La “personalizzazione” dell’assistente, ottimizzazione dei costi, la scelta del servizio, l’autovalutazione dei bisogni, gestione mista dei servizi.
Interviene Elisabetta Gasparini, segue dibattito con interventi di diverse persone.
Elisabetta Gasparini
Grazie Ida, sei stata bravissima. Visto che Ida ha citato il manifesto di ENIL spieghiamo cosa è. ENIL sta per European Network on Independent Living. Independent Living tradotto dall’inglese significa modo di vivere indipendente, noi lo abbiamo reso con l’espressione Vita Indipendente, e l’Independent Network è un’aggregazione, un insieme di persone con disabilità che si sono trovate, le cui idee sono venute dall’America e si sono diffuse nel Nord Europa, e hanno costituito il Network a Strasburgo nell’89. ENIL esiste ancora, in questo momento è un’associazione europea. Ha sede a Valencia, in Spagna, con una segreteria operativa, e la trovate in internet al seguente indirizzo: http://www.enil.eu/enil/ In Italia ENIL è stata abbracciata da alcune persone con disabilità, in particolare Gianni Pellis, che è una persona con disabilità che vive a Torino [purtroppo Gianni Pellis è scomparso nel 2011, N.d.R.]. Altre due persone importanti sono John Fischetti e l’indimenticabile Roby Margutti, che forse molti di voi avranno conosciuto, e che purtroppo è morto alla fine del 2008. ENIL Italia ha un suo sito: http://www.enil.it/. Il Manifesto per la Vita Indipendente è pubblicato su questo sito e riesce secondo me a dare delle ottime definizioni, è un buonissimo punto di partenza per la discussione. Ogni frase del manifesto racchiude profonde riflessioni. Prima Ida parlava della famiglia, io adoro questa frase del Manifesto anticipata nell’intervento di Ida che dice “Libertà della famiglia, dalla famiglia e nella famiglia”. In un secondo ha spiegato cose profonde. Cose profonde che sono state espresse prima da Enrico e poi da Ida. Cose profonde che tutte noi persone con disabilità sentiamo. E’ espresso in una riga e la dice lunga su quello che vogliamo, sulla Vita Indipendente, sul rompere le dipendenze, sulla possibilità di vivere operando delle scelte nell’ambito che vogliamo e di relazionarci in modo libero con le persone che ci sono intorno, a cui vogliamo bene, che vivono con noi. In modo libero: senza avere l’obbligo dell’assistenza familiare. Ci sono poi molti altri punti e l’intero Manifesto potrebbe essere già un argomento di dibattito.
Cominciamo a rispondere a un signore che chiedeva del costo, vorrei fare una piccola premessa. Prima di parlare del costo orario vorrei aprire una parentesi sulla differenza del tipo di lavoro e della qualità del lavoro che c’è tra l’essere assistente personale, e l’essere operatore nel servizio di assistenza tradizionale, badante, oppure altre cose. L’assistente personale ha delle caratteristiche specifiche: la caratteristica più importante è quella che è personale, quindi si relaziona direttamente alla persona con disabilità. Relazionarsi direttamente significa mettersi d’accordo su tutto, su quali sono le mansioni, su quali sono le cose che la persona con disabilità desidera, in che orari, in che modo, quanto sono faticose, per quante ore consecutive è richiesto il lavoro. Oppure se è spezzettato. Cioè: nell’ambito della libertà di scelta le mansioni e i singoli aspetti sono concordati direttamente dalle parti, e questo lascia un enorme margine di libertà in tutti i sensi, anche in quello economico. Perché sono proprio accordi tra le parti. Dipende da che cosa si richiede.
Io sono andata a parlare di assistenza personale, per esempio, in corsi di formazione per operatori; e gli operatori – loro che devono fare una scuola, devono essere formati, magari pagano anche per essere formati, e fanno una gran fatica – si sono alle volte – scusate il termine – sentititi un po’ sminuiti perché noi invece sosteniamo che l’assistente personale lo scegliamo noi, lo formiamo noi, gli diciamo che cosa vogliamo, che cosa ci serve, lo istruiamo sul modo di sollevarci, di lavarci, di fare le manovre, di tirarci su il braccio, di pettinarci, ecc.. Io mi riallaccio a quello che diceva Ida in senso buono, positivo, questo “farsi un momentino piccolo, piccolo”… cioè se voi vi comperate un abito, e ve lo comperate già confezionato, andate lì e l’abito è pronto. Sì certo, operate una scelta, però l’abito è pronto. Se invece andate da una sarta, avete un’esigenza particolare, vi siete comperati il tessuto, avete deciso che cosa volete, le chiedete di farlo così, così, così e questa ve lo modella, ve lo fa e lo costruisce sul vostro corpo, sulla vostra persona e come voi lo volete. E’ un’abilità questa. E’ una grande abilità. L’assistente personale è un po’ così. E’ una grande abilità quella di comprendere che questo lavoro è la realizzazione di tutto quello che la persona con disabilità non può fare da sola. La realizzazione per farglielo fare come lo vuole lei. E qui cambia un pochino l’angolazione: non è una pretesa quella di dire “lo formo io”, è una necessità, fa parte assolutamente di questa figura. E non è neanche un dire che magari una scuola che forma un operatore possa non essere buona. Tutt’altro. La chiave è che l’assistente personale è “personalizzato” e non esiste nessuna generalizzazione nella formazione, così come non esiste nessuna generalizzazione nei ruoli e in quello che si richiede. Da qui si apre qualunque forma di discorso anche sul rapporto economico, perché il rapporto economico naturalmente deve andare bene alle parti negli orari concordati. Noi utilizziamo prevalentemente il contratto di collaborazione domestica. Questi contratti sono già normati da contratti collettivi, e hanno delle tariffe sindacali orarie minime molto basse. Credo che nessuna persona con disabilità li applichi, né nessuna persona lavori per quei minimi sindacali. Forse possiamo parlare di quei minimi sindacali nel caso delle badanti, ma in quello degli assistenti personali assolutamente no. Quindi quanto costano? Secondo me è importantissimo anche lo spezzettamento dell’orario. Perché se io chiedo ad un assistente di venire a casa mia – come faccio nella realtà – alle sette e mezza di sera perché io guido, arrivo in garage però poi non scendo dalla macchina, mi deve prendere, far salire, portarmi in bagno, aiutare a cambiarmi e a preparare la cena, e poi va via dopo un’ora. Beh quell’ora lì costa un po’ di più che avere una persona che arriva a casa vostra, fa cinque ore consecutive e ha un orario fisso, uno stipendio fisso, un mensile. Quindi è tutto da decidere. Assolutamente tutto da decidere ed è anche privato: nel senso che fa parte della contrattazione della persona con disabilità con l’assistente. Diciamo che si può far partire la cosa da un sei euro netti per un contratto che ha uno stipendio pieno, a dodici, quindici. Non so, dipende se questa persona viene apposta, quanta strada deve fare, se il servizio è in orari improbabili, se è molto faticosa l’operazione. Comunque sia costa molto meno di quanto costi all’ente pubblico l’assistenza tradizionale nei vari passaggi.
