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Gabriella Bertini, quella donna in Fiat 500 che difendeva i diritti

di Stefania Delendati *

«La Fiat 500 di Gabriella Bertini – scrive Stefania Delendati – è poco conosciuta, come del resto pochi conoscono la sua autista, eppure è un pezzo di storia del nostro Paese, che ha molto da dirci su come eravamo, quanta strada abbiamo percorso e quanto ancora dobbiamo rimboccarci le maniche». Insieme a Delendati, dunque, ripercorriamo la storia di questa coraggiosa donna con disabilità, scomparsa nel 2015, che tante lotte condusse, in anni difficili, in favore dei diritti delle persone con disabilità.

 

L’immagine divenuta una sorta di icona di Gabriella Bertini, che negli Anni Sessanta – come reca la stessa dicitura sotto la foto – fu la prima donna italiana in carrozzina a guidare l’automobile.
L’immagine divenuta una sorta di icona di Gabriella Bertini, che negli Anni Sessanta – come reca la stessa dicitura sotto la foto – fu la prima donna italiana in carrozzina a guidare l’automobile.

Ci sono automobili che hanno segnato un’epoca, alcune rese celebri del cinema, altre di lusso, altre ancora legate a fatti di cronaca. La Fiat 500 di Gabriella Bertini è poco conosciuta, come del resto pochi conoscono la sua coraggiosa autista, eppure è un pezzo di storia del nostro Paese, che ha molto da dirci su come eravamo, quanta strada abbiamo percorso e quanto ancora dobbiamo rimboccarci le maniche.

La Fiat 500 di Gabriella Bertini è stata tra le prime autovetture in Italia adattate con comandi manuali, l’unica ancora presente al mondo risalente a quel tempo. Gabriella la comprò nel 1965, contro il parere dei familiari. Aveva 25 anni, era una ragazza bella come il sole, un sorriso e una faccia da cinema con lunghi capelli scuri che la facevano somigliare a Pocahontas.
Erano anni ruggenti per giovani impegnati nella politica e nella società, anni di lotte per i diritti, anche per i diritti delle donne. Solo che Gabriella quelle battaglie doveva combatterle su più fronti, perché lei era giovane, era donna ed era anche una persona con disabilità che pretendeva cure adeguate, indipendenza, dignità per sé e per gli altri cittadini disabili. Era in sedia a rotelle dal 1953 quando, appena tredicenne, un’infezione al midollo, o forse una trombosi spinale, l’aveva resa paraplegica. Non che sino a quel momento la sua vita fosse stata una passeggiata, anzi. Nativa di Dicomano, in provincia di Firenze, ultima di tre fratelli, durante la guerra aveva perso il papà ufficiale di Marina. Insomma, imparò presto a tirare fuori la determinazione davanti a prove difficili. A 18 anni divenne la segretaria del professor Adriano Milani, direttore del Centro di Riabilitazione per Bambini con Spasticità della Croce Rossa Italiana del capoluogo toscano. Frequentava Barbiana, il borgo sulle colline fiorentine dove don Lorenzo Milani, fratello del professore, sperimentava un modo nuovo di fare scuola, accogliendo tutti e aiutando i ragazzi, per diversi motivi, più svantaggiati.

Provava, Gabriella, a costruirsi un futuro attivo, in un’Italia che alle persone come lei offriva ospizi e pietà. La paraplegia era ritenuta infatti una condizione senza vie d’uscita, non esistevano reparti specializzati e le complicanze dell’immobilità accorciavano l’aspettativa di vita. Ma Gabriella non era tipo facile alla resa. Acuta e intelligente, si documentava e come una spugna assorbiva insegnamenti, rivendicando con testardaggine diritti che oggi appaiono (quasi) scontati, ma che allora non lo erano affatto. Come avere una sedia a rotelle. Lei ottenne la prima dopo una visita al Niguarda di Milano. Era l’anno d’inizio del lavoro alla Croce Rossa, l’ausilio le serviva per essere più autonoma. Voleva la fisioterapia, ma anche l’ambiente ospedaliero respingeva i disabili, alcuni infermieri si rifiutavano perfino di toccare una donna in carrozzina. La consideravano niente, oppure una strafottente, mai una persona. Per contrasto, erano “cronache marziane” i racconti del professor Milani che le parlava dell’Inghilterra e della Germania, dove chi aveva una lesione spinale non se ne stava a “vegetare”, ma poteva praticare sport, ricevere assistenza e terapie particolari, in grado di recuperare le potenzialità residue. C’era un ospedale inglese, in particolare, a cui si ispiravano: Stoke Mandeville. «Vedere come curavano e riabilitavano persone con lesione al midollo spinale fu una cosa meravigliosa e capii subito che le stesse cose sarebbero dovute avvenire anche in Italia. Il programma del centro inglese era una realtà che dava speranza, faceva tornare la gioia di vivere, di muoversi, studiare, lottare», disse Gabriella dopo averlo visitato.

