Una mamma mostra le lesioni riportate in seguito ad una violenta crisi comportamentale di suo figlio autistico. Qualcuno si domanda se sia il caso di raccontare pubblicamente certe cose (o, quanto meno, di farlo in quel modo). Prendendo spunto da questa vicenda, viene da chiedersi se esistano aspetti della disabilità che sarebbe meglio non rendere pubblici.
Lo scorso 7 gennaio il sito «Per noi autistici» (edito dalla Onlus Insettopia, presieduta da Gianluca Nicoletti, noto giornalista, scrittore e padre di Tommy, giovane uomo con autismo) ha ospitato la testimonianza di Graziella Lanzetta, madre di Simone, figlio unico, ventenne e con autismo. Lanzetta racconta che il giorno prima lei, suo marito Marco e Simone sono andati in giro in macchina a fare shopping. Mentre erano fermi al semaforo, Simone ha avuto una violenta crisi comportamentale. Poiché questa crisi si è manifestata all’improvviso, la madre non ha avuto modo di prevenirla o contenerla in qualche modo. Il ragazzo, che viaggiava sul sedile posteriore della macchina, ha afferrato i capelli della madre ed ha iniziato a tirare con tutte le forze. «Ho sentito un dolore terribile come se i capelli mi si stessero staccando dalla pelle – Nicoletti riporta le parole di Lanzetta – è stato un momento atroce. Nel tentativo di sottrarmi alla violenza avevo aperto la porta della macchina e non riuscivo più a chiuderla. Mi sentivo male, mi mancavano le forze. Mio marito mi diceva di chiudere la porta perché doveva ripartire in quanto il semaforo era diventato verde e la gente dietro in fila suonava il clacson. Ero nel panico. Per cercare di rallentare la presa mettevo indietro la testa e con le mani cercavo quelle di mio figlio e urlavo ma lui non mi sentiva.» Poi il padre è riuscito a bloccare e calmare Simone.
Sempre Nicoletti spiega che questo tipo di situazioni in termini tecnici sono chiamate “comportamenti problema etero-aggressivi”, e chiarisce in cosa consistono: «Le crisi sono la conseguenza di uno stato d’ansia incontenibile, tipico dell’autismo. Quando si scatenano possono comportare anche reazioni auto-aggressive come forti e ripetuti colpi in testa, morsi tremendi alle mani, graffi scarnificatori, calci a porte, muri ecc. Lo stesso Simone ha sulle sue mani i segni indelebili delle crisi.» Il problema di questa madre non è l’episodio in sé, ma, lo chiarisce lei stessa, «la paura che ho di mio figlio, di stare con lui perché ormai non so più come fare per contenerlo. Combattere una battaglia così è un’impresa. Manda in giro la mia foto. Voglio che si veda che cosa vuol dire convivere con un figlio autistico.» Ed, infatti, la testimonianza è completata da una sua fotografia che mostra come, in una parte della testa, i capelli siano completamente diradati.
Conclude Nicoletti: «La storia di Graziella e Simone si intreccia con mille altre storie che abbiamo raccontato, denunciato ecc. Continueremo a farlo nella speranza che serva a smuovere le coscienze di tutti, nessuno escluso.»
Il racconto di questa madre è già di suo meritevole di visibilità, ma ciò che mi ha indotto a scrivere è il commento apparso l’8 gennaio sul gruppo Facebook Ricerca e terapia nello Spettro Autistico (e delle sue politiche), a firma di Alberto Fagni. Lo riporto integralmente: «Mi spiegate il senso di articoli come l’ultimo di nicoletti? Nemmeno dovrei fargli pubblicità, ma credo che si debba far notare che il solito taglio vittimistico non credo serva a niente, anzi forse può essere dannoso. Capisco che esistano tante situazioni simili, forse non è nemmeno sbagliato denunciarle. Ma bisognerebbe anche far capire che con dei buoni interventi educativi di base comportamentale, molti, forse non tutti, però molti di questi episodi si potrebbero evitare. Che senso ha far credere che gli autistici adulti siano pazzi furiosi e pericolosi per tutti? Vogliamo aumentare lo stigma verso di loro? Vogliamo che gli altri ne abbiamo paura? Che li evitino? Dopo articoli come questo non davvero si sorprende che i ragazzi autistici non vengano portati in gita o integrati in molte attività sociali? A cosa serve dare in pasto all’opinione pubblica un articolo con questo taglio? Cosa si chiede? Compassione, visibilità una pacca sulle spalle? E poi tutti a casa propria. Davvero vogliamo far credere che non si possa lavorare su certi comportamenti? Massima comprensione verso la mamma in questione. Però ogni comportamento anche di un ragazzo autistico ha una funzione. Nel caso potrebbe non aver retto per il fatto di dover attendere il verde. Ci sono strategie che possono aiutare. Bisognerebbe spingere perché le istituzioni intervenissero in tal senso. Dobbiamo far capire che sono educabili e non viceversa. Altrimenti piangiamo e facciamoli passare per dei mostri, ma poi non lamentiamoci se i nostri figli verranno esclusi dalla società.» Al commento di Fagni è seguita la replica, pubblicata su «Per noi autistici», di Nicoletti e della stessa Lanzetta. Alla loro replica ha nuovamente replicato Fagni sul suo blog, «Autismo-mica-noccioline».
