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Il CERPA compie 30 anni, il benessere ambientale inteso anche come rispetto dei diritti umani

Intervista a Piera Nobili a cura del CERPA Italia*

CERPA Italia, il Centro Europeo di Ricerca e Promozione dell’Accessibilità, compie 30 anni, e celebra questa importante ricorrenza pubblicando un’interessante intervista a Piera Nobili, architetta, socia del Centro dal 2000 e presidente dello stesso dal 2003 al 2015 e dal 2018 ad oggi. Ne emerge una riflessione ampia sul percorso intrapreso; sulle trasformazioni anticipate e seguite; sulle prospettive che l’approccio integrato alla disabilità propone; sul rapporto tra accessibilità e inclusione, tra benessere ambientale e garanzia del rispetto dei diritti umani. Una riflessione ampia, perché ampia è la visione di chi la propone.

Una bella immagine di Piera Nobili, architetta e attuale presidente del CERPA Italia.

Piera, come si è evoluto il concetto di disabilità in questi 30? Che ruolo ha avuto il CERPA in questa trasformazione?
«Per brevità non ripercorrerò tutti i passaggi operati dall’OMS – Organizzazione Mondiale della Sanità a partire dal 1980, passerò direttamente al 2001 anno in cui 161 paesi, fra cui l’Italia, sottoscrissero un nuovo e rivoluzionario strumento elaborato dall’OMS. Si tratta dell’ICF, ossia della Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, tutt’ora operante. Questo nuovo strumento non propone una classificazione della disabilità, come accadeva con l’ICIDH del 1980 [documento precedente chiamato “Classificazione Internazionale delle Menomazioni, Disabilità e Handicap”, N.d.R.], quanto una descrizione della disabilità derivante dell’interazione tra un individuo (con una data condizione di salute) e i fattori contestuali di quello stesso individuo (fattori ambientali e personali). La portata innovativa di questa diversa lettura del corpo e della salute degli individui risiede nell’approccio integrato nel quale, per la prima volta, si tiene conto dei fattori ambientali classificandoli in maniera sistematica. Infatti, la nuova classificazione prende in considerazione gli aspetti contestuali della persona e permette la correlazione fra stato di salute e ambiente giungendo alla definizione di disabilità come una condizione di salute in un ambiente sfavorevole.
Questa definizione supera il vecchio concetto che sosteneva che dove finiva la salute iniziava la disabilità, di fatto inserendo la persona con disabilità all’interno di un gruppo separato dal resto della società, ma che tutti possiamo essere “disabili” se immessi in un ambiente a noi sfavorevole, cioè disabilitante.
A seguire, la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall’Italia con la Legge 18/2009, dà questa definizione delle persone con disabilità: le persone con disabilità includono quanti hanno minorazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali a lungo termine che in interazione con varie barriere possono impedire la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di eguaglianza con gli altri.
In tal modo ribadisce il concetto espresso dall’ICF, confermando il nuovo paradigma sulla disabilità.
In particolare, la Convenzione ONU apre alla prospettiva di superare lo stigma con cui le persone con disabilità vengono socialmente pensate, ed all’art. 3 afferma, fra i principi generali, “il rispetto per la differenza e l’accettazione delle persone con disabilità come parte della diversità umana e dell’umanità stessa”.
Con l’ICF e la successiva Convenzione si è passati definitivamente dall’approccio novecentesco alla disabilità sanitario e caritativo-assistenziale, a quello sociale che intende la disabilità una condizione umana che procura discriminazione sociale per la persona. Il cambio di paradigma e il passaggio all’approccio sociale della disabilità hanno consentito di allargare l’orizzonte a chiunque abiti gli ambienti antropizzati, ovvero di prendere coscienza della diversità umana e della soggettiva multidimensionalità, che origina il concetto di discriminazione intersezionale, facendo emergere la nozione di “limitazione situazionale”.
Il CERPA ha in parte anticipato e in parte seguito tale evoluzione promuovendone i contenuti culturali e progettuali. Tramite ricerche, progetti, eventi, formazioni, partecipazione a tavoli istituzionali, ecc. ha favorito l’approccio progettuale di contesti accessibili e inclusivi per chiunque e, in particolare, che consentono il godimento dei diritti da parte delle persone con disabilità, tramite azioni di discriminazione positiva, confermando il diritto all’uguaglianza ed alla diversità.
Fra le molte esperienze maturate mi piace ricordare la realizzazione del servizio CRIBA-ER (Centro Regionale d’Informazione sul Benessere Ambientale) della Regione Emilia-Romagna, attivo dal 2000, della Rete dei CAAD (Centro per l’Adattamento dell’Ambiente Domestico), attivi dal 2003 (realtà poi replicate in altre regioni italiane con il supporto di CERPA), la collaborazione al progetto AGENAS (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) sull’Umanizzazione delle Strutture Sanitarie, la collaborazione al progetto INU – Istituto Nazionale di Urbanistica “Città accessibili a tutti” che ha dato luogo anche al “Premio Tesi e Ricerche” e al “Patto per l’urbanistica”, i progetti sul Turismo accessibile che si stanno sviluppando nelle Regioni Emilia-Romagna e Friuli Venezia Giulia».

