Intervista a Maria Chiara ed Elena Paolini a cura di Simona Lancioni
Marchigiane, hanno frequentato per tre anni l’università a Londra, ma ora sono tornate nelle Marche. Si spostano con carrozzine elettriche, sono impegnate nella rivendicazione della vita indipendente delle persone con disabilità, nel contrasto all’abilismo, agli stereotipi, alle discriminazioni (non solo nei confronti delle persone con disabilità). Dotate di notevoli capacità critiche, esprimono, spesso con ironia, il loro punto di vista su «un mondo non accessibile e abilista». Sono le sorelle Maria Chiara ed Elena Paolini. Classe 1991 la prima, classe 1995 la seconda. Hanno un blog (Witty wheels), una pagina facebook ed un profilo Instagram. Le abbiamo intervistate.
Sul vostro blog vi presentate raccontando qualcosa di voi, delle vostre passioni e dei vostri interessi (cibi, lingue, musica, viaggi, libri…). Avete studiato a Londra per tre anni. Chi ha una disabilità vive meglio a Londra o in Italia? E perché?
Maria Chiara: «È una domanda retorica, vero?
In Inghilterra se sei disabile puoi fruire molto di più delle città con molto meno bisogno di pianificare ed organizzare, è tutto più accessibile. In Italia ogni volta che vai in un posto nuovo puoi aspettarti di tutto, tipo scalini di cui si erano dimenticati di avvisarti. È una fatica quotidiana che alla fine presenta un conto in termini di energie e tempo.
Inoltre se non sei autosufficiente in Italia ci si aspetta che ti assistano i familiari o che tu venga chiuso in una struttura. In Uk invece ricevi una somma che copre le spese di assunzione di assistenti che lavorano con te a turni. Il risultato è che lì quando sei in giro incontri un numero massiccio di persone con disabilità visibili, qua non è esagerato parlare di una situazione simile all’Apartheid.
In Inghilterra è proprio più diffusa la cultura dei diritti: se lì parli di discriminazione ti prendono sul serio.»
Elena: «La risposta è molto semplice purtroppo: Londra. Non c’è una città italiana che regga il paragone, per accessibilità, per servizi e per cultura. In effetti, ora che ho vissuto a Londra ma sto in Italia, sento proprio la differenza. Qua c’è più abilismo. C’è anche meno conoscenza delle discriminazioni in generale, quindi va da sé che c’è una minore informazione sul tema dei diritti a livello di opinione pubblica.
Ogni volta che un commesso ti ignora, ogni volta che vieni segregato in posti specifici agli spettacoli, ogni volta che non puoi entrare in un locale perché manca l’accessibilità, ogni volta che uno sconosciuto per strada ti fissa insistentemente. E a parte queste cose “minori” per cui si vive lo stesso, il problema è anche a livello di sopravvivenza: servizi da cui dipende la vita delle persone non sono messi in atto e veniamo segregati nelle strutture residenziali.
Chiaramente gli episodi di discriminazione mi sono capitati anche a Londra, non è che là magicamente l’abilismo non esista. Ma qui le microaggressioni e le discriminazioni sono una cosa quasi quotidiana. Là sono meno frequenti.»
Nel 2017 avete scritto una lettera aperta al Presidente del Consiglio (che all’epoca era Paolo Gentiloni) ed ai Ministri per chiedere il finanziamento dei progetti di Vita Indipendente per le persone con disabilità. Alla lettera fece seguito l’iniziativa “Liberi di fare”, (una serie di manifestazioni sincronizzate in molte piazze italiane), sempre per rivendicare il diritto alla Vita Indipendente. Da allora vi sembra che sia cambiato qualcosa su questo fronte? Pensate di intraprendere altre iniziative?
