzioni nazionali sui diritti umani. Il Garante quindi ha i poteri indicati nel Decreto Legislativo 5 febbraio 2024, n. 20, che in questa sede non esamineremo. Il Garante può collaborare con altre istituzioni analoghe, come il Garante per le persone private della libertà.

Il Garante per le persone private della libertà è previsto dalla Convenzione contro la tortura, i trattamenti crudeli, inumani e degradanti (CAT). Il suo compito è quello di essere il meccanismo nazionale di prevenzione che interviene proprio per vigilare sui luoghi dove possono essere limitate le libertà individuali e perpetrati abusi sulle persone e violazione dei loro diritti umani. In Italia, grazie al Garante Mauro Palma, sono state visitate anche strutture sociali, sanitarie e socio-sanitarie che ospitavano persone con disabilità.

Il 4 luglio scorso la Sottocommissione ONU della citata CAT ha emanato il 1° Commento Generale sull’articolo 4 del Protocollo Opzionale (Posti di privazione della libertà), ratificato dall’Italia il 3 aprile 2013. Il Protocollo Opzionale definisce come «privazione della libertà» «ogni forma di detenzione o reclusione o il collocamento di una persona in un luogo pubblico o privato, ambiente detentivo dal quale la persona non è autorizzata a uscire a piacimento per ordine di un organo giudiziario, autorità amministrativa o altra». Questa definizione riconosce specificamente che tale privazione della libertà può verificarsi «sia in contesti pubblici che privati».

Partendo dunque da questi elementi, il documento ha definito i luoghi dove il meccanismo nazionale di monitoraggio, deve visitare per verificare il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Tali luoghi – cui la sottocommissione ha dato un’interpretazione la più estensiva possibile – sono «prigioni, ospedali, scuole e istituzioni impegnate nella cura di bambini, persone anziane o persone con disabilità, includendo persone con disabilità intellettive o psicosociali, servizi militari e altre istituzioni e contesti». «La Sottocommissione – si legge ancora – rileva che si presume che molte persone con disabilità siano incapaci di vivere in modo indipendente, o che il sostegno per vivere in modo indipendente non sia disponibile o sia vincolato a specifiche modalità di vita. Sebbene possa non esistere alcun ordinamento giuridico o amministrativo che confini tali persone in una determinata struttura, la mancanza di sostegno le costringe a rimanervi in situazioni di vita che le privano della libertà e possono sottoporle a pratiche dannose. Questa forma di privazione della libertà specifica per disabilità può verificarsi nelle case familiari e in accordi istituzionali, compresi istituti di assistenza sociale, istituti psichiatrici, ospedali a lunga degenza, case di cura, reparti sicuri per la demenza, collegi speciali, istituti di assistenza sociale per bambini, case famiglia, centri di riabilitazione, strutture psichiatriche forensi, ostelli per albini, lebbrosari, comunità religiose, case famiglia per bambini e campi di preghiera».

Anche il Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, in relazione agli articoli 14 e 15 della Convenzione ha riscontrato che «la pratica di collocare le persone con disabilità in strutture residenziali con decisioni senza consenso specifico o con il consenso di un sostituto del decisore porta alla privazione arbitraria della libertà». Pertanto «è importante che i meccanismi di prevenzione nazionali e la Sottocommissione ne accertino la presenza di soluzioni ragionevoli di sistemazione e sostegno per le persone con disabilità. Se non sono disponibili soluzioni e supporto ragionevoli, il luogo, la struttura o l’ambiente dovrebbero essere considerati come luogo di privazione della libertà». E lo stesso vale per quei luoghi dove la persona non è libera di uscirne quando vuole. La Sottocommissione «si esprime in maniera autoritativa sull’effettiva attuazione del Protocollo Opzionale, per chiarire gli obblighi degli Stati Parte e i mandati della Sottocommissione e i meccanismi di prevenzione nazionale di cui all’articolo 4 del Protocollo Facoltativo».
Risulta dunque del tutto chiaro, da questa indicazione, che il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, presieduto da Riccardo Turrini Vita, dovrà riprendere il monitoraggio dei luoghi sanitari e sociali che ospitano persone con disabilità, anziani e minori, inserendoli nella propria Relazione annuale al Parlamento.

La collaborazione tra i due Garanti è sicuramente auspicabile e opportuna, ma i loro poteri sono autonomi ed ognuna di queste autorità è libera di visitare le strutture che possono compiere abusi, violenze e violazioni di diritti umani.

 

[1] “Guida sulla vita indipendente e l’inclusione nella società delle persone con disabilità nel contesto dei fondi europei”. [La versione originale in lingua inglese è disponibile a questo link, quella in lingua italiana, prodotta in modo automatico e dunque non verificata, a quest’altro link, N.d.R.].

[2] Commission Green Paper of 14 October 2005 – “Improving the mental health of the population – Towards a strategy on mental health for the European Union[COM(2005) 484].

[3] Paths towards independent living and social inclusion in Europe, Eurofound, 2024.

[4] Si vedano le ricerche svolte nell’àmbito della EU Community living coalition e di ENIL (European Network on Independent Living) a questo link.

 

Ultimo aggiornamento il 14 Febbraio 2025 da Simona