Simona Lancioni – responsabile di Informare un’H – Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa)*
Sarebbe riduttivo ritenere che il tema dell’accesso alla giustizia possa essere efficacemente affrontato e compreso limitandosi ad analizzare i contenuti dell’articolo 13 della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, espressamente dedicato a tale aspetto. Infatti le vicende concrete delle persone con disabilità chiamano in causa diverse ulteriori e specifiche questioni, tra queste: il fenomeno della vittimizzazione secondaria ed il persistere, nel nostro ordinamento giuridico, di sistemi decisionali sostitutivi.
Il tema dell’accesso alla giustizia è esplicitamente disciplinato dall’articolo 13 della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (ratificata dall’Italia con la Legge 18/2009). In particolare la Convenzione impegna gli Stati Parti a garantire «l’accesso effettivo alla giustizia per le persone con disabilità, su base di uguaglianza con gli altri, anche attraverso la previsione di idonei accomodamenti procedurali e accomodamenti in funzione dell’età, allo scopo di facilitare la loro partecipazione effettiva, diretta e indiretta, anche in qualità di testimoni, in tutte le fasi del procedimento giudiziario, inclusa la fase investigativa e le altre fasi preliminari». Per rendere effettivo l’esercizio del diritto, la Convenzione prescrive che gli Stati Parti promuovano «una formazione adeguata per coloro che operano nel campo dell’amministrazione della giustizia, comprese le forze di polizia ed il personale penitenziario».
In merito all’applicazione dell’articolo 13 l’Italia è già stata ammonita dal Comitato ONU sui diritti delle persone con disabilità già nel 2016, quando nelle sue Osservazioni conclusive al primo rapporto del nostro Paese sull’applicazione della Convenzione, ha espresso preoccupazione «per la mancanza di formazione del personale in materia di non discriminazione nel settore giudiziario», «per l’insufficienza della lotta contro gli stereotipi negativi», «per l’inaccessibilità del sistema giudiziario relativamente alle informazioni e alle comunicazioni», ed ha espresso specifiche raccomandazioni per superare tali criticità (punti 29-32 delle Osservazioni). Nel rapporto di ricerca il tema dell’accesso alla giustizia ritorna anche in relazione all’applicazione dell’articolo 16 della Convenzione, in materia di libertà dallo sfruttamento, dalla violenza e dall’abuso. A tal proposito il Comitato ONU ha espresso preoccupazione per la mancanza, nel nostro Paese, di misure legislative e di strumenti di monitoraggio per individuare, prevenire e combattere la violenza sia all’interno, che all’esterno dell’ambiente domestico, in particolar modo quella contro le donne e i minori con disabilità. Da questa preoccupazione sono scaturite diverse raccomandazioni, tra cui quella di rendere disponibili la formazione del personale della polizia, della magistratura, dei servizi sanitari e sociali, in connessione con la messa a disposizione di servizi di sostegno accessibili ed inclusivi per coloro che subiscono violenza, compresi i rapporti della polizia, gli strumenti di reclamo, le case protette e ogni altra misura di supporto (punti 43 e 44).
Sullo specifico tema dell’accesso alla giustizia delle donne con disabilità vittime di violenza si è espresso anche il GREVIO, l’organismo indipendente preposto a vigilare sull’applicazione della Convenzione di Istanbul (ovvero la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, recepita dall’Italia con la Legge 77/2013). Esso, nel suo primo Rapporto di valutazione rivolto all’Italia (del 2020), tocca il tema in più punti. Se ne occupa quando, tra le altre raccomandazioni, incoraggia vivamente le autorità italiane ad assicurare l’effettiva applicazione dell’obbligo di dovuta diligenza per prevenire, indagare, punire e provvedere al risarcimento adeguato delle vittime (punto 27). Quando, in materia di tutela giudiziaria, riguardo alle informazioni che devono essere fornite alle vittime di reati al primo contatto con l’autorità di rinvio a giudizio, il GREVIO rileva che nella maggior parte dei casi gli strumenti informativi sviluppati a tal fine non sono adatti a tutte le categorie di vittime, comprese le donne con disabilità, quindi sottolinea che le informazioni fornite dovrebbero essere adeguate e accessibili anche a loro (punti 132 e 133). Quando osserva che una formazione insufficiente può portare il personale dei servizi di supporto generale a nutrire un atteggiamento culturale che mette in discussione la credibilità delle vittime e le espone alla vittimizzazione secondaria, e aggiunge che ciò ha anche un grave impatto sulle vittime rese vulnerabili da circostanze particolari, come le donne con disabilità, infatti il personale privo della formazione necessaria non è adeguatamente preparato per rilevare la violenza a cui sono esposte, e quando le vittime si rivolgono ai servizi e denunciano la violenza sono esposte al rischio di subire pregiudizi (punto 135).
In merito alla vittimizzazione secondaria, va segnalato che nella Relazione approvata lo scorso aprile dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e ogni altra violenza di genere proprio su questo tema (dal titolo: “La vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti che disciplinano l’affidamento e la responsabilità genitoriale”), le donne con disabilità, pur essendo maggiormente interessate dal fenomeno, non sono state minimamente considerate. Interrogato in merito, l’Osservatorio nazionale sulle violenze contro le donne con disabilità dell’Associazione Differenza Donna spiega che quando le madri con disabilità (soprattutto quelle con una disabilità intellettiva e psichiatrica) si rivolgono ai servizi pubblici per denunciare maltrattamenti, abusi e violenze vengono sottoposte ad una valutazione delle loro capacità genitoriali che, non tenendo conto delle loro caratteristiche, si conclude sempre con un parere negativo e con la sottrazione del minore, senza che, nel caso vengano effettivamente riscontrate delle difficoltà, venga minimamente presa in considerazione l’idea di fornire alla donna un supporto allo svolgimento della funzione genitoriale (a tal proposito si segnala il seguente approfondimento).
