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Gaza e il diritto a mutilare

di Samuele Pigoni*

Corpi intrappolati sotto le macerie, persone costrette a strisciare, trascinate su materassi di fortuna, senza accesso ad acqua, cibo, cure o farmaci. Secondo il report dell’Onu, a settembre 2025, oltre 163.000 palestinesi risultano feriti a Gaza e circa un quarto di loro vivrà con conseguenze permanenti.

La copertina dell’opera “The Right to Maim: Debility, Capacity, Disability” (Il diritto di mutilare. Debolezza, capacità, disabilità) della teorica Jasbir K. Puar (Duke Univ Press, 2017).

Il 16 settembre 2025 Heba Hagrass e Francesca Albanese, relatrici speciali dell’ONU, hanno diffuso un avvertimento urgente che suona come una profezia già avverata: l’offensiva israeliana su Gaza City rischia di avere effetti “apocalittici” per la popolazione civile, in particolare per le persone con disabilità. Le relatrici descrivono corpi intrappolati sotto le macerie, persone costrette a strisciare, trascinate su materassi di fortuna, senza accesso ad acqua, cibo, cure o farmaci. Secondo il report, a Settembre 2025, oltre 163.000 palestinesi risultano feriti a Gaza e circa un quarto di loro vivrà con conseguenze permanenti che richiederanno riabilitazione e sostegni prolungati; dall’inizio dell’anno non è entrata alcuna sedia a rotelle nella Striscia, mentre il prezzo dei pannoloni per anziani non autosufficienti è aumentato da 5 a 150 dollari, segno del collasso totale dei sistemi di ausilio e assistenza.

È difficile leggere queste parole senza pensare al lavoro, purtroppo non ancora tradotto in italiano, The Right to Maim: Debility, Capacity, Disability [Il diritto di mutilare. Debolezza, capacità, disabilità, N.d.R.] della teorica Jasbir K. Puar (Duke Univ Press, 2017). Nel suo libro, Puar individua nella guerra e nel colonialismo contemporanei un passaggio decisivo: il potere non si limita più a decidere chi vive e chi muore (il diritto di uccidere), ma esercita il diritto a mantenere in vita corpi danneggiati, incapaci di autonomia, costretti a sopravvivere in una condizione permanente di vulnerabilità. È ciò che Puar chiama diritto a mutilare — una forma di potere che non elimina, ma conserva il dolore, lo prolunga, lo normalizza.

Nel caso di Gaza, questo diritto assume una forma brutale e paradigmatica. Non si tratta solo di una catastrofe umanitaria, ma di una strategia deliberata di debilitazione: un modo di governare la vita attraverso la lesione. Sparare per mutilare e non per uccidere; distruggere ospedali, scuole, infrastrutture sanitarie; tagliare energia, acqua e mezzi di riabilitazione. Tutto concorre a produrre una popolazione “viva ma non vivibile”. La disabilità, in questa prospettiva, non è un effetto collaterale: è una tecnologia politica, un modo per rendere i corpi dipendenti, prevedibili, gestibili. Come nota Puar, l’umanitarismo moderno opera spesso come maschera di un dominio della ferita che si traveste di cura: si spara per non uccidere, si parla di “proteggere i civili” mentre si distrugge ogni condizione per vivere. Il linguaggio della compassione diventa l’altra faccia della violenza.

Questa logica trova un’eco lancinante nel film-documentario della regista tunisina Kaouther Ben HaniaLa voce di Hind Rajab, vincitore del Leone d’Argento alla 82ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, candidato all’Oscar al miglior film straniero ai premi Oscar 2026 e ad oggi 4° in classifica al Box Office in Italia. Il film racconta gli ultimi minuti di vita di una bambina di sei anni rimasta intrappolata in un’auto colpita dal fuoco israeliano, mentre al telefono implora i soccorritori: “Venite a prendermi, sono ancora viva”. La sua voce è il suono puro della sospensione deliberata dell’aiuto: la distanza tra il diritto di essere salvata e la realtà di essere lasciata morire lentamente.

Leggere Gaza attraverso Puar significa dunque andare oltre la pietà e leggere l’azione strutturale della debilitazione che non è la somma delle ferite individuali ma la costruzione intenzionale di un ordine che trasforma la disabilità in condizione collettiva e la sopravvivenza in destino politico. Puar invita così a distinguere tra disabilità — l’identità giuridica e riconosciuta dal discorso dei diritti — e debilitazione, che è invece un processo sistemico di impoverimento e lesione che colpisce intere popolazioni. Gaza, oggi, si trova precisamente in questa intercapedine: una popolazione resa cronica, fragile, medicalizzata, ma priva del riconoscimento politico che altrove trasforma la vulnerabilità in diritto alla cura e (con tutti i limiti che spesso segnaliamo) alla cittadinanza.

In questo senso, l’allarme dell’ONU assume un valore che travalica l’emergenza. Riguarda il modo in cui il mondo organizza la vulnerabilità, chi decide quali vite meritano di essere guarite e quali di essere mantenute nel dolore. Gaza mostra il punto in cui il diritto internazionale, la filantropia e la retorica dei diritti umani incontrano il loro limite: quando la ferita diventa governance, e la disabilità smette di essere condizione per diventare dispositivo. Jasbir Puar scrive che “il diritto a mutilare non è un’anomalia del potere, ma la sua espressione più compiuta”. In questo senso, Gaza non è una devianza: è il volto nudo di un sistema che produce menomazione come forma di ordine.

Hagrass e Albanese scrivono che “in quanto potenza occupante, Israele deve essere ritenuto responsabile per aver violato i suoi obblighi ai sensi del diritto internazionale umanitario e del diritto internazionale dei diritti umani, incluso l’articolo 11 della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità” ed esortano tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite ad agire con urgenza in conformità con la Risoluzione 2475 del Consiglio di Sicurezza sulla protezione delle persone con disabilità in situazioni di conflitto armato. In questo scenario infatti, la Risoluzione 2475 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite — adottata nel 2019 — assume oggi valore tanto profetico quanto disatteso. È il primo testo a riconoscere che le persone con disabilità non sono vittime collaterali ma soggetti di diritto nei conflitti armati, titolari di protezione, accesso e partecipazione alle decisioni umanitarie. L’ONU chiedeva agli Stati di garantire soccorso, giustizia e servizi senza discriminazioni, in linea con l’articolo 11 della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità.

A Gaza, però, quella promessa è stata rovesciata: le persone con disabilità non sono state protette ma usate come misura del collasso del diritto umanitario. È da qui che andrebbe ripensata la responsabilità internazionale: non solo fermare la guerra, ma interrompere la politica della ferita che la guerra ha normalizzato.

 

* Segretario Generale della Fondazione Time2 di Torino. Il presente testo è già stato pubblicato sulla testata «HuffPost», e viene qui ripreso, con lievi adattamenti al diverso contesto, per gentile concessione.

 

Ultimo aggiornamento il 24 Ottobre 2025 da Simona