Silvano Crecchi
Dalla relazione di Ida mi è parso sia emerso un aspetto chiaro: un servizio che apparentemente potrebbe sembrare l’ottimale, come quello di una badante che viva ventiquattro ore al giorno nell’abitazione della persona “assistita”, che invece può rappresentare l’espressione massima dell’autolimitazione perché presuppone, ad esempio, l’obbligo della convivenza e dunque un’ingerenza severa nella propria intimità. Nell’esperienza comune si rileva una cospicua casistica di ridotta abilità che si ha anche con la longevità visto che, ovviamente, anche diventare troppo anziani significa veder aumentare il rischio di una grave riduzione della propria indipendenza. A Peccioli abbiamo notato che destinando una cifra importante per l’assistenza domiciliare degli anziani, qualche volta riusciamo a mettere la persona anziana nella condizione di non essere obbligata alla “scorciatoia” della badante. Mi spiego meglio ricorrendo ad un esempio: vi è il caso della persona che ha bisogno di essere aiutata soltanto per alcune mansioni ed in alcuni momenti della sua giornata (per esempio per l’espletamento di alcune faccende domestiche faticose, o per la preparazione di uno dei due pasti principali). Supponiamo che questo tipo di assistenza comporti la necessità di tre ore al giorno di un operatore che sul mercato delle prestazioni sociali può costare 20-25 euro all’ora, e il notturno molto di più. Ciò premesso, ci siamo molto spesso resi conto che la persona anziana che ha bisogno soltanto di quelle tre ore, ma che dovrebbe pagare quelle cifre, si trova costretta – perché in tal modo risparmia – a scegliere la via della badante e dunque a sopportare una convivenza forzata per tutte le ventiquattro ore. Ritengo che sia molto frequente il caso di persone che subiscono questa forma di convivenza, peraltro in alcuni casi resa ancora più complicata dalle situazioni ambientali, spazi abitativi piccoli dove è impossibile separare gli ambienti di intimità come il bagno, oppure dove anche il semplice ascolto della televisione da parte dell’uno può comportare disagio per l’altro. Ecco, molto spesso la limitatezza delle risorse finanziarie destinate all’assistenza domiciliare comporta questa semplificazione e cioè la scelta di una forma di assistenza, quella della badante, che può apparire come la migliore in quanto garantisce la presenza permanente di una persona prossima che può intervenire, ma che invece è proprio l’esatto opposto di quel concetto di Vita Indipendente al quale anch’io oggi mi sto fortemente alfabetizzando. Credo di aver capito che la Vita Indipendente è tale se può presupporre l’ipotesi che la persona in quel determinato giorno possa decidere di non essere assistito per ventiquattr’ore, voglia starsene solo o non voglia quella prestazione dalle 9 alle 11 decidendo, per quel giorno, di rimanere a dormire. C’è da rilevare oggettivamente che al di là di dover identificare meglio le priorità di utilizzo delle risorse, quelle a disposizione dei Comuni sono da ritenere comunque insufficienti. Possiamo dire che con il solo fondo destinato dal Comune di Peccioli alla Società della Salute (calcolato in base alla popolazione residente) noi non riusciremmo a dare nessun tipo di risposta ad oltre i 2/3 dei richiedenti di questo Comune (e si parla soltanto di persone anziane).
Domanda dal pubblico: possiamo sapere la cifra pro capite?
Silvano Crecchi
Il nostro Comune che conta circa 4970 abitanti – trasferisce alla Società della Salute circa 180.000 euro all’anno, ma ne stanzia autonomamente altri 400.000 in più per quel servizio di assistenza domiciliare agli anziani di cui ho parlato in precedenza. A questo punto il calcolo si fa agevolmente: un Comune come il nostro, per dare una risposta adeguata, dovrebbe poter destinare circa 600.000 euro l’anno. Noi possiamo farlo perché abbiamo una condizione di bilancio che ci consente di destinare quei 400.000 euro in più. Ciò significa che in tutti gli altri Comuni analoghi per dimensione e caratteristica demografica e dove non ci sono condizioni straordinarie di bilancio – che il Comune di Peccioli ha per motivi contingenti – quella è la dimensione della carenza finanziaria. Cioè i 180.000 euro sono una cifra che è sufficiente appena a coprire un 1/4 o un 1/5 delle risorse che sarebbero sufficienti solo per l’assistenza domiciliare agli anziani. Quindi credo di poter dire che siamo molto lontani da un concetto più evoluto di assistenza per la Vita Indipendente, così come ne stiamo parlando oggi. Con le risorse che gli enti hanno a disposizione – se non ci sono interventi straordinari da parte delle Regioni, da parte di enti di livello superiore – è chiaro che quei problemi di difficoltà di rapporto con le Conferenze dei Sindaci, ecc. nascono dal fatto che molto spesso la Conferenza dei Sindaci rimane l’ultimo baluardo consapevole di una sicura forma di impotenza. Nonostante tutti i risparmi, tutte le razionalizzazioni che si possono fare, se noi calcoliamo quello che un Comune di queste dimensioni avrebbe come gettito da imposte e da entrate tributarie e da servizi, noi avremmo comunque risorse che sarebbero sicuramente gravemente insufficienti per gestire l’assistenza peraltro imperfetta che noi oggi eroghiamo, e che – ripeto – è insufficiente perché ci porta a dover integrare lo stanziamento di altri enti con 400.000 euro.
Intervento dal pubblico: rispetto al discorso, che in alcune Regioni è già partito da tempo, dei buoni dati ai disabili o agli anziani, io intravedo un grosso rischio, nel senso che secondo me solo in alcuni casi c’è un livello di consapevolezza elevato – anche nel contrattare – da parte della persona che sceglie l’assistente personale. In molti altri casi, purtroppo, il soggetto non è nelle condizioni di poter operare questa scelta. Allora il ticket, in questi casi, può diventare pericoloso perché può essere strumentalizzato dal territorio, perché a chi ci si rivolge? Una cosa che mi viene da chiedere rispetto agli assistenti personali: esiste davvero una rete forte sul territorio nazionale per cui la persona che decide di scegliere, e di operare questa scelta in autonomia e indipendenza, sa a chi potersi rivolgere, come operare e ha gli strumenti per poter operare una scelta? Ci sono poi davvero dei luoghi, degli enti, o delle associazioni che garantiscono poi questa risorsa? O il territorio è ancora povero da questo punto di vista? E questo rappresenterebbe un’ulteriore difficoltà per la persona, perché da una parte si mette in quest’ottica di evoluzione, però poi dopo non trova sul territorio lo spazio per poterla attuare e diventa anche frustrante.
Elisabetta Gasparini
Le domande sono tante. La prima, quella sul territorio nazionale: non c’è assolutamente uniformità sul territorio nazionale, non c’è uniformità neanche dentro le singole Regioni. Qualche Regione, come il Veneto, qualche passo avanti l’ha fatto proprio perché ci sono state tantissime persone che hanno fatto pressione. C’è tanta difformità anche dentro il territorio regionale perché le linee d’indirizzo sono generiche. Ogni azienda sanitaria ha il suo regolamento, ogni sindaco arriva in Conferenza dei Sindaci e dice “no, ma io …”. Uno va lì e dice “beh, io vorrei…”: niente diritti! Poi abbiamo parlato dei costi: dell’ottimizzazione del costo orario, che è una cosa di facile comprensione, dell’indiretta, del voucher (che è un buono d’acquisto) e di altre forme di assistenza erogate in modo tradizionale. E possiamo aprire un confronto sull’ottimizzazione del costo orario, ma in realtà la conversione della spesa non si basa su un confronto. Noi diciamo sempre: “quanto costeremmo noi in un istituto?” Però noi non stiamo tutti in un istituto e neanche ci potremmo stare perché non ci sarebbero i soldi per tutti. Quindi è faticosissimo provare a fare un confronto. Bisogna stanziare di più per il sociale, ma molto di più, ma enormemente di più. Siamo andati a Montecitorio nel 2005 perché Berlusconi aveva dimezzato gli stanziamenti. Devono essere delle scelte politiche, naturalmente, a tutti i livelli: nazionale, regionale e locale. Si può scegliere di mandare le truppe all’estero, di spendere per la politica, per i lavori pubblici, ecc. Anche le opportunità che sono date sul territorio sono variabilissime. Molto dipende dai piani di zona. Da noi adesso funzionano abbastanza bene. Ci sono delle informazioni forti e chiare sui tipi di risposte e sulla differenza dei diversi servizi. Rispetto alla voce “Vita Indipendente” si sta facendo chiarezza – dopo sei anni – sul fatto che questo non è un contributo economico, è un finanziamento per l’autogestione dell’assistenza, che deve essere rendicontato e che la differenza è soltanto quella di essere gestito dalla persona in forma privata invece che dal pubblico. Non è stato così semplice all’inizio. Bisogna distinguere tra i semplici contributi economici e i servizi alla persona.
