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Comunicare la disabilità: la sostanza e le parole giuste

di Stefania Delendati*

«Le parole disegnano il futuro soltanto quando non si fermano ad un aggiornamento linguistico, seppur necessario, che però da solo non può incidere nella percezione della disabilità», osserva Stefania Delendati, Direttrice responsabile di «Superando», in quest’ampia riflessione su come comunicare in modo corretto in materia di disabilità. «Più parole giuste, dunque, ma anche più attenzione alla sostanza e maggiore partecipazione dei diretti interessati anche in ambito giornalistico», è l’indicazione conseguente.

Una realizzazione grafica creata con tante parole relative all’area della disabilità.

Non è facile per giornalisti e giornaliste parlare di disabilità. Non è facile neppure per giornalisti e giornaliste con disabilità. Anzi, può essere ancora più complicato, perché entra in gioco il vissuto personale e non sempre c’è quel “distacco” dalla notizia che si impone nel racconto di vicende spesso delicate. Chi fa questo mestiere si dice debba attenersi ai fatti, non mostrare il suo punto di vista ma aiutare chi legge o ascolta a farsi un’idea propria, senza influenzarla. Diciamo la verità, è impossibile. Nessuno che abbia o meno una disabilità può riuscire nell’impresa di spiegare senza lasciar trasparire il suo pensiero, l’opinione che ha maturato, derivazioni di retaggi culturali, esperienze dirette di vita, sfide e traumi compresi. Lo facciamo anche inconsapevolmente, siamo esseri umani nel bene e nel male, qualcosa di noi tra le righe si legge sempre. Credo non sia immune neanche l’intelligenza artificiale che, si dice, un giorno ci “ruberà” il lavoro, perché altro non è che il risultato di fonti scritte da uomini e donne in carne e ossa, rimescolate e riassunte.
Quando ho iniziato a collaborare per le testate giornalistiche, era il 1995, sulla carta stampata ero una “portatrice di handicap”, “handicappata” a volte, io stessa parlando di me e dei miei “simili” usavo questa terminologia che oggi mi fa saltare sulla sedia a rotelle. Ora si dice “persona con disabilità”, bisogna sempre giustamente anteporre la persona. La preposizione “con” non sottrae, non è indice di una carenza ma aggiunge una caratteristica che rende ogni individuo unico. Voglio spezzare una lancia a favore della categoria giornalistica, penso che tanti abbiano usato e (purtroppo) ancora usino “portatore di handicap” in buona fede, mettendo al centro l’individuo anche se identificandolo in questo modo sbagliato. È altrettanto vero che oggi non sempre “persona con disabilità” viene utilizzato all’interno di discorsi inclusivi nella sostanza, di fatto a volte rimane un esercizio linguistico, una locuzione corretta che non riesce ad andare oltre. La discriminazione, il pregiudizio, lo stigma si possono intravedere anche quando le parole sono quelle giuste. E può essere vero il contrario. Desidero farvi partecipi di un piccolo ma significativo episodio che mi ha fatto riflettere. Ho visto on-line il documentario Con le nostre mani sulla storia di una coppia di persone con disabilità di età avanzata del sud della Sardegna (a questo link è disponibile il trailer e qui il documentario completo). Anna Maria Loi e Giovanni Cossu raccontavano le difficoltà della loro esistenza in un mondo che li respingeva, vedendoli come qualcosa da nascondere, la lotta per vedersi riconosciuti persone degne di rispetto, il bisogno di indipendenza, la ribellione e la volontà di riscatto sociale giudicate inopportune, infine la quotidianità di coppia che è diventata una famiglia con la nascita del figlio Emanuel, regista del documentario. Mi ha colpito la modernità del loro sguardo, la loro ironia anche, contrapposte ad un linguaggio d’altri tempi, il linguaggio con cui erano cresciuti e che comprendeva quei termini che oggi abbiamo cancellato dal lessico sulla disabilità. Una modernità che in alcuni casi non leggo in discorsi professionali che sì utilizzano le parole corrette, ma non contengono l’onestà, l’assenza di pietismo, il coraggio e la necessità di superare gli stereotipi, mancano insomma di tutto ciò che dovrebbe essere il cuore della corretta comunicazione sulla disabilità.

Anna Maria Loi e Giovanni Cossu, i protagonisti del documentario “Con le nostre mani” di Emanuel Cossu.