Erano i primi Anni Settanta, tanti cambiamenti erano sopraggiunti. La Fiat 500 e la patente, prima di tutto. Ormai Gabriella raggiungeva il posto di lavoro da sola, non doveva più aspettare il pulmino. Non solo, poteva organizzare incontri e riunioni con i genitori, per rendersi conto delle loro difficoltà quotidiane, bussava agli uffici dei politici. Cominciavano a conoscerla, merito anche di una foto in cui sorridente sbucava dal finestrino dell’auto, un’immagine divenuta un’icona che l’ha fatta conoscere alle generazioni successive. Accanto a lei, Giuseppe Banchi, per tutti Beppe, compagno di vita e di lotte. Poi arrivò il figlio Adi. Abitavano in una grande vecchia villa con un terreno adiacente, proprietà occupata, in perfetto stile Anni Sessanta, scelta perché priva di barriere architettoniche e trasformata in una comunità di amici un po’ hippy. Lavoravano la terra, parlavano, collaboravano come una famiglia allargata aperta a tutti, disabili e non, senza distinzioni. Tanta gente andava e veniva dalla casa di Gabriella e Beppe, tutti avevano in comune ideali di libertà. Avevano compiuto passi da gigante: a partire dal 1960 a Barbiana, una volta alla settimana, le persone mielolese potevano effettuare sedute di fisioterapia; nel giro di una decina d’anni, con il contributo di Gabriella, quelle stesse persone si riunirono nei primi gruppi organizzati di cittadini con disabilità. Insieme potevano farcela, e ne ebbero un assaggio appena dopo il ’68. Era stata infatti emanata la normativa sul collocamento lavorativo delle persone con disabilità (la Legge 482/1968), cosicché Gabriella e i suoi compagni occuparono a lungo Piazza della Signoria a Firenze, per far rispettare la norma, portando all’assunzione di trecento persone con disabilità.

Gabriella Bertini a Firenze negli Anni Settanta, durante una manifestazione per i diritti delle persone con disabilità. Al suo fianco la scritta “Our bodies belong to us” (“I nostri corpi ci appartengono”).
Gabriella Bertini a Firenze negli Anni Settanta, durante una manifestazione per i diritti delle persone con disabilità. Al suo fianco la scritta “Our bodies belong to us” (“I nostri corpi ci appartengono”).

Era iniziato il periodo delle manifestazioni pacifiche, ed è ancora una volta una foto passata alla storia a trasmetterci la forza di Gabriella. Lei seduta sulla sedia a rotelle mentre lavora a maglia; accanto, appoggiato a una cancellata, un cartello con la scritta, in inglese, «i nostri corpi ci appartengono», per denunciare l’abitudine di considerare la disabilità uno status che annulla l’essere umano e il suo diritto di decidere per sé. Autorappresentazione e autodeterminazione, due parole nuove si facevano strada, mentre Gabriella metteva in versi pensieri e speranze. Era anche poetessa, infatti, un’attività intensa che la impegnò per una trentina d’anni, sfociando nella pubblicazione di libri che riscossero unanimi consensi.

