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Omicidio-suicidio a Corleone, parla una madre-caregiver: «mio figlio non è un mio prolungamento. È un’altra persona»

di Sara Bonanno

Continua a suscitare riflessioni la recente vicenda, avvenuta a Corleone (Palermo), nella quale una donna con disturbo dello spettro autistico è stata uccisa da sua madre, che era anche la sua caregiver. Questa volta a prendere la parola è Sara Bonanno, madre e caregiver di Simone, un giovane uomo con una disabilità con necessità di sostegno intensivo. Scrive, tra le altre cose, Bonanno: «Quando è morto mio marito, quando ho perso il lavoro e sono rimasta sola con mio figlio gravissimo, anch’io ho pensato che l’unica soluzione fosse farla finita insieme a lui. Per fortuna qualcuno aveva già cominciato ad insegnarmi, con Simone piccolissimo, e successivamente io stessa ho imparato a mie spese una cosa terribile e liberatoria: mio figlio non è un mio prolungamento. È un’altra persona».

Immagine sfuocata di una donna (foto realizzata da Vera su Pexels).

L’altro giorno ho ascoltato una serie d’interviste ai parenti della mamma che, rimasta vedova, ha strangolato la figlia autistica, Giuseppina Milone, e poi si è impiccata [si riferisce alla vicenda, avvenuta lo scorso 5 dicembre a Corleone (Palermo), nella quale una donna con disturbo dello spettro autistico è stata uccisa da sua madre (che era anche la sua caregiver), che poi si è suicidata, se ne legga a questo link, N.d.R.].

Tutti, nessuno escluso, hanno ripetuto la stessa frase: «Non erano sole, assolutamente no. Avevano otto operatori che si alternavano e noi familiari eravamo sempre presenti con affetto».

Una rete invidiabile, sulla carta.

Io, invece, dal primo giorno di vita di mio figlio non ho più parenti. Posso anche aver salvato qualche rapporto con i meno tossici della mia famiglia, ma per mio figlio è un’altra storia: tutti «gli vogliono un mondo di bene», tutti «sono affezionatissimi», però quando serve una mano concreta spariscono come fantasmi.

Allora la domanda vera, quella che nessuno di quei parenti si è posto in televisione, è: se domani fosse toccato a uno di voi prendere in carico Giuseppina, chi l’avrebbe fatto davvero?

Non parlo di adottarla o portarsela a casa, parlo solo di garantire che fosse seguita bene, che qualcuno si occupasse seriamente del suo futuro.

Ecco, lì casca l’asino.

E lì vediamo il buio che tutti noi caregiver conosciamo fin troppo bene.

Ma c’è una riflessione ancora più dura da mandar giù, e lo so che molti la troveranno scomoda. Siamo davvero sicuri che Giuseppina, a 47 anni, non vedesse altra via d’uscita se non la morte insieme alla madre?

La madre la capisco, ci sono passata.
Quando è morto mio marito, quando ho perso il lavoro e sono rimasta sola con mio figlio gravissimo, anch’io ho pensato che l’unica soluzione fosse farla finita insieme a lui. Per fortuna qualcuno aveva già cominciato ad insegnarmi, con Simone piccolissimo, e successivamente io stessa ho imparato a mie spese (e per la verità sto ancora faticosamente imparando) una cosa terribile e liberatoria: mio figlio non è un mio prolungamento.
È un’altra persona.

È difficilissimo da accettare, soprattutto per noi genitori di figli disabili, perché succedono due cose contemporaneamente:

  1. Ti rendi conto che al mondo, dei diritti di tuo figlio, non frega niente a nessuno: per lo Stato è una voce di costo, per i parenti una rogna, per la «rete solidale» un modo per sentirsi buoni cinque minuti.
  2. Ti convinci, quasi per sopravvivenza, che solo tu puoi capirlo davvero, che siete una cosa sola, un’unica mente e un unico corpo. L’amore diventa possesso, e il possesso ti rende cieco.

Ma tuo figlio non pensa con il tuo cervello, non sente con la tua pelle, non ha il tuo cuore nel petto.
Ha il suo.
È altro da te.
E ha diritto a una vita che non dipenda esclusivamente dalla tua esistenza.

Giuseppina aveva 47 anni.

A 47 anni chiunque di noi si è costruito un’esistenza diversa da quella dei genitori.
La disabilità grave non annulla questo diritto, lo rende solo più difficile da vedere.
Dobbiamo smettere di pensare i nostri figli come eterni bambini e iniziare a considerarli adulti fin da piccoli – sì, anche a 6 o 7 anni – non perché sappiano fare le cose dei coetanei, ma perché sono persone.
Persone separate da noi.

Se non impariamo questo, continueremo a ucciderli con le nostre mani o con la nostra disperazione, convinti di fare la cosa più amorevole del mondo.

Giuseppina non meritava di morire perché la mamma aveva paura del domani.
Meritava che qualcuno, anni prima, avesse avuto il coraggio di immaginare per lei un domani senza la mamma.

 

Vedi anche:

Marta Migliosi, Voglio tutte le sorelle disabili, non solo vive, ma anche libere, «Informare un’h», 11 dicembre 2025.

Simona Lancioni, L’uccisione delle persone con disabilità e la tendenza a empatizzare con l’omicida, «Informare un’h», 10 dicembre 2025.

Centro Informare un’h, Omicidi-suicidi: proposta di regolamentazione delle comunicazioni pubbliche, «Informare un’h», 20 febbraio 2023.

 

Ultimo aggiornamento il 11 Dicembre 2025 da Simona