Non voglio essere fraintesa, le parole sono il mezzo con cui si esprimono le idee, la lente attraverso cui osserviamo il mondo, sono loro che cambiano il modo di pensare e lo fanno modificandosi nel tempo, seguendo la mutata sensibilità sociale. Quando si è iniziato a parlare di “handicap” è stato un passo avanti rispetto all’“invalidità”, adesso sono entrambe accezioni sorpassate anche a livello normativo perché sviliscono la persona. In base al Decreto Legislativo 62/2024, attuativo della Legge Delega sulla disabilità [Legge 227/2021, N.d.R.], infatti, la parola “handicap” viene ovunque, nelle normative e nei documenti ufficiali, sostituita dalle parole “condizione di disabilità”, mentre le parole “persona handicappata”, “portatore di handicap”, “persona affetta da disabilità”, “disabile” e “diversamente abile”, ovunque ricorrono, sono sostituite da “persona con disabilità”.
È sacrosanto che chi fa informazione senta la responsabilità di usare un linguaggio che dia una giusta percezione della realtà esistenziale delle persone con disabilità. Siamo noi a dare origine alla rappresentazione offerta all’opinione pubblica, siamo noi, operatori e operatrici del mondo dell’informazione, a contribuire al cambiamento dello sguardo della società su quella fascia di popolazione che ancora viene troppo spesso emarginata perché non “conforme” al mito dell’efficienza che caratterizza l’attuale cultura. Le parole sono importanti, fondamentali, hanno un peso che si fa sentire nel tempo, la scelta di quelle giuste richiede attenzione e male si concilia con la comunicazione moderna, veloce, mordi e fuggi, che naviga in rete in un lampo e vince chi trova la coloritura ad effetto, il termine che cattura l’attenzione e spinge chi sta davanti ad uno schermo a cliccare su quella notizia e non su un’altra.

Parlando di disabilità ci sono filoni collaudati: il già citato pietismo, il presunto eroismo di chi vive una condizione di disabilità, il sensazionalismo nei casi di cronaca, le barriere architettoniche utilizzate come se fossero l’unico problema di cui parlare, lasciando indietro assistenza, vita indipendente, servizi sociosanitari, lavoro, scuola eccetera. «Parliamo di barriere architettoniche, ce la caviamo con poco e passiamo oltre……», mi pare, soprattutto guardando alcuni servizi nei telegiornali, che la prassi delle redazioni generaliste sia a volte questa. Può forse essere d’aiuto in questi servizi dire “persone con disabilità” se poi il discorso rimane recluso dentro i soliti luoghi comuni? No, non è sufficiente dire “persone con disabilità”, non basta il “politicamente corretto” per offrire a chi ascolta una visione ampia e reale.

Si possono alimentare opinioni distorte perfino quando si parla di scoperte scientifiche. L’esempio è recente: l’avanzamento delle cure per le persone con lesione midollare, salutato come un evento epocale e miracoloso. Questi toni entusiastici che descrivono un seppur importante progresso come fosse la panacea di tutti i mali, non accompagnati da pareri medici, non soltanto inducono a credere che ogni persona che non cammina tornerà a muoversi sulle sue gambe, ma rischiano di generare in uomini e donne con disabilità false aspettative in terapie ancora in fase sperimentale che richiederanno anni prima di essere a disposizione.

È facile trarre conclusioni affrettate e sbagliate se la notizia non viene spiegata con cura, responsabilità, rigore, onestà, verità, consapevolezza e chiarezza. L’ha affermato sulla testata «Superando» anche Vincenzo Falabella, presidente della FISH (Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie): «Il ruolo dei media è cruciale: serve cioè un giornalismo scientifico capace di spiegare la complessità senza banalizzarla, di raccontare le speranze senza trasformarle in illusioni, di mantenere viva l’attenzione su una tematica che merita un dibattito serio e continuativo, non solo qualche titolo a caratteri cubitali in occasione dell’ultima pubblicazione» [se ne legga a questo link, N.d.R.]. Questa, aggiungo, è una raccomandazione che riguarda tutto il giornalismo, non soltanto quello scientifico.