Maria Chiara: «Novità essenziali purtroppo non ce ne sono, c’è stata un’interrogazione parlamentare sul tema dell’assistenza personale a seguito delle nostre iniziative, ma le istituzioni nazionali non hanno risposto alla nostra richiesta di un fondo nazionale per l’assistenza personale autogestita. L’attuale governo non ha fatto nulla a favore dei cittadini disabili, anzi ha peggiorato le cose, ad esempio ha tagliato i fondi per gli insegnanti di sostegno: non sorprende purtroppo, dato che il suo maggior campo di investimento sembra essere la repressione. A livello regionale è sempre presente lo spettro del taglio dei fondi, che possono essere falciati da un momento all’altro, senza preavviso. Dunque è necessario continuare a “presidiare” anche le regioni e fare pressione e continui bracci di ferro con i politici locali. È fondamentale anche sviluppare l’empowerment [conquista della consapevolezza di sé e del controllo sulle proprie scelte, decisioni e azioni, N.d.R.] e la consapevolezza di molte persone disabili. Su questi stiamo elaborando un training su Vita Indipendente e attivismo, in collaborazione con ENIL, Rete per la Vita Indipendente attiva in Italia e in Europa.»
Elena: «Be’, dato che l’attivismo per me è sopravvivenza, visto che se vuoi andare avanti con la tua vita – se sei parte di una categoria marginalizzata – devi necessariamente lottare per cambiare le cose… Direi che intraprendere ulteriori iniziative è una strada obbligata. Non ci sono molte alternative quando uno Stato prevede come sistemazione di default la struttura residenziale per chi non è autosufficiente.
La dipendenza forzata da altri, la mancanza di controllo sulla propria vita: è questo ciò che aspetta molte persone disabili che hanno bisogno di assistenza. A livello politico non è cambiato molto dalle manifestazioni, ma chiaramente non bastano due cicli di manifestazioni per cambiare cose che sono “storte” a un livello così profondo.
Inoltre il governo attuale è assolutamente deprimente, per usare un eufemismo. Del resto, cosa ci possiamo aspettare in fatto di disabilità da un governo sessista, razzista e omofobo, che al massimo usa le persone disabili per propaganda? Tutte le oppressioni sono interconnesse e non credo che un governo anti-LGBT+ e anti migranti possa mai essere un buon governo per le persone disabili.
Abbiamo l’immensa fortuna di non essere il primo paese che lotta per l’assistenza personale, e abbiamo quindi il vantaggio di non partire da zero ma di poter vedere come hanno agito i movimenti degli altri paesi. Con Liberi di Fare abbiamo una rete di persone interessate al tema, e anche se non è facile organizzarsi – indovina un po’, per mancanza di assistenza personale e di trasporto pubblico accessibile – c’è un sacco di potenziale.»
Prestate molta attenzione alla rappresentazione delle persone con disabilità nel cinema e negli audiovisivi, denunciando spesso l’impostazione abilista e l’atteggiamento paternalista nei confronti delle persone con disabilità. Qualche giorno fa Maria Chiara ha espresso insoddisfazione per come il tema “disabilità e sessualità” è stato trattato ne «Il corpo dell’amore», un ciclo di quattro documentari appena andato in onda su Rai 3 (e ora disponibile su Rai Play). Sapete farmi qualche esempio di film o documentari che, a vostro giudizio, hanno rappresentato le persone con disabilità in modo adeguato e rispettoso?
Maria Chiara: «In Italia in questo siamo all’anno zero. C’è un problema di base che impedisce una buona rappresentazione, un problema di scarsa o nulla auto-rappresentazione: quando si parla di disabilità spesso, incredibilmente, non si pensa di avvalersi della consulenza di persone disabili. Non abbiamo la possibilità di prendere la parola e non ci viene riconosciuto il fatto che i migliori esperti di disabilità sono le persone disabili.
Da quello che ho visto, di produzioni italiane sulla disabilità fatte da persone non disabili al momento non ne posso “salvare” neppure una. Possono essere più o meno fatte bene o più o meno godibili a seconda dei gusti, ma c’è sempre un po’ di paternalismo o svalutazione delle persone disabili oppure si portano avanti pregiudizi dannosi.
Non che nel cinema mainstream internazionale la situazione sia così diversa.
