Sono tanti i tratti di inconsapevolezza che si possono riscontrare occupandosi di violenza nei confronti delle persone con disabilità. C’è l’inconsapevolezza delle vittime, c’è quella della comunità, quella degli aggressori e quella delle organizzazioni operanti nel campo della disabilità. Il presente testo propone una riflessione su questo importantissimo aspetto.
Sono passati ormai diversi anni da quando si sono svolte le due edizioni dell’indagine VERA (Violence Emergence, Recognition and Awareness, in italiano “Emersione, riconoscimento e consapevolezza della violenza”), specificamente rivolta a donne con disabilità che hanno subìto violenza. La prima realizzata nel 2018-2019 dalla FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) assieme all’Associazione Differenza Donna, la seconda edizione, del 2020, interamente curata dalla Federazione. In mancanza di dati probabilistici aggiornati sul fenomeno – quelli prodotti dall’ISTAT con lo studio La violenza contro le donne dentro e fuori la famiglia. Anno 2014 sono decisamente datati –, l’indagine VERA ha avuto, tra gli altri, anche il merito di indurre – credo per la prima volta in Italia – molte donne e ragazze con diverse disabilità ad interrogarsi personalmente su questo tema. E sebbene le informazioni raccolte con questa ricerca non siano riferibili alla popolazione in generale, grazie ad esse è stato possibile mettere a fuoco meccanismi che prima non erano mai stati specificamente indagati. Dall’indagine è emerso, ad esempio, che delle 519 donne e ragazze con disabilità, che hanno preso parte alla prima edizione, il 65,3% (339 in valori assoluti) ha dichiarato di aver subito violenza in qualche forma, ma solo il 33% l’ha riconosciuta come tale. Nella seconda edizione i dati relativi a questo aspetto sono abbastanza simili: su un campione di 486 donne con disabilità, il 62.3% (303 in valori assoluti) ha dichiarato di aver subito una qualche forma di violenza, ma, anche in questo caso, solo il 35,4% l’ha identificata come tale. Nella sostanza ad una domanda iniziale circa il fatto di aver subito una qualche forma di violenza rispondeva affermativamente circa un terzo del campione, mentre andando a sommare le risposte alle singole domande volte ad indagare se queste donne avessero subito specifiche forme di violenza adeguatamente descritte, risultava che le risposte affermative erano quasi raddoppiate. Ne consegue che molto probabilmente una quota significativa delle donne che hanno partecipato alle due edizioni dell’indagine ha acquisito consapevolezza di aver subito delle violenze proprio grazie alle domande del questionario più specifiche e descrittive. Nominare la violenza l’ha resa identificabile. Ovviamente il problema di non saper riconoscere le diverse forme della violenza di genere è un fenomeno che riguarda le donne in generale, e tuttavia è molto probabile che le donne con disabilità vi siano particolarmente esposte perché le campagne informative su questi temi solitamente non sono mirate per questo target, né, ancor meno, sono prodotte in supporti e formati accessibili a chi ha esigenze comunicative specifiche e/o complesse. A ciò si aggiunga che le ragazze e le donne (e talvolta anche gli uomini) con disabilità sono esposte a forme peculiari di violenza che spesso non sono conosciute nemmeno da chi opera nella rete antiviolenza. Ad esempio, sono esposte al rischio di vedersi sospendere l’assistenza, di vedersi sottratti o danneggiati gli ausili per l’autonomia, di essere sottoposte ad interventi e trattamenti sanitari a cui non hanno prestato consenso (come aborti e sterilizzazioni forzati), di essere vittime di un uso improprio dei farmaci, ed altre forme ancora. Tutte condotte che, se non riconosciute come forme di violenza, potrebbero venire (e vengono) intese come comportamenti giustificati dalla presenza di una disabilità. Capita così, ad esempio, che in una trasmissione radiofonica, quando accenno al fatto che, qui in Toscana, una donna con disabilità psichiatrica istituzionalizzata abbia subito, su richiesta della sua tutrice e dietro autorizzazione della giudice tutelare, un intervento di interruzione di gravidanza a cui si era detta contraria, la giornalista – che ha specifiche competenze in tema di disabilità – osservi che probabilmente la giudice si è sostituita alla donna perché lei, avendo una disabilità intellettiva, non era in grado di decidere autonomamente. L’osservazione è interessante perché è bastata la semplice “etichetta” di “disabilità psichiatrica” per far ritenere ad una professionista della comunicazione che il diritto di una donna con disabilità a disporre liberamente del proprio corpo potesse essere disconosciuto, e, contemporaneamente, che esistano altri “soggetti più competenti di lei” (nel caso specifico la tutrice e la giudice) nel valutare quali siano i suoi desideri e il “suo bene”. La verità è che non esistono soggetti più competenti sulla vita della persona con disabilità della stessa persona con disabilità. La verità è anche che se la persona disabile ha difficoltà ad esprimersi è necessario sperimentare tutti i mezzi, i linguaggi e i supporti per metterla in condizione di farlo, e, in ogni caso, nella specifica vicenda, la donna con disabilità la sua volontà l’aveva espressa molto chiaramente anche per scritto, ma chi si trovava in una posizione di potere ha ritenuto di non ascoltare la sua voce e di potersi sostituire a lei. Quella giornalista, senza saperlo ed in perfetta buonafede, ha giustificato nei confronti di una donna con disabilità un trattamento che se fosse stato rivolto alla sua stessa persona avrebbe chiaramente riconosciuto come violento. Decidere delle gravidanze altrui è senza ombra di dubbio un atto violento, e la presenza di una disabilità non è un’attenuante, casomai è un’aggravante giacché la disabilità può ridurre la capacità di difesa della persona in questione.
