Espone Enrico Lombardi (direttore editoriale di DM, esponente del Movimento per la Vita Indipendente delle persone con disabilità toscano).
Spero che l’aria condizionata non mi faccia andar via la voce, ma come sentite siamo già sulla buona strada. Scherzo, era per mettere le mani avanti, così posso chiudere prima. Chiaramente: buongiorno a tutti, grazie per essere qui. Grazie a Simona, che ha organizzato questo evento, e alla UILDM di Pisa che è sempre molto attenta su questi argomenti. Ma direi grazie alla UILDM in generale perché è senz’altro una delle associazioni più attive sul tema della Vita Indipendente. A me è stato dato il compito di tracciare un po’ i confini della discussione. La locuzione Vita Indipendente ha una valenza suggestiva di cui ci si innamora facilmente, prima di tutto perché dà delle suggestioni positive: l’indipendenza, l’autonomia, la libertà. E’ anche rassicurante, un po’ come quei termini che vanno di moda in questi anni, il famoso, famigerato per me, diversamente abili. Ci si innamora facilmente di questi termini, specialmente da parte del mondo della politica. Perché faccio questa premessa? Perché spesso e volentieri si usa la locuzione Vita Indipendente anche in termini impropri. Dico impropri dal punto di vista… – possiamo dire – tecnico? Per lo meno dal punto di vista di quello che viene definito dal Movimento per la Vita Indipendente delle persone con disabilità, che ormai è un movimento mondiale.
Le prime tracce di Vita Indipendente possono essere ritrovate nel ’68. Un anno particolare, lo sapete bene, perché è un anno fatto di moti, movimenti. E non è un caso che si parli di Vita Indipendente delle persone con disabilità proprio in quel periodo, e proprio in un posto specifico, cioè l’Università di Berkley (in California) che è stata il luogo da cui è partito il movimento del ’68. Alcuni studenti universitari con disabilità, nell’ambito delle rivendicazioni generali studentesche cominciarono a rivendicare il diritto a non dormire – non essere confinati – nell’ospedale del campus universitario. Io a questo punto apro sempre una parentesi: parlo del ’68, parlo di studenti universitari, parlo di Stati Uniti. Ovviamente la situazione in Italia nel ’68 era totalmente differente. Erano rarissimi i casi di studenti universitari con disabilità, quindi figuriamoci tutto il resto. Ecco, anche questo ci deve fare riflettere sui ritardi del nostro approccio a certi temi. Comunque sia il movimento si è espanso soprattutto nel Nord Europa e un po’ a cascata si sta diffondendo nel resto del mondo occidentale e anche in Italia.
A questo punto occorre cercare di dare una definizione di Vita Indipendente. C’è chi la definisce una filosofia, chi parla di approccio culturale alla disabilità. Tutte espressioni che secondo me vanno bene. Ma, per far capire meglio cosa intendiamo, mi piace definire la Vita Indipendente come “la possibilità, da parte della persona con disabilità, di fare delle scelte”. Fare delle scelte indipendentemente dalla propria disabilità, dalla propria condizione fisica o psico-fisica. Ovviamente mi riferisco a scelte che possono sembrare banali ma sono essenziali alla vita quotidiana di tutti: alzarci dal letto all’ora che vogliamo, andare in bagno quando c’è la necessità, scegliere come vestirsi, cosa fare la sera, andare a letto all’orario che vogliamo. Insomma le scelte che ogni persona fa quotidianamente magari senza neanche pensarci. Oppure anche le scelte a cui diamo un peso maggiore nella nostra vita, come scegliere quali studi e quale professione intraprendere, o scelte di vita come andare a vivere in un’abitazione diversa da quella della famiglia originaria. E, perché no, crearsi un proprio nucleo familiare. E queste scelte che ogni persona fa – secondo la filosofia della Vita Indipendente – non devono essere condizionate – o comunque essere condizionate il meno possibile – dalla disabilità, anche davanti a disabilità, come dire, importanti, gravi, che limitano in modo severo l’autonomia della persona. E qui bisogna sgomberare il campo da equivoci e distinguere subito tra autonomia della persona e Vita Indipendente (indipendenza) della persona. Per autonomia io intendo il “poter fare delle cose da soli”, magari con ausili, con accorgimenti, ecc. Per indipendenza io intendo “fare delle cose” punto! Perché faccio questa distinzione? Perché è chiaro che davanti a una disabilità grave come… prendo il mio caso personale: io ho bisogno praticamente di tutto, per tutto quello