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Anna Maria, Giovanni e la lezione di inclusione in una vita tutta costruita “con le loro mani”

di Stefania Delendati*

Hanno costruito tutto con le loro mani, Anna Maria Loi e Giovanni Cossu: l’indipendenza, una famiglia serena, una vita fatta di valori autentici. Per questo “Con le nostre mani” è certamente il titolo più che mai adatto che il regista Emanuel Cossu ha scelto per il documentario nel quale racconta la storia dei suoi genitori, un uomo e una donna del Sud della Sardegna, entrambi con disabilità fin da bambini a causa della poliomielite.

Anna Maria Loi e Giovanni Cossu durante una scena di “Con le nostre mani”.

Hanno costruito tutto con le loro mani, Anna Maria Loi e Giovanni Cossu. L’indipendenza, una famiglia serena, una vita fatta di valori autentici. Per questo Con le nostre mani è il titolo più che mai adatto che il regista Emanuel Cossu ha scelto per il documentario nel quale racconta la storia dei suoi genitori, un uomo e una donna del Sud della Sardegna, entrambi con disabilità fin da bambini a causa della poliomielite (a questo link è possibile vederlo).
Anna Maria e Giovanni, rispettivamente classe 1953 e 1944, hanno conosciuto l’esclusione sociale, quella pesante che ti impedisce di andare a scuola, perfino di uscire di casa perché la gente non accetta di vederti, tanto che anche la famiglia può decidere di rinchiuderti in un istituto “per la vergogna”.
Con le nostre mani offre uno squarcio su questo passato, ma è soprattutto uno sguardo sincero, determinato, realistico e per nulla pietistico, a tratti vivace e ironico, di due vite che si sono incontrate e riconosciute, conquistando la “normalità” un pezzetto alla volta, battendosi per superare le barriere culturali e sociali. Una scalata faticosa evocata dal crescendo incalzante della colonna sonora, il Bolero di Ravel, altra scelta azzeccata insieme al titolo per farci entrare nella quotidianità della coppia.

Mi sono domandata quale possa essere il punto di vista del figlio Emanuel, un giovane uomo cresciuto in una famiglia da molti considerata “particolare” per via della disabilità dei genitori, e perché abbia deciso di raccontare la loro vita. L’idea gli è venuta a Barcellona dove, dopo la laurea in Lettere Moderne all’Università di Cagliari, si era trasferito per studiare regia cinematografica alla scuola Bande à Part. Parlò con alcuni amici della sua famiglia e fu uno di loro a fargli notare quanto quella storia avesse dei connotati straordinari, lui non ci aveva mai fatto caso, per lui era tutto normale. «La mia è stata una infanzia ricca di incontri e di esperienze – spiega con quella spontaneità che mi ricorda tanto sua mamma e suo papà come li ho visti e conosciuti nel documentario -. I miei genitori venivano dall’esperienza di una comunità dove convivevano e lavoravano persone con disabilità, obiettori di coscienza e volontari, quando sono nato io e siamo andati a vivere in quella che è ancora la nostra casa, siamo sempre stati circondati da tanti amici e tante persone, molte delle quali provenivano da quella stessa esperienza. Ricordo le grandi tavolate sia a casa nostra che a casa di amici».
Anna Maria e Giovanni sono figli di un’epoca in cui la polio mieteva vittime, Giovanni ricorda che nel suo rione molti bambini morirono e i sopravvissuti vennero condotti in istituto. Ci provarono anche con lui, le suore cercavano di «farlo innamorare di loro con le caramelle», rammenta con scherzosa amarezza mentre cuce a macchina; dicevano che il Cottolengo di Bosa (Oristano) era un luogo dove si mangiava bene. Le lusinghe convinsero i genitori a lasciarglielo, ma lui si oppose con la forza della disperazione, rifiutando sempre sia le caramelle che il ricovero.
Andò diversamente ad Anna Maria, lei in istituto fu costretta ad andarci, aveva quasi 12 anni e non era mai andata a scuola, «e non perché, come molta gente insinua, fossi somara, no, questo lo voglio ribadire, ero intelligentissima, solo che a scuola non mi hanno voluto», puntualizza seduta al tavolo in cucina, dandoci uno spaccato della società respingente contro cui lei e il marito già da piccoli dovettero lottare.