Però, ad esempio negli Stati Uniti, ci sono registi e attori disabili piuttosto conosciuti che parlano anche di disabilità, come Dominick Evans, Maysoon Zayid e Shannon DeVido e vari documentari sul movimento per i diritti delle persone disabili (“The Gang of 19”, “Lives worth living”).
Un buon lavoro italiano mi sembra il corto Sensuability di Armanda Salvucci, che infatti è un esempio di auto-rappresentazione, è prodotto da una donna disabile.»
Elena: «Ehm, al momento me ne vengono in mente pochissimi. Sicuramente questo breve documentario sulla violenza sulle donne disabili [“Silenzi interrotti”, regia di Ari Takahashi, prodotto dalla FISH – Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap e dall’associazione Differenza Donna nel 2018, N.d.R.]. Film no, sicuramente non italiani e pochissimi esempi esteri. “Quasi amici“, a parte alcuni elementi, è godibile e abbastanza veritiero. In generale, per capire se vale la pena vedere un film che parla di disabilità, bisogna guardare la percentuale di persone disabili che ci hanno lavorato in ruoli di rilievo. Un po’ come con tutte le minoranze sociali, se c’è la consulenza/esperienza diretta il film è veritiero, se no no.
Ce l’ho così tanto con i film fatti male che non riesco più a guardare i film senza insultarli ad alta voce quando sento una battutina omofoba, o vedo uno stereotipo razzista, sessista, abilista ecc. Divento tipo Rabbia di “Inside Out”.»
Recentemente siete state protagoniste di un brutto episodio di discriminazione all’Aeroporto di Bologna, dove vi è stato impedito di volare e siete state «trattate con paternalismo e arroganza». Quale pensate che sia la risposta più efficace contro le discriminazioni?
Maria Chiara: «È importante capire innanzitutto che si tratta di una discriminazione davvero pervasiva, non sono casi isolati.
Per rimanere nel solo ambito dei viaggi in aereo, ci sono persone lasciate a terra perché “due ciechi per un aereo sono troppi” oppure perché “nel gruppo ci sono più persone sorde che udenti”. Persone cieche messe sulla carrozzina dal personale addetto all’assistenza “perché mi hanno detto di fare così”, carrozzine distrutte in stiva, innumerevoli persone disabili che per svariati motivi non hanno volato.
Un problema così strutturale quale l’abilismo, come tutte le discriminazioni, non può che essere affrontato su più fronti. La risposta più efficace è sicuramente quella delle persone disabili che hanno consapevolezza dei propri diritti (leggi: che sono incazzati): prima o poi (a volte prima, a volte poi) i risultati si ottengono.
Alla base di questa consapevolezza c’è un processo di empowerment che deve avvenire necessariamente tramite un supporto alla pari; poi è importantissimo avere il supporto degli “alleati” non disabili. Altra cosa fondamentale è, come dicevamo, l’auto-rappresentazione, il parlare per se stessi.»
Elena: «Denunciare la cosa, ognuno secondo le proprie possibilità. Qualcuno sotto il post in cui descriviamo il fattaccio ha commentato che non si è trattato di discriminazione: questo ti fa capire quanto siamo indietro sulle questioni che riguardano i diritti delle persone disabili. Non c’è l’abitudine di considerare le persone disabili come una categoria socialmente discriminata, la disabilità è concepita come “problema individuale medico”, e l’abilismo è radicato. Spesso si giustificano dei comportamenti dicendo cose come “sarà stata un’incomprensione”, o al massimo si parla di “ignoranza”. No. L’abilismo è come qualsiasi altra discriminazione: comprensibile – fino a un certo punto – a causa della società in cui viviamo, ma in alcun modo giustificabile.
Ci sono parecchi modi per contrastare la discriminazione, ognuno dovrebbe trovare quello che gli è più congeniale. La via legale, usando la legge 67/2006 contro la discriminazione; la mobilitazione, facendo squadra con altre persone disabili; la denuncia ai media; confrontarsi con altre persone disabili che ci sono già passate; parlare di abilismo col collega in pausa pranzo o fare educazione su più larga scala; leggere il lavoro di attivisti di vari paesi; pungolare le istituzioni; prendersi una pausa quando il lavoro diventa troppo.»