Al di là della specifica vicenda, sulla quale non è mia intenzione entrare nel merito (i link riportati consentono a chiunque voglia di farsi un’idea), mi viene il seguente dubbio: esistono aspetti della disabilità che non è opportuno rendere pubblici? Ci sono cose delle quali sarebbe meglio non parlare?
Chi sostiene che non tutto si possa raccontare pubblicamente parte dal presupposto che, essendo ancora abbastanza diffuso il pregiudizio che la disabilità sia solo fonte di problemi, scegliere di rendere pubblici i problemi (o, almeno, certi problemi) rafforzerebbe tale pregiudizio. Ma è davvero così?
Prendiamo per buono questo ragionamento e traiamone le logiche conseguenze. La prima logica conseguenza consiste nel divulgare una rappresentazione della condizione di disabilità non veritiera. Disegniamo un affresco abbastanza verosimile, ma ci leviamo un po’ di “ombre”, in modo da farlo apparire più luminoso. Supponiamo che gli altri si lascino convincere dalla nostra narrazione edulcorata, come si relazioneranno alle persone con disabilità? Molto probabilmente essi si relazioneranno in modo sbagliato, giacché l’idea di disabilità che abbiamo divulgato non è veritiera. Un’ulteriore logica conseguenza è che nel momento in cui gli altri capiscono che non siamo stati del tutto sinceri, perderemo credibilità. Pensare di contrastare un pregiudizio negativo opponendogli un pregiudizio positivo è sicuramente inefficace per il semplice motivo che da due rappresentazioni deformate della realtà non ne scaturisce una veritiera.
C’è poi un altro aspetto, le situazioni di disabilità sono affrontate in modo quasi esclusivo dalle famiglie. Fare emergere i problemi che questa organizzazione sbilanciata dei servizi porta con sé è l’unico modo per sollecitare una maggiore presenza delle istituzioni e della società. Se ancora oggi la figura del caregiver (la persona che, all’interno della famiglia, presta assistenza continuativa e significativa ad un congiunto con disabilità) non è giuridicamente riconosciuta e tutelata, una delle motivazioni è proprio l’approccio che considera la disabilità un affare privato da gestire in famiglia. Pertanto, quando qualcuno trova il coraggio e la forza di esprimere il disagio pubblicamente andrebbe ascoltato e supportato, non sottoposto a critica. Che la disabilità non comporti solo problemi, e che le persone con disabilità (che quelle con la stessa disabilità) non sono tutte uguali, si può sempre sottolineare, ma inibire l’espressione del disagio è sempre molto pericoloso; infatti, se la disperazione trova sbarrata la via della parola, potrebbe risolversi a cercare quella del gesto, con conseguenze talvolta irreparabili.
Torno dunque al dubbio iniziale: esistono aspetti della disabilità che non è opportuno rendere pubblici? Non credo, chi ha una mente sufficientemente aperta saprà accettare anche “le ombre” senza pensare che nella disabilità ogni cosa sia “ombrosa”, chi ha una mente chiusa farà fatica ad accettare anche una realtà edulcorata, e tenderà comunque a percepirla come difettosa. Si può certamente discutere sui modi della narrazione, e sarebbe importante farlo, senza tuttavia rinunciare alla sincerità.
Simona Lancioni
Responsabile del centro Informare un’h di Peccioli (PI)
Per approfondire
Natalia Poggi, Ecco come mi ha ridotto una crisi di mio figlio autistico, «Per noi autistici», 7 gennaio 2017.
Natalia Poggi, La mamma di Simone: per i nostri figli autistici gravi non c’è futuro, «Per noi autistici», 8 gennaio 2017.
Alberto Fagni, C’è modo e modo di parlare di autismo, «Autismo-mica-noccioline», 9 gennaio 2017.
Redazione PerNoiAutistici, L’autismo va raccontato senza filtri. Due riflessioni dopo la lettera di Graziella, «Per noi autistici», 15gennaio 2017.
Data di creazione: 12 gennaio 2017
Ultimo aggiornamento: 18 gennaio 2017
Ultimo aggiornamento il 18 Gennaio 2017 da Simona