In ogni loro parola, in ogni gesto sempre privo di retorica, lucido, sono evidenti i temi portanti di Con le nostre mani, ovvero la consapevolezza del proprio valore, la fatica di farlo valere e di ritagliarsi uno spazio di vita senza piegarsi all’assistenzialismo. «Mio padre e mia madre hanno avuto esperienze molto diverse da piccoli, ma entrambe caratterizzate dalla privazione della possibilità di studiare», riflette Emanuel, che con la telecamera ha immortalato i suoi, mentre, impegnati nelle attività casalinghe quotidiane, ripercorrono quei giorni lontani, mai dimenticati. «Mia madre ha potuto iniziare a studiare quando era grandicella, in un istituto di suore in Toscana dove è stata operata alla schiena e dove purtroppo ha subito numerosi abusi psicologici e fisici da parte di chi si suppone dovesse aiutarla e supportarla. Mio padre ha trascorso l’infanzia nel suo paese, riuscendo a studiare solo quando ha avuto modo di lavorare e fare valere i propri diritti. Prima anche a lui è stata negata la possibilità di studiare all’età giusta, per le stesse motivazioni che lo hanno impedito a mia madre: spaventavano gli altri bambini, potevano essere contagiosi e, in ultimo, si pensava che, essendo disabili, dovessero avere per forza un ritardo cognitivo per cui era inutile che studiassero. Insomma, una forte ignoranza da parte delle istituzioni scolastiche che dovevano garantire loro una formazione».

Emanuel Cossu durante la lavorazione del documentario “Con le nostre mani”.

Il buio di questa infanzia avrebbe potuto farli ripiegare in loro stessi, incattivirli, invece la loro forza di volontà ha trasformato la sofferenza in speranza, in una vita che nel figlio ha lasciato ricordi di grande felicità: «Mio padre quando ero piccolo aveva una motoretta a tre ruote, con un sedile dietro per un passeggero, e in quel sedile salivamo in due o tre bambini, ci portava un po’ in giro e poi tutti a casa. Non mi è mancato niente, anche se non avevamo molto. Non sono mai stati apprensivi, potevo uscire e andare a casa dei miei amici e loro venire a casa mia, giocare a pallone per strada senza che loro dovessero controllarci (non c’erano nemmeno i telefonini allora, sono nato nel 1984)».
Nel documentario si parla anche dei viaggi che facevate insieme… «Sì, mio padre aveva la patente e guidava un’automobile con i comandi a mano e non appena avevamo occasione, si saliva tutti sull’auto per fare dei viaggi per la Sardegna per andare a trovare amici e parenti. Oppure quando c’erano belle giornate, si organizzavano “escursioni” fuori porta, invitando qualche mio amico. Un paio di panini e un po’ di etti di mortadella e si andava a fare un picnic in qualche parco o pineta. Prima che nascessi io e quando erano un po’ più giovani e liberi, i miei genitori hanno viaggiato anche fuori dall’isola, sia in automobile che con mezzi pubblici».
Quando eri bambino i tuoi compagni di gioco facevano domande “scomode”, sapendo che i tuoi genitori avevano una disabilità? «In realtà le domande dei bambini erano più incentrate sul “come mai” fossero in sedia a rotelle o si muovessero con stampella e bastoni, immaginandosi qualche brutto incidente stradale. Una volta che gli si diceva che era stata una malattia a impedirgli di muoversi liberamente, e che erano in quella situazione da quando erano più piccoli dei bambini che avevano fatto la domanda o l’osservazione, l’attenzione si spostava sugli “strumenti” che permettevano loro di muoversi abbastanza liberamente. Rimanevano affascinati dall’acceleratore e dal freno dell’auto di mio padre, che erano posizionati sul volante rendendolo molto particolare, oppure volevano provare la sedia a rotelle e i bastoni».

L’atteggiamento della coppia ha sempre fatto la differenza, è stato il martello che ha abbattuto i muri dello stigma, unito all’innata simpatia di entrambi, al modo intelligente di ironizzare anche sulle difficoltà, alla complicità collaudata tipica di una moglie e un marito che insieme hanno trascorso molti anni. «Sì padrona», risponde sorridente Giovanni, quando Anna Maria, ottima cuoca, lo “rimprovera” per come taglia le melanzane. «Che ti ho sposato a fare? Credevi di comandare tu?!», gli fa di rimando lei. È soltanto una delle tante scene di condivisione di Con le nostre mani che Emanuel riprende con delicatezza; il linguaggio narrativo restituisce tutta la dignità e l’orgoglio di una coppia che ripercorre ciò che ha vissuto e affrontato, senza mai piangersi addosso.
Le tematiche sociali toccate nella pellicola sono attuali, come fa notare il regista: «Credo che dal documentario emergano temi importanti come il dover avere uguali possibilità di studiare e formarsi, e soprattutto una rivendicazione di esser messi in condizione di potersi esprimere come persone e dunque come famiglia liberamente. Questo può accadere solo se l’Altro si sforza di vedere e ascoltare ciò che una persona può dare. Paradossalmente lo sguardo del bambino che, sentita quale è la causa della disabilità, passa oltre e si concentra sugli strumenti di cui mio padre e mia madre avevano bisogno per muoversi, guidare e vivere tutto sommato normalmente, mi pare quello da prendere come esempio».

