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Il sorriso della determinazione di Robin Cavendish, “pioniere del respiro”

di Stefania Delendati

«La storia che qui raccontiamo – scrive Stefania Delendati – è l’antitesi di ogni preconcetto, anzi, ha dato un contributo determinante contro la narrazione stereotipata della disabilità, oltre a migliorare la qualità di vita delle persone con disabilità. È la storia di Robin Cavendish, il “pioniere del respiro”, e della moglie Diana Blacker. Grazie a loro oggi migliaia di persone con disabilità e insufficienza respiratoria anche grave vengono assistite nella propria casa e possono condurre un’esistenza piena, certo non facile, ma senza la necessità di essere sempre ospedalizzate».*

Una foto di Robin Cavendish del 1961, sulla sua “Sedia Cavendish”, insieme al figlio Jonathan.

Coraggio è un termine che qui non leggerete. Non perché non faccia parte della storia che stiamo per raccontarvi, piuttosto perché è una parola che si addice ad una narrazione stereotipata della disabilità, mentre questa storia è invece l’antitesi di ogni preconcetto, anzi, ha dato un contributo determinante alla decostruzione dell’immagine delle persone con disabilità, oltre a reinventarne la vita migliorandone la qualità.
Questa è la storia di Robin Cavendish, il “pioniere del respiro”, e della moglie Diana Blacker. Grazie a loro oggi migliaia di persone con disabilità e insufficienza respiratoria anche grave vengono assistite nella propria casa e possono condurre un’esistenza piena, certo non facile, ma non hanno necessità di essere sempre ospedalizzate.
Pur utilizzando un respiratore da più di un trentennio, non conoscevo Robin Cavendish fino a poche settimane fa, quando ho visto il film Ogni tuo respiro (Breathe), pellicola del 2017 prodotta dal figlio di Robin e Diana, Jonathan, che ha voluto raccontare al mondo intero le vicende familiari che lo hanno visto, prima bambino e poi giovane uomo, coprotagonista di un’avventura che ha finito per cambiare il destino di migliaia di persone. Vedrete che “avventura” non è una parola fuori luogo per fatti che avrebbero potuto essere soltanto un “dramma medico”, mentre sono diventati il trionfo della normalità sulle difficoltà.

Robin Cavendish pochi anni prima della sua scomparsa, insieme alla moglie Diana Blacker e al figlio Jonathan.

Robin Cavendish venne colpito dalla poliomielite all’età di 28 anni, nel 1958. Si trovava in Kenya per lavoro, era un intermediario nel commercio del tè. Era un ragazzo elegante, brillante, intelligente e sportivo. Fresco sposo di Diana, portata all’altare l’anno precedente, aveva da poco saputo che sarebbe diventato papà. Un inizio fiabesco seguito da una brusca interruzione. Robin una notte sentì perdere la sensibilità nelle braccia e nelle gambe. La corsa in ospedale a Nairobi ed era già paralizzato fino al collo. Era la manifestazione più grave della polio, quella che blocca anche il respiro. Venne necessariamente sottoposto a una tracheotomia e attaccato a una macchina che gli pompava aria nei polmoni, altrimenti sarebbe morto. Quel respiratore meccanico, l’antesignano dei moderni ventilatori artificiali, lo avrebbe tenuto attaccato alla vita, una vita dal pronostico brevissima, tre mesi, dissero i medici.

Sdraiato immobile su quel letto d’ospedale, il rumore ritmico della macchina a cui era collegato da un tubo scandiva le giornate e la prospettiva era che le avrebbe scandite per sempre, non c’era possibilità di tornare a casa. Robin cadde in depressione, quando le terapie gli permisero di riprendere a parlare, la prima cosa che chiese fu che staccassero la spina e lo lasciassero morire. Diana non si rassegnò, considerava quel pronostico impossibile, Robin non avrebbe trascorso il resto dei suoi giorni in ospedale, avevano un bambino da crescere. Un giovane medico era d’accordo con lei e un anno dopo l’esordio della malattia, insieme organizzarono la fuga dal nosocomio. Il direttore cercò di ostacolarli, invano, lanciando al paziente evaso la sua sentenza: «Morirai in due settimane!». Quel che non aveva capito era che Robin avrebbe preferito morire anche il giorno dopo, ma da uomo libero, non in una corsia trattenuto contro la sua volontà.

