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Istituzionalizzazione: basta residui manicomiali fuori dal tempo, questo è il tempo dei diritti

di Katia Salice, con una dichiarazione di Sonia Salice

Ben volentieri diamo spazio alle riflessioni di Katia Salice, sorella di Sonia (una donna di 52 anni con una disabilità intellettiva), scaturite dalle gravi dichiarazioni espresse, nei giorni scorsi, da Giovanni Marino, presidente dell’ANGSA Nazionale, in tema di istituzionalizzazione e, in generale, sulle persone con disabilità. Katia ripercorre il complesso percorso di autonomia e autodeterminazione che Sonia ha affrontato per riappropriarsi della propria vita. «Ma si può aspettare 40 anni per cominciare a vivere?», si chiede. Poi cede la parola a Sonia: «non ci voglio andare in quei posti perché è brutto – capisci Katia? – poi non puoi uscire, devi sempre stare lì, non puoi vedere le persone e andare a prendere il caffè».

Una bellissima immagine di Sonia Salice, felice sulla sua bicicletta.

Scrivo dopo aver seguito con molta partecipazione e, non lo nascondo, un certo nervosismo, le vicende legate alle affermazioni del Sig. Marino in merito alle istituzioni segreganti che lui, con un colpo di cipria, chiama residenze [si riferisce al testo di Giovanni MarinoLe residenze non sono istituti, ma modelli abitativi progettati a misura dei bisogni assistenziali delle persone, pubblicato sulla testata «Superando» il 9 luglio 2025. Marino è il presidente dell’ANGSA Nazionale – Associazione Nazionale Genitori di perSone con Autismo, N.d.R.].

Mi chiamo Katia e sono la sorella di Sonia, una persona di 52 anni con una disabilità intellettiva.

Sonia non sa leggere, scrivere, contare, aprire le scatolette di tonno, tagliarsi le unghie, allacciarsi le scarpe etc. etc. Non ha il senso del denaro e neppure del tempo. La prima diagnosi fu autismo, accettava il contatto fisico solo con la mamma, fino a 7/8 anni fa aveva brutti episodi di autolesionismo.

Alla fine della 5 elementare le è stato detto «non ce la fai, per te la scuola finisce qui».

Non servirebbe spiegarlo ma, evidentemente, questo ha significato non solo l’impossibilità di imparare, ma anche di socializzare, di vivere con altre persone. Ha significato vivere in casa con i genitori, le sorelle (finché non hanno fatto, chi più chi meno, la loro strada) e un contesto di riferimento così limitato che, a distanza di anni, mi chiedo come abbia potuto sopportarlo.

Quando nel 2007, nostra mamma si è ammalata, ho cominciato ad occuparmi di lei a tempo pieno. E ho fatto qualcosa che prima, probabilmente, non avevamo mai fatto: l’ho ascoltata. Che non vuol dire che sentivo quello che diceva, no. Vuol dire che mi sono messa in ascolto di tutto ciò che lei mi trasmetteva. Con lo sguardo, con le parole, con gli atteggiamenti.

E mi sono detta che avrei dovuto farlo prima. I sensi di colpa mi risuonavano in testa continuamente. Ma li ho cacciati via (almeno in parte) perché eravamo in missione per conto della vita.

Abbiamo cominciato da cose apparentemente piccole e invece enormi. A qualunque domanda, la sua risposta era sempre più o meno la stessa: «eh, non so, dimmi tu» oppure «decidi tu, per me è uguale». Che si trattasse di scegliere cosa mangiare a pranzo, dove andare in vacanza o qualsiasi altra cosa.

Ci sono voluti anni. È stato facile? No, per niente. È stato un gran casino, è stato faticoso, a volte veniva voglia di gettare la spugna. A me e, credo, anche a lei. Poi però si sono visti i primi timidi risultati: «No, io li voglio corti perché sono più comoda, se tu vuoi i capelli lunghi tienili lunghi».

Se la memoria non mi inganna, è stato in coincidenza con le prime vere e grandi opportunità che ha avuto modo di scegliere e sperimentare.

Una per tutte, un collegiale di nuoto (sport che ama tantissimo) di una settimana, da sola. Una settimana tutta sua.

Non era mai stata via da sola in tutta la sua vita ma, quando gliel’ho proposto, ha sgranato gli occhi e poi ha chiesto: «ma voi non venite?». «No – le ho detto – noi ti accompagniamo ad Asti e veniamo a prenderti il sabato dopo». «Allora voglio andare!». E chi se la dimentica quella risposta, la felicità nei suoi occhi?