Trattare le persone disabili come esempi di vita (in inglese: inspiration porn), potrebbe essere scambiata per una forma di esaltazione, ma in realtà è solo una variante, subdola, per esprimere pietismo. Scrive, a tal proposito, Maria Chiara: «Io non esisto per dare lezioni di vita agli altri, non esisto per ispirare le persone.» Il registro emotivo è sempre sbagliato, o pensate ci siano situazioni nel quale può essere impiegato? In tal caso, quali?
Maria Chiara: «Non contesto il registro emotivo, ma il meccanismo di svalutazione delle persone disabili che sta dietro al fenomeno dell’inspiration porn.
Il problema c’è in particolare quando le persone disabili vengono “usate” dalle persone non disabili per auto-motivarsi, con un sottotesto implicito che dice “Se ce la fa una persona disabile con tutte le sue difficoltà, allora posso farlo anche io”. C’è un sottinteso di basse aspettative e svalutazione nei confronti delle capacità e in generale della vita delle persone disabili.»
Elena: «L‘inspiration porn è assolutamente da evitare. Su tutt’altro piano è il registro emotivo se inteso come “empatia in situazioni di discriminazione”, insomma solidarietà per una situazione ingiusta che non riguarda te in primissima persona. I cosiddetti “allies” [alleati, N.d.R.] sono importantissimi, cioè le persone non discriminate per quella cosa specifica che però sono pronti a supportarti e ad amplificare la tua voce.»
In un testo del 2018 Elena scrive: «Sono una donna e sono disabile. Vengo discriminata per entrambe le cose, eppure la discriminazione per il fatto che sono disabile è più forte, e a volte oscura la discriminazione per il fatto che sono donna», e osserva: «parecchi ormai sanno cos’è il sessismo, pochi sanno cos’è l’abilismo». Sessismo e abilismo sono in contrapposizione?
Maria Chiara: «Non sono in contrapposizione, solo due tipi diversi di discriminazione. Semplicemente, se una persona è disabile e donna, vive molti più episodi di abilismo che di sessismo.»
Elena: «Come donna disabile, vedo che è praticamente sempre l’abilismo a essere preponderante. Un esempio è il catcalling [apprezzamento volgare per strada, N.d.R.]: non avrò il viscido che mi urla “abbonaa!” mentre passo sul marciapiede ma avrò il tizio che spunta dal nulla e mi accarezza la testa, o che si mette a pregare per me.
Ma spesso le discriminazioni si sommano, nel senso che se una donna subisce il mansplaining [atteggiamento paternalistico di alcuni uomini (ma non solo) che consiste nel trattare le donne da incompetenti anche quando trattano di questioni femminili N.d.R.], una donna disabile subirà il mansplaining e l’ablesplaining [atteggiamento paternalistico usato da persone non disabili nei confronti delle persone con disabilità anche quando trattano di questioni inerenti la disabilità, N.d.R.].
O anche, le donne disabili sono ancora più esposte alla violenza sessuale rispetto alle donne non disabili.
Io e le mie amiche non disabili sperimentiamo discriminazioni un po’ diverse: sento di avere in comune più esperienze di discriminazione con i miei amici maschi disabili.
In generale, fermo restando il fatto che il sessismo è diffuso in modo disgustoso e pericoloso, sento l’abilismo come ancora più pervasivo, addirittura è presente negli stessi circoli che dovrebbero saperne di giustizia sociale. Il termine “abilismo” stesso è pochissimo conosciuto.
A questo proposito è importante sottolineare che se non è intersezionale non è femminismo, e ancora alcune identità sociali non si sentono rappresentate nel movimento femminista.»
Per approfondire:
Il blog Witty wheels, la pagina facebook ed il profilo Instagram.
La rete Liberi di fare.
Sottosezione del centro informare un’h dedicata alle “Storie di donne con disabilità”.
Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “Donne con disabilità”.
Ultimo aggiornamento: 29 luglio 2019
Ultimo aggiornamento il 29 Luglio 2019 da Simona