Raramente si interpellano i diretti interessati, allora sì che si potrebbe avere una panoramica più chiara, abbattere qualche muro con la forza della realtà raccontata da chi la vive, anche se usa termini obsoleti come nel documentario di Anna Maria e Giovanni. Lì la differenza l’ha fatta questa coppia perché si è lasciata alla loro testimonianza diretta il compito di spiegare. Anteporre le persone significa questo, ascoltarle è la premessa imprescindibile. Lo dice già nel titolo la guida Comunicare la disabilità. Prima la persona, pubblicata nel 2024 dal Coordinamento per le pari opportunità dell’Ordine dei Giornalisti e scritta, tra gli altri, dal nostro Antonio Giuseppe Malafarina [Malafarina ha ricoperto l’incarico di Direttore responsabile della testata «Superando» prima di Delendati; la guida è liberamente scaricabile a questo link, N.d.R.]. Tutti i giornalisti e le giornaliste dovrebbero tenerla a portata di mano, leggerla per rileggere i fatti sotto una luce nuova, consultarla ogni volta che devono/dobbiamo scrivere di disabilità. Io l’ho letta e mi ha svelato particolari che non avevo mai considerato, soprattutto per quanto riguarda l’informazione riguardante l’autismo e la salute mentale, argomenti che, se possibile, richiedono una perizia ulteriore. Mi sono convinta ancora di più che avere una disabilità non equivale a saperne parlare senza incorrere in errori, se posso scrivere di disabilità motorie (non tutte) con una certa sicurezza perché questo è quello che vivo, non posso avere altrettante certezze riguardo altri tipi di disabilità.

Di recente è uscito un nuovo interessante documento, Vademecum – Informare sulla Salute Mentale [esso è liberamente fruibile/scaricabile a questo link, N.d.R.], strumento operativo per trattare questo tema in modo adeguato, nato da un’idea di Rai per la Sostenibilità ESG, sostenuto e condiviso dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e dall’ASL Roma 2. Ricalca lo schema della guida Comunicare la disabilità. Prima la persona, come questa presenta osservazioni basate sui dati, la storia, la giurisprudenza, gli aspetti clinici e sociali. Anch’essa sottolinea che l’approccio di riferimento deve essere il modello bio-psicosociale della disabilità delineato, nel 2001, dall’Organizzazione Mondiale della Sanità attraverso l’ICF, la Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute che la Convenzione Onu sui Diritti delle Persone con Disabilità ha fatto proprio nel 2006, spiegando chiaramente che «la disabilità è il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali e ambientali che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri». Non una condizione discriminante di per sé, dunque, ma che la diventa quando si frappongono ostacoli ad una effettiva inclusione.

Nel vademecum non ci sono testimonianze dirette di persone con disturbi mentali, di come vorrebbero essere raccontate. Mi sarebbe piaciuto leggerle per conoscere, da persona e da giornalista, il loro punto di vista.

Per concludere, impegniamoci a scrivere le definizioni corrette che queste utili guide ci insegnano e usiamole per dipingere una tela inclusiva, considerando che le parole disegnano il futuro soltanto quando non si fermano ad un aggiornamento linguistico, seppur necessario, che però da solo non può incidere nella percezione della disabilità. Più parole giuste, dunque, ma anche più attenzione alla sostanza e maggiore partecipazione dei diretti interessati anche in ambito giornalistico. E noi, giornalisti e giornaliste con disabilità, non riteniamoci esperti in materia soltanto perché, come è naturale che sia, alcune questioni le “mastichiamo” sulla nostra pelle ogni giorno. Ho imparato tanto da Anna Maria Loi e Giovanni Cossu che pure avevano meno strumenti di me e di tanti altri per raccontare senza retorica e con amore per la verità.

 

* Giornalista e Direttrice responsabile di «Superando»

 

Vedi anche:

Un Vademecum per informare (correttamente?) sulla salute mentale, «Informare un’h», 24 maggio 2025.

“Oltre le parole”, un vademecum per raccontare la violenza contro le donne che non considera la disabilità, «Informare un’h», 20 marzo 2025.

È ora disponibile “Comunicare la disabilità. Prima la persona”, la guida dell’Ordine dei Giornalisti, «Informare un’h», 24 febbraio 2024.

Tanti gli elementi apprezzabili del documentario “Con le nostre mani”, «Informare un’h», 6 aprile 2022.

 

Ultimo aggiornamento il 7 Giugno 2025 da Simona