L’attore Andrew Garfield ha interpretato Robin Cavendish nel film “Ogni tuo respiro”.

Tornarono in Inghilterra, nell’Oxfordshire, avevano 25.000 sterline e una vita da reinventare. Con 7.000 sterline comprarono una casa a Drayton St Leonard, villaggio sul Tamigi poco distante da Oxford, con le 18.000 rimanenti avrebbe dovuto sostenersi la famiglia dove nessuno lavorava, dal momento che Diana era impegnata a tempo pieno nell’assistenza al marito e nell’accudimento di Jonathan. A questo punto entrò in gioco Robin, quello che il direttore dell’ospedale considerava poco più di un “fantoccio” senz’anima da pulire, nutrire e a cui dare aria. Sapeva che quei soldi, seppure una cifra considerevole per l’epoca, non sarebbero bastati per sempre. Cominciò quindi ad investire in Borsa, seguendo i principi dell’economista Warren Buffet e leggendo il «Financial Times» (la lettura dei giornali era uno dei suoi passatempi preferiti). I guadagni non erano altissimi, ma costanti, quel tanto che bastava per non fare andare in rosso il bilancio familiare e dedicarsi con maggiore serenità alla ricerca di accorgimenti per aumentare l’autonomia personale.
Robin era circondato dall’affetto dei suoi cari e di numerosi amici, la casa dei Cavendish era un ritrovo allegro dove si mangiava, si beveva buon vino, si chiacchierava, si ascoltava musica e si cantava. Con loro abitava Tim, che era stata la balia di Diana e ora fungeva da tata per tutti.
Chi ha conosciuto Robin lo ricorda un tipo poco incline al sentimentalismo, sempre pronto ad ascoltare gli altri e a dare un consiglio, con una sana capacità di ridere. Non aveva risentimento per quanto gli era accaduto, era come se la vita sedentaria gli avesse dato un punto di vista più ampio, una visione acuta del mondo. Jonathan, tornando a quei giorni, dice di non aver percepito ansia nei suoi genitori, malgrado i momenti complicati, come quando saltava la corrente elettrica e il respiratore del papà si fermava; c’erano due minuti di tempo per azionare una pompa manuale che veniva gonfiata e sgonfiata, un antenato degli attuali palloni Ambu. Vivevano giorno per giorno, senza pianificare a lungo termine, con gioia, humour british e pragmatismo.
Il chiodo fisso di Robin era la qualità delle giornate. L’atmosfera divertente lo aiutava, ma era sempre a letto attaccato a quella macchina simile ad una lavatrice che respirava per lui. Possibile non ci fosse un modo per uscire portandosi la macchina appresso?

La targa blu dedicata a Robin Cavendish, a Drayton St Leonard.

Aveva un amico, Teddy Hall, ingegnere e docente di Oxford, estroso inventore. Con lui, nel 1962, sviluppò una sedia a rotelle con respiratore incorporato, alimentato a batterie. Era nata la “Sedia Cavendish” che consentiva di alzarsi dal letto e spostarsi con l’autonomia di qualche ora, un prototipo che liberò Robin dalla reclusione della sua stanza e divenne un modello per futuri ausili.
Teddy adattò per l’amico anche un furgone, aggiungendovi un elevatore per permettergli di entrare nel veicolo con la sedia a rotelle. Viaggiava così con Diana, lei autista e Robin il navigatore. Si spostavano da Oxford a Londra, tornavano a casa di notte, giravano l’Europa come una qualunque coppia, viaggiavano per veder sorgere il sole sul Mediterraneo. Accadeva a cavallo tra gli Anni Sessanta e Settanta, una rivoluzione nella percezione che la maggioranza aveva delle persone con disabilità.