Il focus del CERPA è sempre stato l’ambiente. Ora se provassimo a vedere il futuro non come tempo ma come luogo, dove crede sarà il CERPA? 
«Il CERPA è molto cresciuto in termini sia di conoscenza e saperi, sia di competenze tecnico-scientifiche. Questo grazie alla presenza di socie e soci motivate e preparate nei singoli e diversi settori d’interesse, alla partecipazione dell’associazione a ricerche e progetti nazionali ed europei, al costante confronto con le realtà associative di categoria e con le Istituzioni di governo e universitarie, alla rete costituita dal Network CERPA dei centri d’eccellenza, alle consulenze prestate tramite i servizi CRIBA-ER e CAAD, nonché tramite le differenti attività che negli anni ha realizzato.
Il CERPA, sia per storia sia per scopo statutario, perseguirà anche nel futuro l’approccio progettuale all’ambiente, consapevole che c’è ancora molta strada da percorrere in tema di accessibilità, intendendo l’accessibilità quale prerequisito per raggiungere una vera e piena inclusione di chiunque abiti. Accessibilità e inclusione sono due concetti autonomi (l’una agisce sul piano materiale dei corpi, l’altra su quello immateriale), ma fra loro integrati. L’accessibilità universale non è un “ornato” da applicare al progetto oggettuale, architettonico e urbanistico, bensì è e deve essere pensato come parte integrante dello stesso. Per tale motivo il CERPA si è dato un piano d’intervento futuro che attualmente viene sviluppato tramite gruppi di lavoro interni, con la finalità di operare a più ampio raggio introducendo le variabili riguardanti l’inclusione.
Questo nuovo impegno vede il CERPA ribadire con maggior fermezza quanto l’ambiente antropizzato sia fondamentale nel definire il benessere di coloro che abitano e, al contempo, contrastare la discriminazione e la marginalizzazione di chiunque.
Il focus del CERPA è il benessere ambientale. Quando lo si definisce, quando si parla di benessere ambientale, è immediato il riferimento allo stare bene, allo stare bene in un luogo perché quel luogo è salubre, sicuro, usabile, confortevole, riconoscibile, comunicativo e piacevole.
Benessere in un ambiente vuol dire però avere anche la garanzia del rispetto dei diritti umani e loro piena attuazione, cioè avere una casa, potersi muovere, partecipare attivamente alla vita sociale…
Il benessere ha a che fare infine con la conoscenza antropologica e fenomenologica dell’abitare, cioè con i diversi e molti modi di abitare la casa, la città e il territorio, di percepire ed agire nello spazio-tempo, di condurre una vita materiale e immateriale piacevole.
La tensione che permea le azioni future sta nel confermare il ruolo sociale di coloro che progettano, nel confermare la necessità di lavorare in equipe multi ed interdisciplinari».