Io ho pianto un giorno intero pensando di averla abbandonata (e questo la dice lunga) finché la sera non ha chiamato sprizzando gioia da ogni parola che pronunciava. Era felice. Ce l’avevamo fatta, dopo 40 anni. Grazie a E. e S. due ragazze straordinarie.

Quello è stato l’inizio.

Nel frattempo anche nostro papà si è ammalato e Sonia ha cominciato a vivere nell’appartamento accanto al nostro.

È impossibile raccontare il percorso, basti l’esito: la sua casa è bellissima e lei ne è molto orgogliosa. Per evitare di litigare ogni volta, visto che siamo molto diverse, da circa tre anni una ragazza la aiuta con le pulizie di casa una volta a settimana.

Mentre all’inizio pranzava e cenava con noi, ad un certo punto ci ha comunicato che preferiva prepararsi il pranzo da sola.

E ci siamo messe all’opera, esattamente come anni prima avevamo fatto per imparare ad uscire da sola. Prima ti faccio vedere, poi lo facciamo insieme, poi mi fai vedere tu. Insomma, funziona. Con tutti gli accorgimenti, gli escamotage e le modifiche necessarie, ovvio.

Ancora due cose delle mille che mi passano per la testa: la bicicletta. Anche qui…quando glielo abbiamo proposto non riusciva a crederci. Ci aveva passato l’infanzia, adorava andare in bici. Ci siamo allenati tra ciclabili, attraversamenti, centro città per parecchi mesi. Poi è andata.

Un giorno è uscita in bici per andare a basket, zaino in spalla, canticchiando (canta dalla felicità quando va in bici anche dopo tanti anni). Passavo per caso dalla finestra e l’ho vista, mi sono fermata ad osservarla e ho capito cosa vuol dire essere felici e accorgersene: l’ho vista libera.

Libera, sig. Marino. Torno a lei. Libera come dovrebbe essere chiunque, indipendentemente da quanti sostegni abbia bisogno. Libera come lei e come me!

Sul verbale di invalidità c’era il verdetto: inabile al lavoro.

E invece da due anni lavora in una panetteria del centro.

Nessuno se lo aspettava, la richiesta è arrivata da P. col quale aveva fatto amicizia come cliente assidua.

Lei ne ha avuto la forza. Ma si può aspettare 40 anni per cominciare a vivere?

La risposta è no. Ed è senza appello.

Basta che vi mettiate per un momento al suo posto, se foste voi?

Sonia ha conosciuto persone che vivevano (immagino vivano ancora) in comunità e, quando capita che se ne parli, mi guarda con uno strano sorriso e la paura negli occhi e mi dice «io non ci voglio andare mai».

Per concludere, non c’è una riga di quello che ha scritto, sig. Marino, che sia anche lontanamente condivisibile. Di più, non c’è l’ombra del rispetto nelle sue parole. Pensare che una persona che insulta, offende, umilia le persone con disabilità, poi pretenda di rappresentarle è agghiacciante.

Non è più rimandabile lo scatto culturale per far sì che mai più nessuno si permetta di parlare della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità come di una stupidaggine o del progetto personalizzato come un “foglietto” per portarsi a casa 5000 euro. Non è più immaginabile che persone come lei, in clamoroso conflitto di interessi, possano rappresentare chicchessia.

Sogno da vent’anni il momento del cambiamento. Credo sia questo. Insieme possiamo farcela e possiamo restituire ad ognuno i diritti che gli spettano in quanto essere umano.

Basta muri, basta camouflage, basta cipria per nascondere le magagne, basta residui manicomiali fuori dal tempo, basta scarti.

E visto che lei, Sig. Marino, cita il Vangelo (a sproposito), le cito l’Ecclesiaste: «Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo».

Ecco, questo è il tempo dei diritti, se ne faccia una ragione.

 

Post scriptum: questo racconto è stato condiviso con Sonia che mi autorizza a inviarlo e che mi chiede di dire al Sig. Marino «anche se non lo conosco, io gli dico che non ci voglio andare in quei posti perché è brutto – capisci Katia? – poi non puoi uscire, devi sempre stare lì, non puoi vedere le persone e andare a prendere il caffè». È Sonia che parla, è la libertà conquistata.

 

Nota: il Centro Informare un’h è impegnato nel rivendicare la promozione della deistituzionalizzazione e lo stop all’istituzionalizzazione. Un tema su cui si è avviato un confronto pubblico. In calce a questa pagina (in aggiornamento) sono segnalati i contributi che di volta in volta si stanno susseguendo: Riforma della disabilità: eliminiamo la possibilità di istituzionalizzare le persone.

 

 

Ultimo aggiornamento il 14 Luglio 2025 da Simona