che mi riguarda ho bisogno di ausilio, di aiuto. Per me non potrà mai esserci un ausilio tecnologico, o informatico che potrà assicurarmi una completa autonomia. Questo è poco ma sicuro a meno che non si inventeranno, che ne so, gli abiti che si indossano da soli, si inventerà il teletrasporto – io lo aspetto sempre – per potersi spostare da un luogo all’altro, il robot che ti aiuta ad andare in bagno… tutte cose che la tecnologia difficilmente, o mai, potrà garantirci. Dunque io non potrò mai essere autonomo nel senso definito prima. Però potrò essere indipendente. E qui sta l’innovazione – che poi magari si tratta della scoperta dell’acqua calda – della filosofia della Vita Indipendente: l’assistenza personale. Quindi garantire alla persona con disabilità una presenza – possibilmente continua – di assistenti personali. E’ questa la chiave – non l’unica ovviamente – ma, diciamo, la chiave di volta per capire cosa è la Vita Indipendente: “la possibilità di riuscire a fare cose, quindi a fare scelte, al di là della propria disabilità grazie proprio all’intervento dell’assistente personale”.
A questo punto uno potrebbe chiedere, “perché l’assistente personale?” Perché noi insistiamo molto su questa definizione? Perché i fatti dimostrano che solo con l’assistenza personale si riesce ad avere veramente una Vita Indipendente. Prendo il mio caso: fino a quattro anni fa io ho comunque fatto una vita piena, lavoravo, ho studiato, mi sono laureato, ho viaggiato, ecc. ma sempre con l’ausilio di familiari – prima di tutto -, poi di amici, poi della mia compagna. C’era sempre una figura accanto. Il salto di qualità però è avvenuto nel momento in cui la figura dell’assistente personale si è affiancata anche alle altre, perché non è che – qui lo diciamo subito – con il contributo che io ho ricevuto finora dalla Regione Toscana ho potuto sostituire tutte le altre figure che mi danno indipendenza. Però con la figura dell’assistente personale cambia qualcosa. Cosa cambia? Cambia che il rapporto tra me e l’assistente personale non è più un rapporto legato da amicizia, da affetto, da sentimenti, ecc. ma è un rapporto di lavoro. Questo non significa – mi sarebbe piaciuto dirlo all’assessore, lo dirò intanto al sindaco – non significa affatto monetizzare l’handicap, che è una delle obbiezioni che ci vengono opposte quando parliamo di assistenza personale. Significa invece dare un servizio in un’ottica diversa, significa che esso è basato sulle proprie esigenze proprio perché il rapporto è un rapporto di lavoro. Un rapporto diretto, non mediato da altri enti. E’ la persona con disabilità che ricevendo un contributo ne dispone finalizzandolo all’assunzione di assistenti personali. Non che con il contributo pensa poi di andare a fare chi sa cosa.
Il contributo è finalizzato all’assunzione di uno o – si spera – più assistenti personali. E questo rende il rapporto innanzitutto diretto, lo rende flessibile, perché è chiaro che essendo un servizio basato sulle esigenze della persona con disabilità, quest’ultima ha la possibilità di modellarlo su queste sue esigenze. Esigenze che possono cambiare da un giorno all’altro: perché, come dicevo prima, è il diritto di scegliere, ad esempio, a che ora andare a dormire e a che ora alzarmi. Non è detto che tutti i giorni uno voglia fare le stesse cose, o abbia necessità di fare le stesse cose. Quindi c’è una maggiore flessibilità anche se, ovviamente, nella correttezza del rapporto, che è un rapporto di lavoro, ma che poi inevitabilmente diventa anche un rapporto tra persone. Questo io l’ho sempre sostenuto. Magari i puristi della Vita Indipendente lo vedono come un rapporto di lavoro nudo e crudo. Però, come dico sempre quando faccio i miei interventi, io faccio amicizia anche col macellaio quando vado a comprare qualcosa. Quindi, ecco, è chiaro che c’è un rapporto tra persone e comunque ci deve essere un rispetto reciproco. Però il fatto di avere un rapporto di lavoro, e dunque di non avere un rapporto che si basa sull’amicizia, sui sentimenti (come nel caso del rapporto genitore/figlio), rende tutto molto meno “pesante”. Questo perché non c’è nessun tipo di ricatto morale, né da una parte, né dall’altra. E’ un rapporto di lavoro che si può interrompere. Non è come il rapporto genitore/figlio che non si può interrompere mai. E così pure il rapporto di amicizia nel quale ci sono dei vincoli, diciamo di tipo morale, che rendono tutto molto più complesso, molto più… io utilizzerei il termine “pesante”.