Enrico Lombardi
In parte l’ha accennato Elisabetta, ma io volevo sottolineare un aspetto a cui ho già accennato nel mio intervento. Va infatti chiarito che non è detto che questo tipo di intervento debba andare bene per tutti, o debba essere così per tutti. Questo lo ribadisco perché facendo Vita Indipendente da quattro anni e avendo conosciuto varie esperienze capisco che ci sono delle complessità che non tutti si sentono di affrontare: come il caso in cui l’assistente personale è malato, o va in ferie, oppure il caso in cui lui o noi decidiamo di interrompere il rapporto di lavoro. Quindi si tratta di dover cercare qualcun altro, e sappiamo bene la difficoltà che abbiamo nel trovare un’altra persona, ri-addestrarla… è un impegno che ci porta via un sacco di energie. Non è detto che tutti vogliano fare questo tipo di scelta, ed è rispettabilissima anche una scelta di tipo diverso. Io ho conosciuto gente che diceva: “no, guarda, a me di fare il sindacalista – perché si tratta di una contrattazione – non interessa, io non voglio avere problemi di questo tipo, a me basta che alla mattina arrivi qualcuno, non importa chi sia …” perché la cooperativa ti dà delle garanzie da un certo punto di vista: non devi provvedere alla sostituzione, l’orario si spera venga rispettato, ci sono tante cose che rendono senz’altro più semplice la gestione, però è un tipo di servizio diverso. E’ importante volerlo: si deve volere volare. E’ una scelta importante che è maturata nel tempo, tanto che generalmente la formazione in questo caso non va fatta tanto all’operatore – perché come abbiamo già detto poi sarà formato comunque dalla persona con disabilità –, la formazione in questo caso forse deve essere fatta alla persona con disabilità che deve fare proprio un lavoro suo personale… Noi non ne abbiamo ancora parlato, ma, per esempio, nei paesi del Nord Europa, anche in ENIL, viene promossa la consulenza alla pari. Vale a dire persone con disabilità che hanno fatto un certo tipo di percorso in materia di Vita Indipendente si mettono a disposizione come consulenti alla pari per aiutare altre persone con disabilità che sono interessate ad intraprendere questo cammino. Anche questo potrebbe essere un altro punto a favore. Qualcosa già c’è, ci sono i comitati, ci sono le associazioni, ci sono i movimenti di persone con disabilità che si mettono a disposizione. Io sono arrivato a fare questa scelta attraverso contatti con l’AVI (Associazione per la Vita Indipendente) Toscana, con Roberto Bressanello (della UILDM – Unione italiana lotta alla distrofia muscolare)… quindi c’è una contaminazione che porta a divulgare, si creano delle reti. L’importante è che venga garantito il diritto di scegliere questo tipo di servizio.
Intervento dal pubblico: io sono un’educatrice e lavoro alla ASL, al servizio sociale. Mi occupo di handicap da moltissimo tempo, coordino il gruppo GOM (Gruppo operativo multidisciplinare) e gli aiuti alla persona. Come diceva il sindaco Crecchi, il problema dei finanziamenti è un problema reale. Facciamo conto che la volontà di fare c’è, come Alta Val di Cecina, ho visto che da parte dei Comuni c’è stata una grossa volontà di fare. Però, per esempio, sugli aiuti alla persona (che io coordino), i Comuni, rispetto a quello che è il contributo regionale, hanno ampiamente integrato contribuendo quasi nella totalità. La difficoltà sta nel fatto che la Vita Indipendente è un’altra cosa rispetto all’aiuto alla persona. In sostanza noi garantiamo qualcosa in forma diretta (con i nostri servizi), qualcosa in forma indiretta (quindi con assegni di cui, come ente pubblico, dobbiamo verificare che vengano impiegati nella maniera corretta). Ora c’è anche l’obbligo di un albo: i Comuni devono avere un albo al quale la persona disabile può attingere per individuare l’operatore che presterà aiuto alla persona. La difficoltà sta anche nel reperire persone, perché spesso abbiamo assistenti che smettono di fare l’assistente per dedicarsi ad altri progetti di vita. Quindi le famiglie si trovano a dover cercare altre persone. Quindi i problemi sono problemi reali e sono di finanziamento ma anche di far capire che Vita Indipendente vuol dire anche che se io la sera voglio andare al cinema chiamo il mio assistente e vado al cinema. Oppure vado in vacanza con i miei familiari se ho a mia disposizione una persona per non gravare su di loro. Ecco, l’indipendenza consiste in questo. Di queste esperienze non ce ne sono molte, non ci sono molti riferimenti al di là delle associazioni. I riferimenti normativi sono molto vaghi e anche sui finanziamenti non c’è chiarezza. Per cui ogni volta che c’è una domanda in tal senso le Amministrazioni si devono ingegnare per venire incontro alle esigenze della persona. Dunque ben vengano questi incontri per trovare, stimolare gli Amministratori a trovare delle vie percorribili.
Elisabetta Gasparini
Io vorrei riprendere il discorso della “scelta” per mettere in luce che non tutti sono adatti all’assistenza indiretta. Noi lo sappiamo bene perché nel Veneto abbiamo vissuto un percorso opposto, perché prima abbiamo trovato le risorse regionali, poi sono stati aperti i bandi per presentare le domande. Una cosa buffissima per cui si sono riversate – in odore di finanziamento – un sacco di persone che spinte dagli assistenti sociali hanno presentato le domande e, ricevuto il finanziamento, hanno detto “ma noi dove li troviamo gli assistenti? Cosa facciamo?” Allora l’ideale sarebbe questo: avere chiara tutta la gamma delle opportunità. Che va dalla più tradizionalissima delle forme – per cui uno dice “beh, io la mattina devo avere la mia assistenza sicura, per l’igiene personale, per andare al lavoro, ecc. e non voglio rischiare…” – all’indiretta assoluta. In questa gamma di opportunità dove ogni persona – fra l’altro – nella sua crescita personale, nelle sue trasformazioni nella vita ogni anno possa comunque avere la possibilità di passare un po’ più in qui o un po’ più in lì, a seconda di quello che le sta succedendo. In tutta questa gamma di opportunità, ogni persona nella sua crescita personale e nelle sue trasformazioni della vita dovrebbe poter passare da un tipo di assistenza ad un altro a seconda di ciò che le sta succedendo. In questo modo i finanziamenti per la Vita Indipendente verrebbero dati alle persone che veramente richiedono questo tipo di assistenza e i progetti sarebbero più congrui. Per quello che riguarda invece la crescita della persona con disabilità, come diceva Enrico prima, gli sportelli addetti all’informazione, secondo me, devono avere il compito di indirizzare le persone che non sanno nulla o che si approcciano inizialmente a queste cose, a noi, cioè alle persone con disabilità che offrono la consulenza alla pari. La consulenza alla pari è, sino ad ora, un servizio quasi esclusivamente gratuito fatto da persone o gruppi di persone che mettono a disposizione la propria esperienza. Perché la crescita della persona con disabilità e la sua formazione possono indurla a scegliere l’assistenza indiretta. Ma nel momento in cui l’assistenza indiretta viene richiesta, essa comporta un’assunzione di responsabilità ben chiara. E’ un percorso. Fino al momento in cui non si assumono responsabilità va tutto bene, cioè ci possono essere mille forme di mediazione. Però dal momento in cui si assumono queste responsabilità bisogna sapere cosa questo comporta. Se ciò venisse presentato in modo chiaro e ordinato si faciliterebbe la vita delle persone. A volte le persone con disabilità non mettono a fuoco i loro bisogni e le loro richieste, gli assistenti sociali non danno loro un quadro chiaro delle offerte. Inoltre per concretizzarsi i servizi hanno bisogno di stanziamenti, delibere, recepimento delle delibere da parte degli enti, attuazioni. Spesso arrivano persone nuove a dirigere le varie aree per la disabilità che non conoscono la modalità di erogazione dell’assistenza in forma indiretta. Però, un po’ alla volta, anche grazie a questi incontri si fa cultura.
