di Matteo Menozzi
«La mia battaglia per la vita indipendente continua, ma ogni giorno diventa più evidente che, in Italia, la parola autonomia è ancora troppo spesso solo un’etichetta da esibire nei bandi e nelle conferenze stampa, o ancora dai politici», è questa l’amara conclusione a cui giunge Matteo Menozzi, una persona con disabilità visiva, dopo aver illustrato tutte le difficoltà e le barriere incontrate nel rivendicare il proprio diritto a un progetto di vita.

Mi chiamo Matteo Menozzi e questa storia inizia a tredici anni, quando ho scoperto di avere una disabilità visiva grave e incurabile. Oggi di anni ne ho trentotto, sono laureato in Relazioni Internazionali ed Europee e mi manca un solo esame alla laurea in Giornalismo. Da oltre dieci anni combatto per i miei diritti, in particolare per quello, fondamentale, di poter lavorare e vivere in modo indipendente, fuori dalla casa dei miei genitori, come fanno i miei coetanei e mio fratello minore, sette anni più giovane di me e senza disabilità.
Per anni ho vissuto un senso di frustrazione e impotenza, vedendo calpestato il mio diritto a un progetto di vita che mi permettesse di costruirmi un futuro autonomo: una casa mia, magari condivisa con coinquilini scelti da me, anche fuori provincia — vivo a Parma —, e un lavoro che non mettesse a rischio la mia salute.
Nel 2022, finalmente, ho firmato un progetto di vita legato ai fondi del PNRR [Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, N.d.R.]. Ma fin da subito sono emerse ombre e ambiguità. L’assessment iniziale [la valutazione iniziale, N.d.R.] prevedeva test obbligatori, e mi sono trovato costretto a sottopormi a valutazioni sull’autismo, nonostante non mi fosse mai stata diagnosticata alcuna condizione di quel tipo.
Tra il 2022 e il 2023 ho lavorato per Sefora Impresa Sociale – ANFFAS [Associazione Nazionale di Famiglie e Persone con Disabilità Intellettive e Disturbi del Neurosviluppo, N.d.R.]. Il lavoro in sé mi piaceva, ma l’ambiente era malsano. L’azienda, nel tentativo di presentarsi come modello inclusivo, voleva assumere solo persone nello spettro autistico. Io, non essendolo, sono stato sottoposto a fortissime pressioni psicologiche per eseguire i test. L’ansia e la tensione erano tali che un giorno, mentre camminavo nervosamente sul binario della stazione, sono svenuto e mi sono ritrovato in mezzo ai binari del treno.
Nel frattempo, i colloqui sul mio progetto di vita continuavano, e gli assistenti sociali avevano deciso che la mia “casa per l’autonomia” dovesse essere condivisa con altre persone con disabilità, alcune delle quali non comunicavano verbalmente. Un contesto che, per me, significava isolamento e annullamento personale. Il progetto, infatti, prevedeva attività “inclusive” che, nella realtà, si traducevano in esperienze segreganti, con l’obiettivo di insegnarci a gestire la quotidianità domestica, ma senza tenere conto delle reali esigenze individuali.
Dal 2023 al 2025 ho lavorato a Bologna. Da luglio 2025 non ho più un impiego e sono di nuovo in cerca. La prima fase del progetto si è formalmente chiusa a fine gennaio 2025: tra gennaio e maggio una psicologa mi ha sottoposto a una nuova valutazione, intervistando anche i miei genitori e compilando un questionario sulla qualità della mia vita. Il documento è stato poi letto in UVM [Unità di Valutazione Multidisciplinare, N.d.R.] prima del 3 ottobre 2025, ma, a oggi — 3 novembre 2025 — non ho ancora ricevuto alcun riscontro ufficiale.
Sul piano umano il progetto non è stato del tutto negativo: con gli educatori il rapporto è buono. Tuttavia, dal punto di vista amministrativo e comunicativo, la gestione è stata a dir poco carente. Anche la presentazione iniziale del progetto è risultata ingannevole: non tutto era chiaro, e molto è stato taciuto.