Per i protagonisti di questa storia, “galeotta” fu la Comunità di Sestu (Cagliari) di cui Giovanni è stato uno dei fondatori, un’oasi di emancipazione ispirata alla nota Comunità di Capodarco, nelle Marche, che negli Anni Settanta era un punto di riferimento per le persone con disabilità che volevano imparare a gestirsi autonomamente e sfuggire all’istituzionalizzazione. Lì si sono conosciuti, innamorati e hanno iniziato il loro percorso mano nella mano, pionieri coraggiosi della vita indipendente e dell’autodeterminazione.
Per Anna Maria, in un certo senso, il percorso è stato doppio, come persona con disabilità da un lato e come donna dall’altro. Appena uscita dall’istituto non sapeva nulla di quello che accadeva nel mondo, nella struttura non le facevano vedere mai i telegiornali, poteva leggere soltanto i libri di Liala che avevano sempre un lieto fine. Si scrollò di dosso quel background e divenne madre, sfidando il giudizio della gente, le chiacchiere di paese e la chiusura del contesto culturale che, diciamo la verità, da questo punto di vista per le donne con disabilità non è molto cambiato.
«Mia madre – spiega Emanuel – mi ha sempre raccontato che la sua gravidanza è stata vista come qualcosa di fondamentalmente anomalo, soprattutto per il fatto che anche mio padre aveva una disabilità. Mentre era considerato possibile, anche se non normale, avere un figlio se uno dei due partner era disabile, un figlio nato da entrambi i genitori con disabilità era una situazione molto strana e complessa anche da capire. Mamma, come ha raccontato anche nel documentario, mi ha sempre detto che appena sono nato, un sacco di persone sono venute ad accertarsi che mi funzionassero le gambe. La poca informazione e l’ignoranza in materia di patologie invalidanti portavano molte persone a credere che fosse una malattia genetica e che quindi io dovessi per forza essere disabile. Se “chi va con lo zoppo impara a zoppicare” figuriamoci chi nasce da due zoppi!».

Ma la curiosità non si fermava alla nascita del bambino: «Quando sono cresciuto, lo stupore e le domande si spostavano soprattutto sull’atto sessuale: come avevano potuto, due invalidi, concepire un bambino? Anche lì ho sempre sentito solo risposte ironiche sia da parte di mio padre che da parte di mia madre: “abbiamo usato una prolunga”, “ve lo dobbiamo spiegare noi come si fa?”».
Ci sono poi tabù anche più “sottili” che Emanuel ci fa notare: «Un altro punto che mi interessa trattare riguardo questo argomento sono i pregiudizi sul mio essere maschio piuttosto che femmina. Molti, quando scoprivano che il figlio di Anna e Giovanni era un maschietto, si mostravano dispiaciuti e preoccupati perché, se fosse stata una bambina, avrebbero avuto un’infermiera che gli sarebbe stata accanto tutta la vita. Questa è una questione, secondo me, fondamentale, che mostra quanto gli stereotipi e l’ignoranza vadano di pari passo. L’idea che delle persone con disabilità facciano un figlio per avere un’assistenza futura è aberrante, ed è quanto di più lontano da quello che i miei genitori mi hanno insegnato e fatto vivere sin da piccolino».

Un’altra scena tratta da “Con le nostre mani”.