Ida Sala
Mi sembra importante che questo discorso della Vita Indipendente sia compreso e adottato non solo dalle persone con disabilità, o da chi è addetto ai lavori, o da chi per vari motivi deve averci a che fare, anche se è una lotta che stanno facendo le persone con disabilità (perché pagano sulla loro pelle la mancanza di libertà e di strumenti), in realtà è qualcosa che riguarda tutti. Per cui nella gamma di servizi che gli enti pubblici propongono – come diceva Elisabetta – va considerata questa opportunità proprio nell’ottica di realizzare il diritto di tutte le persone, perché a chiunque può capitare un periodo di inabilità, di disabilità oppure di avere la sfiga di diventare disabili, ed è scorretto non prevedere questa eventualità nella vita di ciascuno. Per cui anche se siamo pochi, questo spesso diventa un alibi per mantenere vecchi schemi o salvaguardare vecchi e nuovi potentati: sembriamo pochi, in realtà dove si comincia ad applicare questa formula piano piano altre persone con disabilità e spesso anche i loro genitori si avvicinano e vogliono sperimentarla.
Silvano Crecchi
Partendo dall’aspetto che raggiungere completamente questo livello culturale della Vita Indipendente è impegnativo – a quanto ho capito – non solo per la persona con disabilità, ma anche per le persone che gli sono più vicine: abbiamo visto l’esperienza di chi vive in maniera conflittuale questa esigenza di libertà anche rispetto ai familiari più diretti che pure certamente esprimono grande buona fede, e sono nella convinzione di fare il miglior bene per il loro congiunto. Mi chiedevo: rispetto a questa conquista, ci sono esperienze in cui convivono, o comunque si affermano modelli di integrazione tra l’assistenza tradizionale codificata e, per alcune sfere della propria vita quotidiana, forme di servizi invece più legati alla libertà della Vita Indipendente? Mi spiego meglio: è meglio perseguire due linee nette e cioè la previsione per chi la preferisce di un’assistenza di tipo tradizionale garantita mediante la fornitura di un assistente che opera quotidianamente con i tempi e le modalità del servizio pubblico, e, dall’altro lato, una parallela strada di assoluta autodeterminazione assistenziale, oppure sono da preferire esperienze che puntino ad integrare le due modalità di erogazione? Ci sono esperienze valutabili in tal senso?
Elisabetta Gasparini
Volevo fare una premessa che consiste nella considerazione che per operare una scelta riguardo al tipo di assistenza preferita bisogna prima averla sperimentata, e spesso questo non è possibile perché l’assistenza (di qualunque tipo) non c’è. Per cui il percorso di maturazione che una persona può fare per arrivare alla consapevolezza di desiderare l’indiretta parte dal confronto: se l’operatore della cooperativa arriva a casa sua alle otto, e tu ti volevi alzare prima, o dopo, o non ti va bene il turnover degli operatori, ecc… queste sono considerazioni che si fanno quando si vivono quotidianamente. E purtroppo ci sono un’infinità di persone con disabilità che non hanno neanche due ore alla settimana di igiene personale perché non ci sono risorse, e siamo sempre lì. Dove questo è possibile la formazione della persona con disabilità fatta attraverso la consulenza alla pari, ma soprattutto il suo percorso personale di vita quotidiana, ad un certo punto le fa dire “beh, io preferirei questo, oppure preferirei quello”. Per la nostra esperienza personale tutte le persone che sono passate dai servizi di assistenza tradizionale all’indiretta non sono tornate indietro. Questo glielo posso garantire, a meno che non siano arrivati all’indiretta – come dicevo prima – su suggerimento degli assistenti sociali (ma senza aver ben capito di che si trattasse), e poi si sono trovati con un finanziamento che non sapevano gestire. Dico ciò perché le tappe bisogna farle una alla volta. Prima di tutto l’autovalutazione dei propri bisogni. Tutte le persone con disabilità conoscono i propri bisogni, l’importante è arrivare ad esprimerli in modo molto chiaro e schematico per dare loro una risposta. Questo perché spesso la persona disabile deve organizzare un certo numero di azioni in un tempo limitato e predefinito. Sulla scelta degli assistenti e sul loro reperimento invece volevo aggiungere qualche cosa riguardo dell’albo degli assistenti. Secondo i principi della Vita Indipendente vogliamo scegliere l’assistente personale nel mondo libero. Non incanaliamoci in un’altra restrizione, in un’altra burocrazia, in un’altra iscrizione perché altrimenti facciamo un sacco di passi indietro. Sul reperimento invece mi collego al discorso dell’autovalutazione. Il reperimento è una cosa che può avvenire ovunque. Dipende dal fatto di avere le idee chiare su chi si vuole reperire. A questo proposito c’è un altro discorso relativo al fatto che è necessario cambiare l’ottica con la quale si guarda al lavoro dell’assistente personale. Un po’ alla volta si configura come una nuova professione via via che aumentano le persone con disabilità che vanno in giro con gli assistenti personali. E quindi il reperimento, se prima avveniva attingendo tra i cittadini stranieri (in grandissima quantità, regolari e non regolari), studenti (perché sono le persone maggiormente flessibili a eventualità di trasferte, orari un po’ diversi, ecc…), ora, lentamente, invece si sta aprendo a tutti i cittadini che scelgono di fare questa professione. L’altro giorno ho ricevuto questa e-mail, e la cito come esempio: una ragazza di Padova di trent’anni che ha detto “io faccio l’impiegata amministrativa da nove anni, questo lavoro – regolare, nessuno la mandava via – non mi soddisfa più. Ho sentito parlare di Vita Indipendente, vorrei saperne di più perché vorrei fare l’assistente personale.” Sono rimasta colpitissima da questa cosa. Naturalmente abbiamo parlato. Può essere un’idea… Tornando invece al discorso dello spostamento, o della voglia di passare da un servizio all’altro chiedo a Dino Barlaam di rispondere. Dino Barlaam viene da Roma e ha un’agenzia per la Vita Indipendente insieme ad altre persone con disabilità. Lavora al Comune di Roma.
Dino Barlaam (coordinatore pro-tempore del Coordinamento nazionale italiano per la Vita Indipendente delle persone con disabilità, esponente dell’AVI – Agenzia per la Vita Indipendente – di Roma).
Grazie per avermi invitato. Vorrei dire una cosa rispetto alle affermazioni del Sindaco. Se contrattare è un peso, allora non si vive perché la vita è fatta di mediazioni e contrattazioni continue. Per cui, a monte, la persona che non ha voglia di contrattare, decide di non essere nemmeno autonoma perché, ad esempio, anziché mangiare da sola si fa imboccare perché è più comodo, si fa prima, si fa più svelti, ecc. Per cui attenzione a quando si dice “appesantire”, è come quando uno dice “vado a vivere da solo, oppure ci pensa mamma e papà?”… è più comodo per certi versi, però poi per altri si sconta un prezzo molto alto, ben più alto di quello che può sembrare all’apparenza. Per cui tutto questo peso nella gestione non lo vedo, ma vedo soprattutto una possibilità di libertà, una possibilità di organizzarsi la propria vita. Perché è molto più pesante l’idea del mansionario e degli orari applicato alla vostra vita quotidiana: immaginate che voi non possiate fare una cosa e stiate ai mansionari e agli orari degli altri. Significherebbe condurre una vita che è costruita su esigenze che sono molto spesso di altri. Questo condiziona, appesantisce molto di più il senso della vita, il senso dell’azione sociale. Mentre in un rapporto più diretto c’è una maggior capacità di comprensione. In questi giorni stiamo girando un filmato sulla Vita Indipendente e, a un certo punto, uno degli attori afferma che bisogna avere una capacità matura di contrattare con l’altra persona perché anche l’altra persona ha i suoi limiti. Per cui si tratta veramente di acquisire quella capacità di essere adulti e non di essere quelli che vengono chiamati solo “per darci una pacca sulla spalla”. L’avrete detto sicuramente prima di me che alcuni quando ci incontrano in giro parlano con l’assistente e non parlano con noi perché pensano che se uno non cammina non è in grado di esprimere le sue opinioni. Questo è il modo che i servizi pubblici per molto tempo hanno utilizzato per interagire la persona con disabilità, e più in generale l’utente, perché con la persona anziana è la stessa cosa, con la persona indigente è la stessa cosa: ve lo dice chi ha girato diversi settori per motivi lavorativi. Per cui c’è l’utente, ma tanto succede a lui, non è che succede a me… questo un po’ il senso. E qui cambia il concetto perché le persone con disabilità vogliono prendersi cura di loro stessi, non vogliono che altri si prendano cura, se non in quelle che sono le attività relative alla non autosufficienza. Ma non certo prendersi cura e sostituirsi a loro per fare e scegliere cose. Questo è molto importante. Purtroppo rischio di ripetermi perché sono arrivato da poco, probabilmente sono cose che già avete detto.