Un’altra considerazione importante arriva dal Forum Europeo sulla Disabilità (EDF), il quale ha frequentemente sottolineato i legami tra le diverse forme di coercizione riproduttiva ed il riconoscimento della capacità legale (intesa come comprensiva della capacità giuridica e della capacità di agire), disciplinato dall’articolo 12 (Uguale riconoscimento dinanzi alla legge) della Convenzione ONU. Nel rapporto di ricerca intitolato “La sterilizzazione forzata delle persone con disabilità nell’Unione Europea” (disponibile in italiano a questo link, e, in lingua inglese, in versione “facile da leggere e da comprendere”), ad esempio, dedica a questo tema un intero paragrafo. In esso l’EDF evidenzia come la sterilizzazione forzata sia sovente «presentata come un mezzo per proteggere le persone “vulnerabili”» (pag. 18), e come tale motivazione sia analoga alle argomentazioni comunemente utilizzate per giustificare la presenza di regimi decisionali sostitutivi delle persone con disabilità, in particolare la tutela. Tuttavia, questi regimi violano i diritti fondamentali delle persone con disabilità e minano la loro autonomia e il diritto all’autodeterminazione. «La capacità giuridica e la sterilizzazione forzata sono intrinsecamente legate poiché la sterilizzazione forzata riguarda in particolare le persone con disabilità intellettive e/o psicosociali, la cui capacità legale è limitata – si legge in un passaggio del rapporto –. Le decisioni sui loro diritti riproduttivi sono lasciate, tra gli altri, ai loro rappresentanti legali, ai tutori o ai tribunali. Vediamo che molti Stati membri dell’Unione Europea che autorizzano la sterilizzazione forzata sono anche tra quelli che consentono un processo decisionale sostitutivo» (pag. 18). Ebbene, anche se l’Italia non è espressamente citata in questa parte del rapporto, la circostanza che essa non abbia ancora abolito gli istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione, che sono in marcato contrasto con la Convenzione ONU, e che anche l’amministrazione di sostegno sia talvolta arbitrariamente applicata come regime decisionale sostitutivo (a tal proposito si veda il presente approfondimento), costituisce il terreno ideale perché su qualsiasi materia le decisioni vengano prese da terzi, e non dalla stessa persona con disabilità. Sull’illegittima dei regimi decisionali sostitutivi si è espresso ampiamente anche il Comitato ONU sia nel Commento generale n. 1 (del 2014), dedicato proprio all’articolo 12 (se ne legga a questo link), ma anche nelle già citate Osservazioni conclusive al primo rapporto dell’Italia sull’applicazione della Convenzione (punti 27 e 28). Non aiuta il fatto che nella traduzione italiana pubblicata nel Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali comunemente utilizzata nel nostro Paese, l’espressione “capacità legale” sia stata erroneamente tradotta con “capacità giuridica”, contribuendo in tal modo a rendere invisibile che quella che viene abitualmente ridotta o negata alle persone con disabilità sottoposte misure di tutela non è la capacità giuridica (ossia la capacità di essere intestatari di rapporti giuridici) ma la capacità di agire (ossia la capacità di compiere un autonomia atti giuridicamente rilevanti).
Per capire il concreto funzionamento di questo sistema è importante fare riferimento ai casi concreti. Capita così che una donna con disabilità psichiatrica sottoposta a interdizione ed istituzionalizzata dichiari di aver subito molestie sessuali da due ospiti delle strutture in cui lei stessa è stata ospitata, ma che le sue dichiarazioni non siano prese in alcuna considerazione perché alla sua voce non è attribuito alcun valore, ma anche perché attribuirle un valore avrebbe significato certificare l’incuria di chi doveva garantire la sua sicurezza e la sua incolumità. Capita anche che quella stessa donna disabile abbia rapporti sessuali consensuali con il suo fidanzato abituale e questo venga denunciato per violenza sessuale dalla tutrice della donna contro la volontà di quest’ultima (procedimento nel quale il giovane è stato assolto per non aver commesso il fatto). Capita poi che a quella stessa donna venga praticata un’interruzione di gravidanza autorizzata dal giudice dietro richiesta della tutrice, ma, ancora una volta, contro la volontà della donna disabile, e che quest’ultima non possa addire a vie legali perché per farlo dovrebbe chiedere alla tutrice di denunciare se stessa ed anche il giudice…
Ecco, nella realtà il sistema funziona così, ed è un sistema perverso e disumanizzante. Dunque, se non ci disponiamo ad abolire i regimi decisionali sostitutivi, tali situazioni continueranno a ripetersi con una parvenza di legalità, sebbene in evidente contrasto con il dettato della Convenzione ONU. Il cambiamento deve avvenire sia a livello individuale che di sistema, mettendo le persone con disabilità in condizione di esprimere la loro voce ed ascoltandola. Perché se cambiamo il sistema ma non impariamo ad ascoltare, non avremo risolto niente.
* Relazione esposta al convegno “La violenza contro le donne con disabilità: prevenire, soccorrere e garantire l’accesso alla giustizia” organizzato dalla Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap (FISH) il 25 novembre 2022.
Vedi anche:
Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “Donne con disabilità: diritti sessuali e riproduttivi”.
Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “La violenza nei confronti delle donne con disabilità”.
Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “Donne con disabilità”.
Ultimo aggiornamento il 25 Novembre 2022 da Simona