Una realizzazione grafica dedicata all’Universal Design raffigura le sagome di tante persone diverse per età, genere e altre condizioni fisiche e sociali che devono essere considerate nella progettazione di spazi, ambienti e servizi.

Avere una visione libera da stereotipi fa bene a chiunque. In una società complessa, che valenza può avere l’Universal Design?
«I pregiudizi sono presenti e utili nella vita di chiunque. Si tratta della propensione a categorizzare per organizzare e semplificare la complessità che viviamo, ad es.: so che una fiamma libera può bruciarmi (pregiudizio) e ne sto alla larga (organizzo un comportamento). Fin qui tutto bene.
Ma quando il pregiudizio per assenza di conoscenza e pensiero complesso produce stereotipi e stigmi, basati su un sistema valoriale e culturale, nei confronti di minoranze, al contempo promuove discriminazione e marginalizzazione.
Il superamento della svalorizzazione dell’Altro diverso dal “noi” e del contrasto alla marginalizzazione è lo scopo del CERPA applicato sull’ambiente antropizzato.
L’UD – Universal Design è un possibile approccio progettuale a questa tematica. L’approccio offerto dall’UD tende, da un lato, a superare la riduzione degli interventi alla misura standardizzata dell’uomo cosiddetto “normotipico” e, dall’altro, a superare la riduzione alla misura specializzata sulla disabilità solitamente appiattita su quella motoria. È nell’ambito del processo progettuale che l’UD situa anche il confronto con la normativa, cercando di migliorarne non solo l’applicazione, ma anche di superarne le manchevolezze, in quanto l’ambiente, alla base dell’UD, è un ambiente che favorisce il benessere di coloro che lo vivono, siano essi abitanti stabili, temporanei o in transito.
Con i Sette Princìpi guida dell’UD** vengono poste le basi affinché una qualsiasi realizzazione, dalla scala urbana a quella dell’oggetto fino ai servizi, possa essere usata in modi differenti per lo stesso scopo e con la stessa soddisfazione dalla maggior parte dei fruitori, nella consapevolezza che non potrà esserci una soluzione valida per tutti gli abitanti, in particolare per quanto agli spazi ed edifici pubblici, che ci sarà sempre la necessità di soluzioni personalizzate.
In sostanza, l’UD definisce un atteggiamento metodologico (senza prescrivere soluzioni), definisce l’utente in modo esteso (non solo le persone con disabilità), evidenzia il ruolo sociale del progettista (deve conoscere coloro che abiteranno). In questi termini l’UD può essere un valido riferimento, tramite i Sette Princìpi guida, per guidare i progettisti e valutare i progetti.
Non è un caso, però, che anche l’Unione Europea si sia data una norma di riferimento, a cui gli Stati membri dovranno con proprie norme riferirsi, per rendere più chiaro e più facilmente valutabile il percorso e l’esito progettuale in tema di accessibilità e inclusione. Si tratta della UNI CEI EN 17210/2021».

 

* Il presente testo è già stato pubblicato sul sito del «CERPA Italia» (Centro Europeo di Ricerca e Promozione dell’Accessibilità), e viene qui ripreso, con lievi adattamenti al diverso contesto, per gentile concessione.

** Principio 1 – Equità – uso equo: utilizzabile da chiunque; principio 2 – Flessibilità – uso flessibile: si adatta a diverse abilità; principio 3 – Semplicità – uso semplice ed intuitivo: l’uso è facile da capire; principio 4 – Percettibilità – il trasmettere le effettive informazioni sensoriali; principio 5 – Tolleranza all’errore – minimizzare i rischi o azioni non volute; principio 6 – Contenimento dello sforzo fisico – utilizzo con minima fatica; principio 7 – Misure e spazi sufficienti – rendere lo spazio idoneo per l’accesso e l’uso.

 

Ultimo aggiornamento il 19 Dicembre 2023 da Simona