Robin voleva dare le medesime possibilità ad altre persone paralizzate che facevano uso di respiratori artificiali a causa della polio o di altre patologie. Stilò un censimento di tutti coloro che erano confinati nei polmoni d’acciaio in Gran Bretagna, fece scoperte desolanti che lo spinsero a lanciare una campagna, chiedendo al Dipartimento della Salute di fornire sedie a rotelle come la sua a queste persone. Nel frattempo uscirono altre due versioni della Sedia Cavendish, ci mise la faccia per raccogliere i fondi necessari per comprare la prima dozzina di carrozzine e alla fine convinse il Dipartimento a finanziarne un’altra serie che fu prodotta nell’azienda di Teddy, la Littlemore Scientific Engineering.
Robin aveva il controllo del mondo intorno a lui, un mondo creato a misura delle sue esigenze. Riusciva a muovere la testa a destra e a sinistra; con questo minimo movimento attivava una centralina che gli permetteva di telefonare, usare la televisione e regolare il riscaldamento di casa. L’apparecchio si chiamava Possum, l’aveva sviluppato con gli esperti dello Stoke Mandeville Hospital, una clinica specializzata nella riabilitazione. Questo cambiò la vita di molti: ormai Robin, convinto assertore del diritto di ognuno di scegliere la propria libertà, era un attivista che dava voce a chi ogni giorno faceva i conti con la propria disabilità e i limiti imposti dalla società.

Diana Blacker e il figlio Jonathan Cavendish alla presentazione di New York del film “Ogni tuo respiro” (Foto di Jimi Celeste/©Gettyimages).

Nel 1975 gli venne riconosciuto l’MBE, ordine cavalleresco britannico che premia, tra gli altri, il lavoro svolto nell’assistenza sociale. Non tralasciò il diritto al divertimento, per lui così importante. Pochissimi, infatti, riuscivano ad andare in vacanza insieme alle famiglie, per loro nacque negli Anni Settanta l’ente di beneficenza Refresh, con lo scopo di ottenere finanziamenti per la costruzione di un complesso turistico accessibile, il Netley Waterside House, a Southampton Water, sulla costa meridionale, che venne inaugurato nel 1977.
Robin Cavendish morì l’8 agosto 1994 nella sua casa a Drayton St Leonard; è la persona che in Gran Bretagna ha vissuto di più dopo aver contratto la polio. Un anno dopo la sua scomparsa, il 27 novembre 1995, venne creato il Robin Cavendish Memorial Fund per promuovere la salute delle persone con disabilità. L’Associazione crebbe in fretta e nel 2014 si fuse con il Refresh nel Cavendish Spencer Trust. Spencer era il caro amico Geoffrey, cofondatore di Refresh, un medico che lo aveva sempre sostenuto, specialista della poliomielite e consulente responsabile presso il St Thomas’ Hospital di Londra.

Oggi Diana, Jonathan e la moglie Leslie continuano a portare nel mondo gli ideali di Robin e ancora supportano concretamente il miglioramento della qualità della vita delle persone con disabilità; per questo impegno nel 2017 hanno ricevuto il Patient Innovation Lifetime Achievement Award, assegnato per il lavoro nello sviluppo di innovazioni a favore della disabilità.
Due anni dopo, il 16 giugno 2019, nella sua casa a Drayton St Leonard, è stata svelata una targa blu che ricorda Robin Cavendish. Quando morì aveva 64 anni, quando ne aveva 28 gli avevano detto che sarebbe sopravvissuto soltanto tre mesi. Lui invece non si era accontentato di sopravvivere, aveva vissuto 36 anni respirando attraverso una macchina, ma soprattutto aveva viaggiato, conosciuto, ascoltato, scoperto, riso, aveva dimostrato in pratica e nella pratica che si può vivere dignitosamente e felicemente anche in condizioni avverse, e lo ha permesso a tanti altri.
Apparteneva a quella categoria di uomini che fanno di testa loro: come detto all’inizio, infatti, la sua storia e quella di Diana rompe i cliché, al punto che rimane sullo sfondo la differenza tra la prima parte della loro vita, fatta di salute e bellezza, e la seconda, dove il dolore avrebbe potuto prendere il sopravvento, mentre è stato soppiantato dal sorriso della determinazione.

 

* Il presente testo è già stato pubblicato su Superando.it, il portale promosso dalla FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), e viene qui ripreso, con lievi adattamenti al diverso contesto, per gentile concessione.

 

Ultimo aggiornamento il 31 Gennaio 2024 da Simona