Ci sarebbe da chiedersi come mai c’è questa difficoltà nel far passare questo concetto che secondo me è un concetto talmente semplice da sembrare banale. Qual è il problema? Si parla di costi maggiori. Ovviamente il costo maggiore è riferito all’ente pubblico che dà il finanziamento. Costo maggiore però rispetto a cosa? Rispetto a un ricovero in una cosiddetta RSA [residenza sanitaria assistita, N.d.R.], o in una casa famiglia? Non so se voi sapete quali sono le cifre che sono in ballo in queste situazioni, ma si parla di due, tre, quattrocento euro al giorno… insomma, con tre, quattrocento euro al giorno altro che Vita Indipendente! Oppure si intende il costo della cosiddetta assistenza domiciliare “tradizionale”? Cioè quella che generalmente viene erogata con servizi in convezione con le cooperative… – per l’amor di Dio, niente contro gli operatori di cooperative, o contro le cooperative stesse, tra l’altro io sono presidente di una cooperativa sociale di tipo B, che si occupa di inserimento lavorativo di persone con disabilità, ma ho spesso e volentieri a che fare con quelle che erogano i servizi, ecco – però è chiaro che comunque ci sono dei costi, e che questi costi li conosciamo. Ad esempio dalle mie parti si parla di 20 euro orari che l’ente pubblico (i Comuni, le Aziende USL, dipende da zona a zona) paga. Io vi posso dire che il mio assistente personale ha un costo orario inferiore a queste cifre. Certo, il costo inferiore per l’ente pubblico è quello magari di far sì che i genitori, gli amici, i volontari continuino a prestare la loro opera. Ovviamente questo è possibile fino a un certo punto perché ormai, fortunatamente, le persone con disabilità hanno una vita media più lunga rispetto al passato. Si parla spesso di invecchiamento della popolazione perché ovviamente è un’emergenza, però forse sarebbe anche il caso di iniziare a pensare che i disabili crescono, diventano grandi, diventano grassi/grossi (nel mio caso) e i genitori purtroppo invecchiano e non riescono più a garantire certe cose, anche con tutta la buona volontà. E quindi qual è l’alternativa a questo punto? L’alternativa sarebbero dunque le RSA o le case famiglia che hanno comunque un costo ben maggiore. Senza contare poi che la persona con disabilità messa in condizione di essere indipendente può comunque diventare anche un contribuente, nel senso che può intraprendere un’attività lavorativa, e quindi diventare un cittadino attivo ed essere produttivo per tutta la comunità. Quindi io direi che bisognerebbe andarci cauti quando si dice “sì, ma la Vita Indipendente costa tanto.”
Ci sono senz’altro dei punti che io non ho toccato. Però mi piaceva puntualizzare che quando si parla di Vita Indipendente noi persone con disabilità abbiamo in mente qualcosa di ben preciso. Questo lo dico anche ad uso e consumo di chi magari tra noi, persone con disabilità, ne sente parlare per la prima volta o ne ha sentito parlare vagamente. Spero quindi di essere riuscito a far capire cosa si intende per Vita Indipendente e cosa sia l’assistenza personale. E’ chiaro che sino a che non si vive sulla propria persona, difficilmente ci si rende conto di come cambia la vita quando si usufruisce di questo tipo di servizio. Lo dico per esperienza personale e per aver avuto un confronto con tante altre persone in Italia che hanno iniziato a far Vita Indipendente. Per me anche il confronto con esperienze a livello europeo ha avuto un impatto molto molto forte. Vedere persone con disabilità simile, se non anche più grave della mia, avere la possibilità di vivere una Vita Indipendente.