Le lotte continue, però, finirono per debilitarla. Nel 1971 volò a Stoke Mandeville, a curarsi nella clinica di cui le aveva parlato il professor Milani. Dal canto suo, Beppe abbandonò il lavoro da ingegnere per seguire la sua Gabriella e insieme divennero “inviati speciali” per conto degli italiani con disabilità. Ascoltarono le testimonianze di operatori e pazienti, raccogliendo una vasta documentazione video e fotografica sul “modello Stoke Mandeville”, decisi ad importarlo nel nostro Paese. Qui da noi era sufficiente una lesione cutanea trattata con superficialità per morire, in Inghilterra i paraplegici avevano piscine, laboratori occupazionali, palestre. Gabriella e Beppe rientrarono nel 1972, mantenendo però un solido filo diretto con il dottor Jack Walsh, direttore della clinica inglese. Nel frattempo costituirono un Comitato per la Riabilitazione, per fare pressione sulla Regione Toscana, ai fini dell’apertura di un’Unità Spinale presso l’Ospedale Careggi di Firenze.

Il dottor Walsh era sempre al loro fianco, disponibile a tenere conferenze con medici, infermieri, fisioterapisti e politici, per stimolare un cambiamento di mentalità. Nel 1978 avviò in via sperimentale il Reparto Paraplegici, al settimo piano del CTO, che per tutti divenne il “7° Paraplegici”, un progetto avveniristico per gli standard italiani, che necessitava di personale adeguatamente formato. Il primario era il professor Mizzau, un medico illuminato che dialogava con le Associazioni, prima fra tutte la Toscana Paraplegici, e mandava i suoi pochi infermieri a fare tirocinio a Stoke Mandeville; al ritorno dall’estero, a loro volta formavano i colleghi durante incontri ai quali partecipavano anche i pazienti. Ma era una lotta continua per scongiurare il pericolo di chiusura, il personale era scarso e i posti letto insufficienti.

Nel ’79 nuovi problemi di salute costrinsero Gabriella al ricovero in Germania, nel Centro per Lesioni Midollari di Heidelberg. Quei mesi lontano da casa la spinsero ancor più a dedicare tutta se stessa a rendere concreto il diritto alla cura. Un quarto dei pazienti proveniva dall’Italia, disabili “privilegiati”, perché erano riusciti ad “emigrare” per trovare terapie consone, ma comunque il segnale di quanto grave fosse la situazione dal punto di vista sanitario e riabilitativo per le persone mielolese italiane. E coloro che non potevano permettersi di andare all’estero, quale amaro destino avrebbero trovato? Gabriella prese a cuore soprattutto un bambino romano di 8 anni, portato in Germania per guarire le piaghe da decubito. Gli rimase accanto, e con l’aiuto di un altro italiano ricoverato, Giuseppe Guerrieri, comunicò al direttore dell’ospedale, professor Paeslack, una decisione irremovibile: al ritorno in Italia avrebbe iniziato uno sciopero della fame, per chiedere l’apertura di un centro attrezzato non più sperimentale. Per la mentalità teutonica era scandaloso che si dovesse ricorrere a una forma di protesta così estrema per un diritto, come quello alla salute, che dovrebbe essere inalienabile. Il medico decise, malgrado qualche perplessità, di appoggiare la sua paziente ribelle, facendo da intermediario con i politici italiani. Il 18 novembre 1979 Gabriella cominciò a digiunare, formulando precise richieste alla Regione e al Ministero della Sanità. Il professor Paeslack la monitorava, poiché quello sciopero non era privo di rischi per il suo fisico, ma la tenacia della giovane donna colpì altre persone con paraplegia, che si unirono alla lotta pacifica. Uno sciopero della fame attuato “da handicappati” – come venivano chiamati allora – fece riflettere e discutere il Paese intero. A Roma, nelle stanze del potere, arrivavano telegrammi di denuncia; la stampa ne parlava, Medicina Democratica e testate come «Lotta Continua» e «il Manifesto» pubblicavano articoli.
Prima di allora, nessuno in Italia sapeva che potessero esistere cliniche specializzate per disabili, non si conosceva il numero dei connazionali ricoverati all’estero, soprattutto nessuno era al corrente delle condizioni spesso disperate in cui arrivavano negli ospedali oltre confine. Lo sciopero della fame durò quattro giorni, al termine dei quali giunse l’impegno concreto di Regione, CTO e Ministero della Sanità di creare – sotto la direzione del dottor Giulio Del Popolo – una divisione autonoma ampliabile per lesioni al midollo spinale presso il nosocomio di Careggi a Firenze. Già, ampliabile, solo che per aumentare i posti letto fu necessario risalire sulle barricate. Nell’86, infatti, Gabriella e altri amici paraplegici occuparono per tre giorni il palazzo della Regione Toscana. Lei, ormai una “donna-simbolo”, ma non per questo disposta ad adagiarsi, si sedette sulle scale e lanciò la sua carrozzina come gesto di dissenso. L’anno dopo, finalmente, venne firmato l’accordo per la realizzazione dell’Unità Spinale di Firenze, la prima in Italia.