Mi era stato detto che nella struttura in cui sarei stato trasferito — in prosecuzione del progetto finanziato dal PNRR — c’erano dodici posti. In realtà, come riportato da un articolo relativo a una conferenza stampa del 28 o 29 ottobre 2025, si parlava di “almeno dodici posti”, lasciando intendere che sarebbero potuti diventare venti nel complesso denominato Il Portico. Io stesso, però, ho espresso chiaramente la volontà di non andare a vivere lì, per diverse ragioni: la mancanza di privacy, l’incertezza sul numero di camere e, soprattutto, l’impossibilità di scegliere con chi condividere gli spazi. La selezione dei coinquilini, infatti, non è lasciata all’utente ma decisa “a pacchetto” dal servizio.
Ho espresso le mie rimostranze sia durante la compilazione del progetto sia pubblicamente, commentando un post del Consorzio Solidarietà Sociale (CSS) su Facebook. La risposta ufficiale è stata di rivolgermi al case manager, lo stesso che aveva già respinto alcune mie richieste fondamentali: la gestione diretta dei fondi per scegliere l’educatore, la possibilità di avere l’educatore a domicilio e un lavoro a tempo pieno (8 ore) che, al termine del progetto, mi permettesse di vivere da solo, in una casa scelta da me, con risorse sufficienti per le spese e una vita sociale dignitosa. Anche questa richiesta, però, è stata respinta: “Non ci sono lavori adatti al tuo profilo”, mi è stato detto.
Attualmente percepisco la NASpI [indennità mensile di disoccupazione, N.d.R.], ma nessuno mi ha proposto reali opportunità. Le poche possibilità lavorative che ho individuato sono frutto delle mie ricerche personali su LinkedIn e Indeed. Anche il consulente del lavoro del Comune, nonostante la buona volontà e qualche suggerimento utile, non è riuscito a trovare soluzioni concrete.
Un altro problema riguarda la rigidità dei progetti: gli incontri con gli educatori sono limitati a quattro ore due volte a settimana, organizzati in slot fissi. Da qui a marzo 2026 sono previsti due incontri settimanali, dal lunedì al venerdì. Tuttavia, la mia disponibilità lavorativa sarebbe preferibilmente dal lunedì al sabato, poiché la domenica i mezzi pubblici sono scarsi e i pulmini comunali non funzionano.
E non è tutto. Più volte mi è stato detto, anche di persona, che se non avessi portato avanti il progetto, non avrei più ricevuto alcun aiuto nella ricerca di lavoro o in altri percorsi di autonomia. Eppure, l’unico “aiuto” concreto ricevuto finora è stato un ridisegno del curriculum vitae e, negli anni, una pressione costante a sottopormi a test psicologici e a essere posto sotto amministrazione di sostegno, misura che, di fatto, renderebbe più semplice indirizzarmi dove le istituzioni vogliono.
Al collocamento mirato, infine, regna il buio totale. Nessuno sa nulla, nessuno comunica, e la sensazione è quella di trovarsi intrappolato in un sistema che si dice inclusivo ma che, nei fatti, perpetua dipendenza e invisibilità.
La mia battaglia per la vita indipendente continua, ma ogni giorno diventa più evidente che, in Italia, la parola autonomia è ancora troppo spesso solo un’etichetta da esibire nei bandi e nelle conferenze stampa, o ancora dai politici, che usano alcuni influencer con disabilità per fare disability washing [consiste nell’utilizzare strumentalmente i temi della disabilità per migliorare la propria immagine pubblica o il proprio marchio, senza tuttavia prendere impegni concreti per la promozione dei diritti delle persone con disabilità o per la creazione di ambienti inclusivi per loro N.d.R.]
Ultimo aggiornamento il 5 Novembre 2025 da Simona