di Donata Scannavini*
«È importante – scrive Donata Scannavini – che siano le stesse donne con disabilità, attraverso la partecipazione ad associazioni, organizzazioni che le rappresentino, a farsi portavoce di se stesse e dei propri diritti, perché è il momento dell’impegno in prima persona. E mai come oggi, con le prospettive e le opportunità che si possono aprire grazie all’attuazione della Legge Delega in materia di disabilità e agli interventi previsti dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, è importante esserci e portare le proprie istanze di donne con disabilita ai tavoli di confronto e decisionali».
Pochi giorni fa, nel corso di un’intervista, mi è stato chiesto cosa volesse dire per me essere una donna con disabilità nel 2022. Confesso che al primo momento questa sottolineatura sull’elemento temporale mi ha lasciata un po’ perplessa, forse perché, sempre immersi nella quotidianità, raramente consideriamo la nostra condizione di vita in relazione al momento e al contesto in cui ci troviamo a vivere, che evidentemente è diverso dal passato e anche da ciò che sarà in futuro.
Riflettendo, poi, mi sono resa conto che è senza dubbio diverso e per non pochi aspetti più facile essere donna con disabilità oggi di quanto non lo fosse anche solo trenta-quarant’anni fa, quando non era minimamente pensabile che una persona con disabilità, uomo o donna che fosse, avesse una vita sociale, lavorativa, relazionale, men che meno affettiva e sessuale.
Oggi, almeno a livello di princìpi, è riconosciuto alla persona con disabilità e in particolare alla donna con disabilità il diritto all’autodeterminazione; nella Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, infatti, si afferma esplicitamente il diritto della persona con disabilità a scegliere se e con chi formare una famiglia, se contrarre matrimonio, se e quanti figli avere, come regolare la propria fertilità (articolo 23: Rispetto del domicilio e della famiglia).
Come è noto, però, i dati della seconda edizione della ricerca VERA (ove VERA sta per Violence Emergence, Recognition and Awareness, in italiano “Emersione, riconoscimento e consapevolezza della violenza”), svolta qualche tempo fa dalla FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), denunciano una situazione allarmante relativamente alla condizione di violenza e abuso che ancora oggi vivono tante, troppe donne con disabilità. Violenza fisica, sessuale, ma anche psicologica, non certo meno pesante e traumatica delle prime due. Violenza che spesso non viene neppure riconosciuta da chi la subisce, perché letta e percepita come qualcos’altro o, anche quando riconosciuta, non denunciata, perché si teme di non essere credute o perché consce della propria posizione di inferiorità rispetto a chi perpetra la violenza stessa.
Di fronte a questi dati, come donna con disabilità non posso rimanere indifferente, non posso non indignarmi del fatto che spesso le vittime di violenza non vengono tutelate, difese da coloro che sarebbero deputati a farlo, perché, proprio a causa della loro disabilità, non vengono credute, né ritenute testimoni attendibili oppure non si è in grado di interagire in modo adeguato con loro. Alla violenza si aggiunge allora l’ingiustizia di non essere considerate uguali davanti alla legge, di non essere messe in grado di esercitare i propri diritti, di non vedersi riservata quell’attenzione che permetterebbe loro di comunicare il proprio disagio e sofferenza, oltre che denunciare e assicurare alla giustizia chi ha fatto loro del male. In questo senso sarebbe auspicabile una formazione e preparazione dei componenti le Forze dell’Ordine, non meno che del sistema giudiziario, perché acquisissero competenze, conoscenze e strumenti, per interagire con le persone con diversi tipi di disabilità, perché fossero in grado di comprendere e farsi comprendere, ma soprattutto per far sì che superassero i pregiudizi i quali spesso sono il vero ostacolo a che venga fatta giustizia.
Penso che sia questo uno dei compiti cui oggi, noi, donne con disabilità, siamo chiamate: fare in modo che veramente ogni donna, ogni persona sia considerata pari davanti alla legge, una parità, però, non di principio, che nessuno oggi più nega, ma nei fatti, nelle opportunità reali che vengono offerte, negli strumenti che vengono predisposti.
Non ci sono poi solo la violenza e l’abuso a porre la donna con disabilità in condizione di inferiorità rispetto all’uomo, e allo stesso uomo con disabilità: infatti, le opportunità di inserimento lavorativo che la donna con disabilità ha rispetto all’uomo sono molto inferiori, tanto da arrivare a parlare di discriminazione multipla subita dalla donna con disabilità, discriminata cioè in quanto donna e in quanto persona con disabilità.
Quello che, secondo me, merita una riflessione è che siamo noi stesse, donne con disabilità, le prime a non renderci conto di questa cosa e ad attribuire la causa delle discriminazioni subite unicamente alla disabilità. Io stessa ho sempre pensato «non trovo lavoro perché sono disabile». Vero, ma è una verità parziale, perché l’elemento di genere incide eccome! Rendersi conto di ciò non è una questione di lana caprina, significa aggiustare il tiro delle battaglie, delle rivendicazioni, dei ragionamenti che vengono fatti in merito alla disabilità.
Se ci pensiamo, tutto quello che è stato fatto o si è cercato di fare per le persone con disabilità – l’inserimento lavorativo, la vita indipendente, l’abitare ecc. – ha avuto come orizzonte e fine il miglioramento delle condizioni di vita della persona con disabilita, maschio o femmina che fosse. Se però ci accorgiamo che la questione di genere c’è, e i dati delle varie ricerche in merito ce lo confermano senza ombra di dubbio, allora diventa improrogabile porvi attenzione, fare delle politiche, dei ragionamenti, degli interventi mirati a sostegno di un’effettiva parità di opportunità per le donne con disabilità, opportunità di scelte riguardo alla propria vita, ma anche di inserimento nel mondo sociale e lavorativo.
È tuttavia importante che siano le stesse donne con disabilità, attraverso la partecipazione ad associazioni, organizzazioni che le rappresentino, a farsi portavoce di se stesse e dei propri diritti, perché non ci può più essere una delega ad altri, è il momento dell’impegno in prima persona.
E penso che mai come oggi, con le prospettive e le opportunità che si possono aprire grazie all’attuazione della Legge Delega in materia di disabilità [Legge 227/2021, N.d.R.] e agli interventi previsti dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, sia importante esserci, portare le istanze delle donne con disabilita ai tavoli di confronto e decisionali, non con spirito di rivalsa o rivendicazione, ma con la volontà di fare emergere quali siano i reali bisogni e le esigenze, dove si debba andare a lavorare per modificare l’esistente, trovando insieme le soluzioni più idonee a creare una società realmente inclusiva.
* Il presente testo è già stato pubblicato su Superando.it, il portale promosso dalla FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), e viene qui ripreso, con lievi adattamenti al diverso contesto, per gentile concessione.
Vedi anche:
Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “Donne con disabilità: quadro teorico di riferimento”.
Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “La violenza nei confronti delle donne con disabilità”.
Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “Donne con disabilità”.
Ultimo aggiornamento il 2 Marzo 2022 da Simona