Devo dire un’ultima cosa: che quando si parla di Vita Indipendente non necessariamente si parla di andare a vivere per conto proprio. Questo è uno dei luoghi comuni che secondo me va sfatato. Per andare a vivere per conto proprio intendo andare a vivere al di fuori della casa dei genitori. Anche questa è una delle argomentazioni che viene utilizzata per scoraggiare le richieste di Vita Indipendente. La Vita Indipendente si può esplicitare in tanti modi, basta che sia garantita l’assistenza personale. Questo è il fulcro, poi dove uno vive sono scelte della persona. Siamo il Paese dei bamboccioni, che stanno a casa sino a trenta-quarant’anni, perché una persona con disabilità dovrebbe andar via prima?
La Toscana è stata la prima Regione a parlare di Vita Indipendente in una sua Legge [si tratta della Legge Regionale Toscana 72/1997, ora sostituita dalla Legge Regionale Toscana 41/2005, N.d.R.] , ma vorrei dire anche che la Toscana ha messo la Vita Indipendente delle persone con disabilità nel proprio Statuto regionale. Ecco perché troviamo la Vita Indipendente anche nella Legge regionale 66/2008 (in tema di non autosufficienza). E’ chiaro che a questi concetti, a questi principi poi bisogna dare… va beh, fa un po’ ridere parlare di dare le gambe, però bisogna dare seguito. Io non ho la pretesa di dire che questo tipo di servizio vada bene per tutte le disabilità, per tutte le persone. Si parla di scelta: questo vuol dire che è la persona con disabilità che deve scegliere come le deve essere erogato il servizio. E’ chiaro che questa scelta però deve essere garantita. Non è che se io scelgo l’assistenza tradizionale si spende una cifra, mentre se scelgo l’assistenza personale autogestita (o indiretta) mi viene data una cifra minore: in questo caso il diritto di scelta non ci sarebbe, capite bene. Però, visto che la Toscana è stata così virtuosa sino ad adesso, l’auspicio è che continui ad esserlo, che non interrompa il cammino che ha intrapreso già nel ’97, o meglio, forse è il caso di dire che riprenda a camminare sulla strada che garantisce la Vita Indipendente delle persone con disabilità.
Elisabetta Gasparini
Grazie ad Enrico. Io aggiungo soltanto una piccola cosa e mi rivolgo al Sindaco. Noi abbiamo visto, e così presento anche Ida che viene da Como, che la Vita Indipendente e l’assistenza autogestita si sviluppano, vengono conosciute e maturano soprattutto nei territori in cui ci sono delle persone con disabilità o delle associazioni che sono pronte. E’ fondamentale questo. A lei (il sindaco di Peccioli) chiedo se ci dà qualche suggerimento su come divulgare questa conoscenza tra i suoi colleghi. Da noi gli enti gestori sono le aziende sanitarie e operano con le conferenze dei sindaci. Facciamo tantissima fatica a portare avanti le nostre istanze a tutti i livelli. I referenti cambiano spesso, ne arrivano di nuovi, e questi di solito non hanno mai sentito niente in proposito e tutto ricomincia da capo. Si fanno delibere che fanno un passo avanti e due indietro. Noi siamo pochi ed operiamo molto faticosamente (anche fisicamente). Abbiamo veramente bisogno di mettere in moto questa macchina in un modo molto più esteso. Approfitto di questo argomento per presentarvi Ida Sala, che viene da Como, che è stata una delle prime persone in Italia ad essere interlocutore con le proprie istituzioni. A te la parola Ida.
Fonte: Atti del seminario “Volere volare. Vita Indipendente delle persone con disabilità” (Peccioli, 27 giugno 2009), contenuti nel volume “Volere volare. Vita indipendente delle persone con disabilità”, a cura di Simona Lancioni, Peccioli, Informare un’h, 2012.
Torna all’indice del volume “Volere volare“.
Ultimo aggiornamento il 24 Aprile 2013 da Simona