Una bella foto giovanile di Gabriella Bertini.
Una bella foto giovanile di Gabriella Bertini.

Gabriella era solita dire che «ribellarsi è giusto, organizzarsi è fondamentale». Le sue proteste, anche le più forti, cercavano sempre il confronto, sapeva infatti l’importanza della comunicazione e dell’informazione, anche tra gli addetti ai lavori, e dall’inizio degli Anni Ottanta promosse vari congressi, invitando medici e chirurghi esperti in para-tetraplegia.
Non risparmiava parole dure per muovere le coscienze, ma lasciava aperta la porta del dialogo. Se l’Unità Spinale è stata il suo più grande successo, non vanno dimenticate le altre campagne di sensibilizzazione che la videro protagonista: barriere architettoniche, lavoro, vita indipendente.
Contribuì alla nascita del CIVIC (Centro Internazionale Vacanza e Incontri Culturali) sull’handicap a Marina di Grosseto, e fu tra le fondatrici di Medicina Democratica, movimento di lotta per la salute attivo soprattutto nell’ambito della sicurezza sul lavoro. Fu inoltre grazie a lei e alle testimonianze di uomini e donne paraplegici, che alla fine degli Anni Settanta si iniziò a parlare di sessualità e disabilità.

Gabriella Bertini ci ha lasciati nell’aprile del 2015 con un progetto nel cassetto: “Casa Gabriella”, una struttura adiacente al CTO di Firenze che completerebbe il percorso terapeutico, un luogo destinato al recupero e al mantenimento, in grado di accompagnare le persone con paraplegia e tetraplegia nell’arco di tutta l’esistenza, fino al naturale invecchiamento, quando è difficile trovare assistenza sanitaria specializzata nelle normali case di riposo. Con l’apertura delle Unità Spinali, infatti, la speranza di vita è molto aumentata, e quindi occorrono oggi ulteriori risposte per garantire dignità anche nelle fasi post acute, per favorire il reinserimento nel tessuto sociale e produttivo, e in età avanzata. Gabriella aveva capito prima di tutti il bisogno di una residenza dove poter soggiornare per tempi più o meno lunghi, eventualmente insieme ai familiari, per curare piaghe da decubito, fratture o altri problemi che non necessitano di ricovero in ospedale. Aveva anche individuato il luogo adatto, un terreno di proprietà dell’INAIL, a due passi dal CTO, proprio dove lei abitò per decenni. La sua scomparsa ha causato una battuta d’arresto del progetto e gli ostacoli sono quelli di sempre: tanti soggetti da mettere d’accordo, l’avvicendamento dei responsabili, le risorse che scarseggiano, senza contare che l’apertura di un nuovo reparto è vista come una spesa eccessiva in tempi di tagli alla Sanità. In tal modo, però, non si comprende che una struttura come “Casa Gabriella” porterebbe a un risparmio, perché eviterebbe degenze molto più costose in Unità Spinale (circa 480 euro al giorno; fonte: Medicina Democratica).

Ricordando questa donna speciale, i suoi amici dell’ADINA di Firenze (Associazione Difesa Diritti Persone Non Autosufficienti) e dell’ATP (Associazione Toscana Paraplegici), insieme a Beppe Banchi, stanno mettendo impegno e passione per dare corpo al sogno. In principio, non sembrava forse irreale anche l’idea di un centro specializzato in lesioni spinali? Nessuno avrebbe scommesso una lira su quella ragazza in sedia a rotelle che guidava una Fiat 500, eppure ce l’ha fatta, per se stessa e per tanti altri che verranno.

 

* Il presente testo è già stato pubblicato su Superando.it, il portale promosso dalla FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), e viene qui ripreso per gentile concessione.

 

Ultimo aggiornamento: 23 gennaio 2017

Ultimo aggiornamento il 23 Gennaio 2017 da Simona