Elisabetta Gasparini
Riformulo la domanda: si chiedeva se ci sono delle esperienze di passaggio da un tipo di servizio all’altro.
Dino Barlaam
Sì, si, ho capito. E’ solo che mi ha colpito perché se uno la prende come un peso la Vita Indipendente, poi rischia di considerare un peso la vita.
Silvano Crecchi
No, mi faccia chiarire. Io sto sostenendo che contrattare nell’ambito di un progetto di Vita Indipendente può rappresentare un peso e non che sia un peso la Vita indipendente. Per chiarire meglio a cosa intendevo riferirmi le parlerò di un’esperienza diretta. Una signora anziana mia concittadina, di fronte all’erogazione di un contributo economico per garantirsi un minimo di assistenza si è rivolta più volte a me per chiedere di avere in luogo del contributo economico una prestazione garantita da un operatore mandato dal servizio pubblico. Si è espressa chiedendo di essere letteralmente “liberata” da questa cosa semplicemente per un fatto: perché lei aveva un nipote che non riusciva a trovare lavoro e che aveva diversi problemi personali. In ragione di questa situazione personale il nipote voleva andare a dormire da lei e, sapendo del contributo per l’assistenza, stava imponendosi come il suo assistente. Questa signora aveva grandi difficoltà a rifiutare l’assistenza del nipote, provava imbarazzo a riferirgli che lei desiderava l’assistenza di una persona terza, e che non voleva farlo adagiare su questa situazione che era comoda per lui, e meno comoda per lei. Dal momento che si parte dal presupposto che la Vita Indipendente è prima di tutto una conquista culturale e dunque l’acquisizione di un modello, di una vera e propria filosofia che riguarda la persona con disabilità che vuole raggiungere questa forma di libertà, io mi chiedevo se non ci fosse la necessità, per alcune persone, di una forma di aiuto nel compimento di questo percorso. Un percorso che non ritengo facile per tutti. Io mi immagino tanti anziani del mio paese che se si ritrovassero improvvisamente a ottantacinque anni a dover gestire un rapporto di lavoro credo che avrebbero delle difficoltà. Ecco, dicevo questo, non che il fatto della contrattazione sia un peso maggiore rispetto al beneficio di una vita libera e dell’autodeterminazione. Lo capisco da solo che non c’è paragone tra il fastidio di un adempimento burocratico e invece l’orientarsi verso una vita piena che poggia sull’autodeterminazione a cui ha diritto ogni uomo, e che è essenziale all’essere umano. La possibilità di autodeterminarsi non è un problema solo della persona disabile.
Dino Barlaam
Per quanto riguarda le diverse esperienze, confermo che è possibile trovare esperienze di gestione mista dei servizi, cioè dove ci sono servizi preorganizzati che convivono con servizi autogestiti. Questo però è un aspetto residuale perché poi sostanzialmente le risorse economiche che vengono investite sulle singole persone molto spesso non sono così cospicue per cui non si possono offrire entrambe le cose. Però in determinate situazioni di non autosufficienza particolare ci sono dei casi in cui convivono l’assistenza domiciliare classica e l’assistenza in forma autogestita. Però, come diceva già Elisabetta, tendenzialmente quando la persona acquisisce la possibilità di autogestire, per cui in qualche modo diventa più consapevole di quello che può fare, per forza di cose cerca di organizzarsi in proprio perché alcune questioni non possono essere risolte dai servizi classici per motivi di organizzazione e di maggiore rigidità. Immaginiamo le uscite di sera, immaginiamo i festivi, i fuori Comune… tutta una serie di situazioni che per un cittadino qualsiasi vengono risolte autonomamente. Per cui esistono cogestioni di servizi. Noi, per esempio, a Roma abbiamo istituito un’agenzia per aiutare le persone che lo vogliono – per cui non sono assolutamente obbligate, possono non rivolgersi a noi – ad avere dei servizi di supporto per coloro che hanno avviato l’assistenza in forma autogestita. Però è tutto lasciato alla libera scelta della persona. Si va dall’aiuto alla comprensione di cosa è questa forma di assistenza, alla segnalazione di operatori disponibili, anche se poi se li scelgono loro, nel senso che uno glieli propone, e poi loro decidono se avvalersene o meno. Diverse volte quelli che proponiamo non piacciono, allora se li cercano altrove. Per cui c’è la massima libertà alla gestione del rapporto di lavoro e all’aiuto nel rendiconto delle spese con l’amministrazione che gliele rimborsa. Questa è un’esperienza che ormai è attiva da tre anni e che noi abbiamo fatto nascere a Roma dopo che le persone con disabilità avevano percepito che questo finanziamento all’assistenza autogestita era utile per loro. Per cui, quando i numeri cominciano a diventare grandi è ovvio che i bisogni che sono stati espressi precedentemente – la ricerca dell’operatore, ecc. ecc. – si moltiplicano e pertanto va fatto qualcosa di diverso. Perché l’assistenza autogestita non è neutra nel sistema di welfare, ma sicuramente va a modificare un’idea di welfare. Questo sta nelle cose, lo dovrebbero avere in testa tutti coloro che fanno i piani di zona. Il che non significa che si chiude tutto col semplice finanziamento: ti ho dato il finanziamento e ho risolto il problema, ma apre tutta un’altra serie di questioni. Per esempio è stato detto prima il discorso dei consulenti alla pari, e potremmo dire il discorso del mutuo aiuto che, se lo andiamo a rileggere su quella che è la Legge quadro dei servizi sociali, riguarda la parte del rafforzamento delle capacità personali. Per cui significa che le persone in generale, non solo le persone disabili, ma le persone in determinate situazioni hanno bisogno di riflettere di più su loro stesse per poter affrontare problemi e difficoltà che con le prassi ordinarie non si riuscirebbe a risolvere. Ecco, attraverso i gruppi di mutuo aiuto, attraverso la consulenza alla pari – cioè di persone con disabilità esperte, che hanno fatto un percorso di vita avanzato – si possono aiutare le altre che lo vogliono fare a porsi delle domande per poter poi trovare loro stessi delle risposte. Costruire questo è fondamentale, e deve andare di pari passo al finanziamento per l’assistenza, perché potremo dire che non è che perché uno assume la badante sta facendo Vita Indipendente. No: può fare il “vegetale” con l’operatore della cooperativa e fare il “vegetale” con la badante… Allora va costruito un ragionamento di sviluppo che fa capo alla persona; questo è il discorso. Così come poi nasce l’esigenza di avere degli operatori disponibili. Oggi questo compito è assolto attraverso le reti informali, molto spesso con le parrocchie, a volte con circuiti di associazionismo, ecc. è ovvio che i servizi cercheranno poi di migliorare e mettere a punto un sistema dove possano essere raccolte delle candidature, però in maniera sempre del tutto libera, non obbligatoria: questo servizio è vincente se c’è un buon rapporto tra la persona con disabilità e l’assistente che viene scelto. Altrimenti anche quello diventa un rapporto subito. Per cui vediamo che non si può limitare il ragionamento solo e semplicemente al finanziamento.