C’è dunque un problema di consapevolezza delle stesse vittime con disabilità, ma anche dei/delle componenti della comunità che, ascoltando queste storie, pur avendo ben presenti alcune forme di violenza, hanno maturato il pregiudizio che alcune condotte violente troverebbero giustificazione nella presenza della disabilità. Cosa in evidente contrasto con la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, che tra i suoi princìpi fondanti ha proprio l’uguaglianza e la non discriminazione. Alla fine la regola sarebbe semplice: ciò che non accetteremmo per noi, non va bene neppure per le persone con disabilità.
Ma il tema della inconsapevolezza della violenza spesso può riguardare anche, purtroppo, la persona che la commette, che frequentemente non definisce sé stessa come violenta, e, se interrogata in merito, trova motivazioni deresponsabilizzanti. La riflessione sulla violenza, com’è facile intuire, è stata condotta in larga prevalenza dalle donne, le prime ad esserne bersaglio, e solo recentemente, da una quindicina d’anni a questa parte, si è iniziato a focalizzare che “comprendere le ragioni” della violenza, e dunque a prestare attenzione anche a chi la agisce, può essere utile per prevenirla o farla cessare. “Comprendere le ragioni” non vuol dire farle proprie, e neppure, sia ben chiaro, mettere sullo stesso piano vittima e carnefice, significa invece acquisire ulteriori elementi per contrastare la violenza in modo più efficace. Ci sono molte pubblicazioni che documentano questo lavoro: a questo link è possibile trovare un’utile bibliografia, mentre, a suo tempo, ho recensito l’opera prodotta da Nadia Muscialini e Mario De Maglie, In dialogo. Riflessioni a quattro mani sulla violenza domestica (Settenove, 2017), di cui si può leggere a quest’altro link.
Mi sembra che questi tratti di inconsapevolezza siano particolarmente marcati riguardo alle vicende di omicidio-suicidio attuati dai/dalle caregiver a danno di sé stessi e della persona con disabilità di cui si curano. Vicende alle quali, come centro Informare un’h, stiamo dedicando particolare attenzione, e che hanno portato all’elaborazione di una specifica proposta di regolamentazione delle comunicazioni pubbliche, proposta tuttora aperta alla sottoscrizione di chiunque ne condivida le finalità. Da una ricognizione dei casi di omicidio-suicidio avvenuti in Italia dal 2011 in poi emerge come non vi sia una disposizione a definire gli omicidi (tentati o riusciti) delle persone con disabilità come violenza arbitraria, ve ne è invece una a connotarli implicitamente come “gesti compassionevoli” anche quando, con ogni evidenza, la persona con disabilità non ha condiviso la scelta di morte. «Vediamo lo stesso schema ripetersi più e più volte. Un genitore uccide il figlio disabile. I media dipingono questi omicidi come giustificabili e inevitabili a causa del “peso” di avere una persona disabile in famiglia. Se il genitore viene processato, riceve compassione e condanne relativamente più leggere, ammesso che venga condannato. Le vittime vengono ignorate, incolpate del loro stesso omicidio per mano della persona di cui avrebbero dovuto potersi fidare di più, e alla fine dimenticate. E poi il ciclo si ripete», si legge nel sito del Disability Day of Mourning, la Giornata del lutto dedicata alla disabilità, un memoriale per le persone con disabilità uccise dai loro familiari, che si celebra 1° marzo di ogni anno. In Italia accade la stessa cosa, con l’aggiunta che alcuni/e caregiver utilizzano queste vicende per promuovere il riconoscimento del/la caregiver e l’introduzione di tutele concrete per questa figura, un aspetto per cui siamo stati richiamati anche dal Comitato ONU sui diritti delle persone con disabilità, ma che riproposto in questo frangente finisce con l’occultare il vero crimine: l’uccisione di una persona che non ha chiesto di morire e che ha ben poche possibilità di sfuggire al suo aggressore. Alcune organizzazioni operanti nel campo della disabilità si sono date la regola di non parlare di queste vicende perché ritengono che farlo esponga al rischio che vengano emulate. A livello personale – dopo essermi confrontata con molti e molte caregiver, altrettante persone con disabilità e diverse operatrici della rete antiviolenza –, ritengo che sia decisamente più rischioso non parlarne. Questo perché i media, giustamente, continueranno a rilanciare le notizie, e seguiteranno a farlo con lo schema illustrato nel sito del Disability Day of Mourning. Dunque non è vero che tacere equivale a prevenire, in questo caso tacere vuol dire perpetuare una modalità narrativa che non riconosce la violenza e la derubrica a “gesto compassionevole”. Ma, come la stessa indagine VERA ha ben dimostrato, nominare la violenza è il primo ed irrinunciabile passo per riconoscerla e prevenirla. Credo dunque che rispetto a questi temi ci sia un importante lavoro da fare proprio per accrescere la consapevolezza anche all’interno delle organizzazioni operanti nel campo della disabilità. E questo stesso testo è espressione di un impegno in tal senso.
Simona Lancioni
Responsabile di Informare un’h – Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa)
Vedi anche:
In memoria delle persone con disabilità uccise dai propri familiari, «Informare un’h», 18 marzo 2023.
Sito del Disability Day of Mourning, la Giornata del lutto dedicata alla disabilità.
Omicidi-suicidi: proposta di regolamentazione delle comunicazioni pubbliche, «Informare un’h», 20 febbraio 2023.
Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “La violenza nei confronti delle donne con disabilità”.
Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “Donne con disabilità”.
Data di creazione: 29 Marzo 2023
Ultimo aggiornamento il 30 Marzo 2023 da Simona