Emanuel deve ai suoi genitori radici solide e ali forti con cui volare alla ricerca della propria strada, non gli hanno mai fatto sentire il “peso” della loro condizione. Come hanno reagito quando hanno saputo che desideravi raccontare la loro vita? «Si sono stupiti che pensassi che a qualcuno potesse interessare la loro storia e, soprattutto all’inizio, hanno accettato il progetto perché lo vedevano come qualcosa di inerente al mio lavoro e dunque per questo andava supportato. Poi via via che l’idea veniva sviluppata e hanno capito che volevo si raccontassero anziché raccontarli, lo hanno preso come una maniera per ribadire concetti e idee che li hanno accompagnati per tutta la vita».
E quando hanno visto Con le nostre mani cos’hanno detto? «Purtroppo i tempi del cinema sono diversi da quelli della vita e dallo sviluppo alla conclusione del documentario sono successe molte cose spiacevoli. Sono morti un fratello e una sorella di mio padre, zio doveva essere presente nel documentario mentre abbiamo appreso della morte di zia “in diretta” quando facevamo le riprese. Poi finite le riprese e mentre lavoravo al montaggio a mio padre hanno diagnosticato un brutto tumore che purtroppo lo ha portato in poco tempo a morire. Sono riuscito a mostrargli il montato finale che era allettato dalla malattia e molto debilitato, gli è piaciuto molto e lo ha definito un lavoro maturo e sincero. Non ha potuto né assistere né tanto meno sapere della prima proiezione del documentario al Festival di Benevento».

Realizzato con il contributo della Regione Sardegna, della Fondazione Sardegna Film Commission e della Direzione generale Cinema e Audiovisivo e distribuito da Emera Film, Con le nostre mani è stato premiato nel novembre 2021 al Social Film Festival ArTelesia di Benevento per la “Migliore regia di un’anteprima mondiale” e nel 2024 è stato tra i finalisti del Festival Internazionale della Cinematografia Sociale Tulipani di Seta Nera (se ne legga anche sulle nostre pagine).
A questo punto il discorso non può che tornare su papà Giovanni e sulla parte finale della pellicola, quando la coppia, a causa dell’avanzare dell’età, vede ridursi quegli spazi di libertà faticosamente conquistati. Il sogno è poter fare qualcosa che prima era normale, ovvero salire in macchina e andare a riabbracciare le persone care nel paese natio di papà. «Sono contento che, con la scusa delle riprese del documentario, siamo riusciti a farlo tornare per l’ultima volta a casa sua a Bosa e rivedere tanti amici e parenti, e che ora la sua immagine e la sua voce siano impresse in video per poterlo rivedere e riascoltare anche se non c’è più».
E quali sono state le impressioni di tua mamma? «Per mia madre non è stato facile vedere il documentario appena concluso. C’è voluto del tempo ma alla fine c’è riuscita. Le è piaciuto molto e, soprattutto, continua a ribadire i concetti espressi davanti alla videocamera: una persona con disabilità, messa in condizione di vivere ed esprimersi, può senza dubbio portare avanti una vita dignitosa e ricca di affetto». Ma secondo la tua esperienza di figlio e in base ai racconti dei tuoi genitori, com’è cambiata la percezione verso la disabilità? «Se mancano le condizioni che permettono ad una persona con disabilità di muoversi e vivere la socialità, questa finisce per essere un “peso”, solo la sensibilità e la forza del singolo e di chi lo vuole sostenere possono opporsi a questa inerzia.  Ci sono state battaglie per i diritti e la rivendicazione di un posto nel mondo che hanno portato alla situazione attuale, dove la disabilità ormai fa parte della narrazione quotidiana. Grazie anche alle nuove tecnologie e ai social credo che ci siano ora spazi dove le persone con disabilità possono essere presenti, comunicare, instaurare rapporti e ribadire il loro diritto ad esistere».

Questa lezione di inclusione ci arriva da due persone, Anna Maria e Giovanni, che per molti anni sono state trattate come dei corpi malati senz’anima. Non hanno mai smesso di credere in loro stessi e hanno ribaltato il paradigma di un’intera esistenza. Con il loro accento sardo e un uso delle parole sulla disabilità ormai desueto ci insegnano che la sostanza conta più della forma; la loro storia è un potente crescendo di emozioni, nella loro vita c’è uno spirito e una modernità di vedute che in tanti discorsi odierni non riusciamo a percepire: sono un esempio positivo che dovrebbe stimolare una riflessione seria e profonda sulle disabilità.

* Direttrice responsabile di «Superando». Il presente contributo è già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it», con il titolo “Il film su Anna Maria e Giovanni, una vita costruita ribaltando i pregiudizi sulla disabilità”, da cui «Superando» l’ha ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione. «Informare un’h» lo riprende a propria volta, per gentile concessione della Redazione di «Superando».

 

Vedi anche:

Simona Lancioni, Tanti gli elementi apprezzabili del documentario “Con le nostre mani”, «Informare un’h», 6 aprile 2022.

Simona Lancioni, “Con le nostre mani” di Emanuel Cossu finalista al Festival Tulipani di Seta Nera, «Informare un’h», 9 aprile 2024.

 

Ultimo aggiornamento il 28 Ottobre 2025 da Simona