Enrico Lombardi
In merito alla domanda “provocazione” del sindaco, mi piaceva dire due cose. Per quanto riguarda la sperimentazione triennale sulla Vita Indipendente che si è svolta qui in Toscana, alla quale anche io ho partecipato, in merito al discorso di servizi integrati tra loro, all’inizio del percorso ci hanno fatto firmare una dichiarazione nella quale rinunciavamo ad ogni altro tipo di servizio. Magari poi, chissà, in futuro le cose cambieranno, non voglio dire che questo è l’orientamento della Regione, però questi ad oggi sono i fatti. Poi, ricollegandomi al discorso di Elisabetta che nessuno ha scelto mai di tornare indietro, quando ha detto “innanzi tutto ci deve essere un servizio”, mi ha fatto venire in mente che nel Nord Europa, in Svezia, anni fa (l’anno preciso non me lo ricordo, penso sia negli anni ’80), si è formata una cooperativa di utenti (denominata STIL) che però partivano da una cospicua base di ore di assistenza erogata in modo tradizionale. Questi utenti si sono uniti tra loro e hanno detto alla municipalità: “noi rinunciamo al servizio domiciliare, però te – municipalità – ci dai quei soldi che avresti speso per noi”. Però si partiva da una base che non sono le due – tre ore settimanali di cui parlava Elisabetta. C’è un filmato, che ora è un po’ vecchiotto, fatto dalla Cooperativa STIL dove si vede questa signora – che è la protagonista –una signora tetraplegica che vive da sola. Tetraplegica vuol dire che non è autonoma in niente, come si direbbe da noi è h24 e forse anche di più se fosse possibile, e che però vive in una casa da sola. Nel filmato lei è scocciata perché ha un turnover continuo di operatori che arrivano e che vengono ad ogni ora del giorno e della notte; il suo problema era che non li aveva scelti. Faceva sorridere chi lo vedeva a quel tempo “ma, averlo l’operatore che viene a tutte le ore!” Ecco: lì si partiva da uno stato sociale – quello dei Paesi del Nord Europa – abbastanza diverso da quello a cui siamo abituati noi (coi pro e coi contro). Però è chiaro che il punto di partenza deve essere che in primo luogo ci deve essere l’assistenza, poi mettersi d’accordo sui tipi, sui dettagli, è il passo successivo.
Intervento dal pubblico: volevo dire due parole in relazione a quanto è stato detto e in specifico mi riferisco anche io a STIL, tanto per dare il senso della dimensione mi pare di ricordare dal filmato che girassero 40 operatori alla settimana. Qui se ne girano due è già troppo. Come viene scelto nel filmato di STIL l’assistente personale? Con un annuncio sul giornale. C’è anche un altro filmato di STIL nel quale si vede che i disabili mettono degli annunci sul giornale e si presentano delle persone che sono disposte a fare questo tipo di lavoro. La persona disabile è informata, sa come gestire la questione. La domanda tipica é: perché vuoi fare l’assistente personale? E solitamente vengono scartati tutti quelli che vogliono fare questo lavoro per qualche delusione, ecc., ci possono essere tanti motivi psicologici che possono indurre a fare questo tipo di scelta. Tipicamente viene scelto colui che dice “mi sono trovato senza lavoro, voglio farne un altro, ho bisogno di lavorare”. Viene scelta questa persona perché questa persona non è già strutturata. Il concetto è che il disabile deve essere colui che chiede quello di cui necessita e forma il proprio operatore (la persona che dovrà operare con lui), questo è fondamentale. Io temo molto tutta la strutturazione che si può fare su albi o altre cose. Tutto ciò che è strutturato secondo me può essere semplificante, però laddove entra il controllo sociale su una scelta personale, là io mi sento in difficoltà. Non dico che non ci possano essere dei percorsi “di passaggio”, però bisogna puntare sul discorso che “io persona portatrice di diritti ho a che fare con un’altra persona con cui faccio un contratto, che è essa stessa portatrice di diritti (in quanto lavoratore), e mi rapporto da pari a pari. Io ho un rapporto di lavoro con questa persona ed ho dei risultati dal suo operare che vanno a supplire ciò che non riesco a fare da solo”. L’operatore entra in ballo perché non posso fare tutto da solo, altrimenti non ci sarebbe la necessità di assumerlo. Quindi cerchiamo di fare attenzione a tutto ciò che è strutturato (albi, ecc.), perché si torna ad un rapporto in qualche modo di dipendenza da una persona che viene per una qualche ragione che non sia quella del lavoro puro e semplice.
Elisabetta Gasparini
Visto che abbiamo sollevato il discorso di STIL vorrei raccontarne brevemente la storia. Stiamo parlando dell’’89 (venti anni fa). Dieci persone con disabilità sono andate alla municipalità di Stoccolma e hanno parlato della possibilità di passare da un tipo di assistenza tradizionale ad uno in forma indiretta, poi hanno fatto la cooperativa che, a differenza del nostro concetto di cooperativa, è composta esclusivamente da utenti del servizio. L’hanno costituita solo per darsi delle possibilità di assunzione e amministrative, perché noi utilizziamo il contratto di collaborazione domestica come unica possibilità che ha un privato per fare un contratto diretto, loro invece si sono autoagregati in cooperative di utenti e la cooperativa è il datore di lavoro. Per accedere all’indiretta a quell’epoca alla municipalità di Stoccolma bisognava che la persona con disabilità partecipasse ad un corso di formazione tenuto da STIL. Dopo quel corso, che durava otto incontri, e di cui abbiamo fatto una traduzione dallo svedese, la persona decideva se presentare la domanda per l’indiretta oppure no. Erano e sono ben strutturati. Questo corso prevedeva nel primo incontro quello che per noi è un percorso minimo annuale: l’autovalutazione dei bisogni. Loro erano abituati ad avere anche 24 ore di assistenza nella forma tradizionale, cosa che da noi non esiste. Ho conosciuto una donna con 48 ore di assistenza giornaliera, perché aveva due figli piccoli e, dopo l’incidente stradale, non bastava un solo assistente per lei e per accudire i figli. Figuratevi che budget mostruoso hanno convertito dall’assistenza tradizionale a quella indiretta, quindi per loro era semplice. Anche il discorso degli annunci sul giornale su come trovare un assistente era semplice perché il mondo del lavoro era (ed è) aperto. Infatti dal primo esempio di Stoccolma a quando su tutto il territorio svedese si è aperta la possibilità dell’assistenza personale con pagamenti diretti sono passati dieci anni durante i quali, mi hanno detto (non so se sia vero), sono state assistite più di diecimila persone con disabilità impiegando più di quarantamila persone. Stiamo parlando di cifre notevoli, di gente che se ne è tornata al lavoro, di famiglie liberate che sono tornate al lavoro, di assistenti che hanno lavorato a tempo pieno, quindi di contribuenti che entrano a far parte del sistema. Cose lontane da noi, lontanissime ancora adesso. E, alla fine di questo corso di formazione, l’ultima lezione riguardava la consapevolezza dell’assunzione di responsabilità. Da noi invece è tutto un po’ allo sbaraglio. Questa è la strada, bisogna percorrerla per gradi. Gli annunci sono un’ottima forma di reperibilità, però noi in Italia siamo un po’ disabituati a questo tipo di mestiere e a questo tipo di annunci. Faccio un esempio paradossale: io abito al mare e vado in spiaggia, entro in acqua con una carrozzina da mare e ho bisogno di un uomo, o un ragazzo (una donna non ce la fa) che mi porti in acqua, ma se mettessi un annuncio del tipo: “persona disabile di cinquant’anni cerca un assistente personale di venticinque per andare a fare il bagno”, come minimo mi censurerebbero l’annuncio. Loro invece fanno così, hanno una chiara autovalutazione dei bisogni, esprimono una richiesta altrettanto chiara e quindi è più semplice trovare l’assistente giusto che sia disposto a fare quella cosa e quel lavoro … che bello che sarebbe!
Intervento dal pubblico: le cose che sono state dette in qualche modo fanno parte dell’italianità, però, secondo me, tendere a strutturare anche questo aspetto [ci si riferisce al fatto che alcune agenzie dispongono di elenchi di persone disponibili a svolgere il lavoro di assistente personale e li mettano a disposizione delle persone disabili che ne fanno richiesta, N.d.R.] ci allontana dalla risoluzione del problema piuttosto che avvicinarci. E’ vero che i corsi dei disabili verso gli altri disabili – “Nulla su di noi senza di noi” – sono molto importanti per STIL perché attraverso essi avviene la presa di coscienza dei propri diritti, delle proprie capacità e ci si abitua a manifestare la propria volontà. Però attenzione perché strutturare, rivolgersi in luoghi preposti, proporre le parrocchie e le non-parrocchie, le strutture, le cooperative che propongono persone ecc.; tutto ciò ci allontana dal tendere alla direzione voluta. Anche se siamo lontani non si deve andare dalla parte opposta per arrivare a una meta, bisogna avvicinarsi alla meta, magari facendo curve, non facendo una strada diritta, ma comunque una strada che vada nella direzione giusta.
Elisabetta Gasparini
Magari dobbiamo concepire tutto questo come una banca dati di confluenza tra domanda e offerta e basta, escludendo tutto il resto.
Ida Sala
Secondo me tutte queste cose, i corsi, le agenzie, tutte queste strutture di supporto che sono state citate possono avere un senso se nascono da un’esigenza sul posto. E’ talmente poco diffuso il discorso della Vita Indipendente che non si può iniziare a pensarci partendo da “facciamo le agenzie”, “facciamo i corsi”, “facciamo gli elenchi”. Cominciamo a capire che cos’è e a preparare il territorio ad accogliere le possibili domande, prepariamo la persona che le accoglie, prepariamo i soldi che potrebbero servire, prepariamo delle linee guida. Facciamo l’esempio della Lombardia: hanno cominciato a mettere nelle varie delibere la parola Vita Indipendente però la prima cosa che hanno fatto, i primi soldi che hanno deciso di spendere per la Vita Indipendente sono stati per un centro di programmazione, formazione per chi magari non è capace, non è ancora in grado di formulare … non ho capito bene. La gente che vuole fare Vita Indipendente c’è già, saranno pochi, non sono usciti allo scoperto, però cominciamo a pensare a come rispondere a quei pochi. Poi, se in un certo territorio nasce la necessità di fare un corso, di aprire un ufficio per raccogliere le domande e le offerte, cara grazia! Vuol dire che c’è tanta domanda e c’è tanta Vita, tanto bisogno di Vita Indipendente.
Intervento dal pubblico: secondo me c’è da valutare un punto, noi italiani siamo veramente un popolo stranissimo, strano è anche il mondo della disabilità. Ognuno di noi tende a costruire piccole associazioni a propria immagine e somiglianza. Quindi ci disgreghiamo continuamente, ci facciamo le guerre interne, non siamo propositivi verso lo Stato e nel rivendicare i nostri diritti. Siamo veramente autodistruttivi sotto questo punto di vista. Noi abbiamo tutta una serie di diritti nel campo della mobilità, dei trasporti, ecc. eppure mezz’ora fa ero al telefono con un ragazzo di Catania al quale una compagnia aerea ha rifiutato l’imbarco sostenendo che il suo respiratore interferiva con i comandi dell’aeroplano. Si è rivolto ad un’altra compagnia aerea, con un altro scalo, ed è stato regolarmente imbarcato. Ora mi dovrebbero spiegare perché il respiratore interferisce con i comandi su un aereo e non sull’altro. Se non incominciamo a farci valere anche in tali situazioni siamo totalmente inefficaci. Noi abbiamo delle potenzialità, ma se vogliamo rimanere vivi e crescere la prima cosa che dobbiamo fare è unirci e lottare in ogni contesto dove ci sono violazioni dei diritti. Ma prima dobbiamo chiarirci tra di noi, smettere di farci la guerra a vicenda creando ogni giorno associazioni nuove e diverse. Quindi, una volta che ci siamo chiariti, dobbiamo rivendicare i nostri diritti nei confronti dello Stato. I finanziamenti che vengono stanziati per noi sono l’esito di scelte politiche, per questo motivo i rapporti con le Amministrazioni vanno coltivati. I soldi che lo Stato, le Regioni, i Comuni ci danno vanno sempre rendicontati per un motivo di trasparenza. Spesso nelle riunioni si sente dire: “se ti diamo i soldi direttamente si rischia di incentivare il lavoro al nero”. Io rispondo sempre “quando date dei soldi chiedete come li spendono, fatevi dare delle pezze d’appoggio, ma non negate l’assistenza”. Quando la mattina apro la porta odio vedermi una faccia nuova che mi porta in bagno! Io questo lo odio: non so mai chi mi porterà… Dobbiamo fare autocritica. In Toscana ci sono dei movimenti, delle associazioni e ci facciamo la guerra tra di noi. Smettiamola una buona volta.
Altro problema: perché ci deve essere una differenza così eclatante tra il Veneto, la Lombardia, la Toscana, la Campania, la Calabria….? Siamo tutti sul territorio italiano! Il diritto dei lombardi dovrebbe essere uguale a quello dei calabresi. Se non incominciamo ad abbattere questi muri non arriveremo da nessuna parte.
Elisabetta Gasparini
Credo che ci trovi tutti d’accordo. Comunque alle volte ci sono percorsi che si avvitano. Questo succede anche da noi (in Veneto). Noi abbiamo fatto tanta, tanta fatica per andare a spiegare alla Regione che vogliamo la libertà della famiglia. Successivamente ci sono state altre associazioni che sono andate a dire “ma caspita, ma perché non ci posiamo assumere la mamma, la zia, il cugino, ecc. e avete fatto questa delibera”… e ricominciamo tutto da capo. In ordine di priorità dobbiamo: reperire le risorse, predisporre il percorso di erogazione dei contributi, andare alle Amministrazioni e dire “il percorso è questo, le rendicontazioni sono chiare, questo è quello che ti proponiamo, è una delle risposte possibili da dare”. Poi dobbiamo differenziare la gamma dei servizi in modo che ogni persona con disabilità – o comunque non autosufficiente – possa scegliere quello che desidera. Poi dobbiamo darli questi servizi, e non sentirci dire “no, mi dispiace, non ci sono soldi”… cosa questa che ci accomuna davvero. Se vogliamo fare un passo avanti rispetto a quelle che mi sembra siano le esigenze regionali, e visto che in Toscana c’è questa L.R. 66/2008 sul fondo per la non autosufficienza, e visto che la sperimentazione si è conclusa, bisognerebbe che qui, come dappertutto, la smettessimo di parlare di sperimentazione perché ormai questa cosa è supercollaudata. Bisogna che l’assistenza indiretta entri a far parte della gamma dei servizi e che tutte le persone con disabilità con i requisiti di gravità e con un’assunzione di responsabilità che desiderano chiederla ce l’abbiano.
Dino Barlaam
In questi giorni ho cercato di vedere un po’ l’aspetto normativo, lo stato dell’arte e soprattutto la disciplina del fondo per la non autosufficienza, perché in esso si trovano i fondi in più che arrivano rispetto all’esistente. Intanto la Regione Toscana, dopo aver approvato la Legge Regionale n. 41/2005 nella quale è prevista anche l’assistenza autogestita per la Vita Indipendente, ha dato un’indicazione anche rispetto alle priorità e la domiciliarità è tra queste. Gli interventi di assistenza per la Vita Indipendente sono riconducibili alla domiciliarità perché favoriscono la permanenza nella propria abitazione. A ciò si aggiunga che il 25 maggio 2009 scorso è stata fatta anche la Delibera n. 434 di riparto del fondo, in base alla quale anche alla Zona Valdera sono stati assegnati i fondi. Allo stato attuale, nonostante non siano state disciplinate alcune cose che dovevano essere modificate nel Piano integrato sociale regionale (PISR), dal momento che i fondi sono stati ripartiti e verranno spesi, chi è interessato intanto cominci a presentare le domande alla Società della salute (SdS) – che dovrebbe essere l’organo deputato alla gestione dei fondi – in forma libera. Così che, nel momento in cui nei Piani di Zona si dovrà deliberare su cosa fare di questi fondi, ci sia un minimo di pressione da parte vostra affinché si provveda ad adottare anche questo provvedimento. Perché in realtà i provvedimenti che dovevano modificare il PISR non sono stati adottati per nessuno (nemmeno per gli anziani, per i quali tali provvedimenti dovevano essere adottati alcuni mesi fa, nel febbraio scorso). Però nelle delibere di Giunta questo aspetto non è citato, questo vuol dire che, se nelle premesse un atto non è citato, quell’atto non è stato fatto. Se fosse stato fatto lo avrebbero citato perché quella sarebbe la fonte da cui proviene la deliberazione successiva. Per cui, ad esempio, pur non avendo deliberato in merito ai servizi per gli anziani, hanno deliberato degli stanziamenti per le RSA (residenze sanitarie assistite). Ma anche rispetto a questo stanziamento avrebbero dovuto fare prima un provvedimento che non è stato fatto, eppure i soldi sono stati stanziati e spartiti nelle diverse aree. Venendo io da una città abbastanza grande (Roma), dove le risorse spesso girano così, poi per il cittadino è molto difficile capire come poter incidere, per questo motivo consiglio alle persone che sono interessate a questo tipo di assistenza di presentare comunque le loro domande in forma libera. Tanto per essere chiari, ricordo che, quando uscì la Legge 162/98 (che prevedeva il finanziamento di progetti di assistenza per la Vita Indipendente),la Regione Lazio emanò una normativa di recepimento della Legge nazionale nella quale stanziava per il Comune di Roma un miliardo delle vecchie lire, però il Comune di Roma non ne faceva richiesta. Allora noi abbiamo fatto fare una domanda ai possibili utenti in modo da far pressione sul Comune affinché richiedesse questi soldi. Quindi il mio consiglio è questo, in qualche modo vi dovranno rispondere e a quel punto si apre il dibattito. Però intanto direi che le richieste si possono formalizzare perché c’è una Legge Regionale e i soldi sono stati ripartiti: vi devono rispondere, e se vi dicono di no dovranno spiegare “perché no”. Nella domanda citate la L.R. 66/2008 e la delibera n. 434 del 25 maggio 2009 che assegna i fondi al territorio a cui appartenete.
Enrico Lombardi
Poco tempo fa c’è stato un incontro con l’assessore regionale alle politiche sociali, Gianni Salvadori, che informava del fatto che stanno predisponendo delle linee guida in tema di progetti per la Vita Indipendente; ha detto di non sapere quali saranno le risorse disponibili. Ha preannunciato che ci sarà una selezione, perché le risorse sono quelle che sono, insufficienti, che in Toscana i disabili sono tanti. Ha già fatto capire che non ci sarà un’apertura generalizzata. Anzi, dovranno individuare dei criteri di accesso perché verranno fatti dei bandi. La cosa che mi preoccupa di più è che sembra quasi che si tenda a dare la precedenza a progetti di vita legati al lavoro, allo studio o a un’attività documentata, piuttosto che al semplice bisogno di assistenza. Mi preoccupa che si voglia far passare l’assistenza personale autogestita come un premio per una sorta di elite di persone disabili che, pur nella loro condizione handicap in stato di gravità, sono riuscite a mettere in campo una professionalità da spendere nel mondo del lavoro, che stanno facendo un percorso di studi, ma non si considerano altri che per ragioni varie non ci sono riusciti o non ne hanno la possibilità. Ma queste sono impressioni personali.
Dino Barlaam
Nel Lazio i progetti di assistenza personale autogestita per la Vita Indipendente sono stati finanziati dagli enti che li hanno attivati – poi ci sono i Comuni come Viterbo che dicono “a noi ancora non interessa” – con fondi comunali (chi ce li ha), i piccoli Comuni si sono rivolti alle Province chiedendo che contribuissero – sappiamo che le Province hanno una funzione residuale per quel che concerne le politiche sociali, però abbiamo chiesto che facessero la loro parte perché i piccoli Comuni non riescono ad affrontare da soli tutte le questioni – e qualche progetto è stato finanziato proprio con i fondi delle Province, poi si sono aggiunti i fondi regionali che sono un’altra cosa ancora. Non è che ci possiamo fermare con un solo interlocutore. Mi sembra che a Firenze abbiano attivato alcuni progetti e non credo che siano tutti fondi che derivano dalla sperimentazione. Dunque prendiamo atto che ci sono diversi atti normativi che prevedono questo tipo di servizi: lo Statuto della Regione Toscana, la Legge Regionale n. 41/2005 (Sistema integrato di interventi e servizi per la tutela dei diritti di cittadinanza sociale), la più volte menzionata Legge Regionale n. 66/2008, la delibera n. 434 del 25 maggio 2009. A questo punto, considerando che non è compito del cittadino sapere dove vanno recuperati i soldi, ma anche che è sua (del cittadino) prerogativa quella di vedersi riconosciuto un diritto, non ci sono motivi per non presentare la domanda. La stessa operazione l’abbiamo fatta nel Lazio sul Fondo regionale per la non autosufficienza chiedendo di far stanziare dei soldi specificamente destinati nella delibera di riparto. Questo non vuol dire che i soldi della Legge che recepiva la Legge 162/98 non li utilizziamo, al contrario i due stanziamenti si sommano. Pertanto vi consiglio di promuovere anche qui in Toscana la stessa operazione. Non vorrei dire cose spiacevoli, però se si corre dietro all’assessore di turno, poi si rischia di perdere di vista l’obiettivo. Il cittadino deve avere una sua strategia che non può essere la strategia dell’assessore o del sindaco di turno perché poi loro fanno il loro percorso e vanno via. Per questo è importante saper utilizzare più canali. La Regione Toscana è una delle prime regioni ad aver riconosciuto la Vita Indipendente, eppure mentre molte Regioni d’Italia sono riuscite a sviluppare i progetti, qui siamo ancora a parlare dei trenta casi della sperimentazione. C’è qualcosa che non funziona, c’è qualche meccanismo che mi sfugge. Quindi si deve continuare la battaglia per la stabilizzazione del servizio a livello regionale, ma contemporaneamente non bisogna perdere di vista le altre opportunità che si vengono a creare. C’è stata l’intelligenza di prevedere questo servizio nel testo di Legge e questo vi dà diritto a chiedere che nel fondo vengano riconosciute delle risorse destinate a tal fine: questa è l’operazione da fare adesso. Mettiamo “la bandierina”, perché in questo modo non solo creerete un servizio per gli utenti della Valdera, ma diventerete un esempio per gli altri.
Elisabetta Gasparini
Fino ad ora abbiamo parlato di Vita Indipendente in termini generali, ora vi proponiamo un taglio più personale, e cominciamo dall’esperienza delle persone qui presenti che hanno vissuto un percorso di Vita Indipendente. Cominciamo da Enrico.
Fonte: Atti del seminario “Volere volare. Vita Indipendente delle persone con disabilità” (Peccioli, 27 giugno 2009), contenuti nel volume “Volere volare. Vita indipendente delle persone con disabilità”, a cura di Simona Lancioni, Peccioli, Informare un’h, 2012.
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Ultimo aggiornamento il 24 Aprile 2013 da Simona