Che la Rete dei Servizi Antiviolenza sia impreparata ad accogliere le donne con disabilità è una cosa risaputa, di nuovo c’è che ora l’Istat ci dà i numeri di quanto questa pratica discriminatoria sia diffusa. E tuttavia leggendo i dati dell’Istituto di Statistica si potrebbe pensare che le uniche donne con disabilità che hanno difficoltà di accesso a questi Servizi siano quelle con disabilità psichiatrica. Ma purtroppo non è così.
Qualcosa è cambiato. Intendo dire che da quando mi occupo di contrasto alla violenza sulle donne con disabilità – da diversi anni curo una specifica sezione documentaria su questi temi –, ho sempre avuto la chiara percezione di come la Rete dei Servizi Antiviolenza sia impreparata ad accogliere queste donne, ma ora c’è un nuovo elemento. Ora disponiamo di un dato oggettivo: l’Istat ci dice* che il 94,1% delle Case rifugio si è dotata di criteri di esclusione dall’accoglienza delle ospiti, e che l’80,7% di esse non accoglie donne con disagio psichiatrico (se ne legga in questo approfondimento). E non deve trarre in inganno il fatto che l’Istat fornisca solo i criteri di esclusione adottati dalle Case rifugio, perché solitamente esse sono gestite dai Centri Antiviolenza, ed è quindi altamente improbabile, per non dire impossibile, che questi ultimi siano estranei a quei meccanismi di esclusione.
Insomma, se prima mancavano i dati, ora quel 94% ci racconta che la pratica discriminatoria posta in essere dai Servizi Antiviolenza è così generalizzata da avvicinarsi alla totalità di essi. Reazioni da parte dei Servizi in questione a questo dato? Non pervenute. La pratica è così abituale da non destare interesse, così assimilata da non essere percepita come discriminatoria. Eppure la Convenzione di Istanbul (vale a dire la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica), che è stata ratificata dall’Italia con la Legge 77/2013, ovvero quella che dovrebbe essere la Bibbia per chi opera nella Rete Antiviolenza, prescrive esplicitamente che tutti i servizi devono essere erogati nel rispetto dei princìpi di uguaglianza e non discriminazione.
Dunque, qualunque cosa si raccontino i Servizi Antiviolenza, deve essere inequivocabile che negare il proprio aiuto anche a una sola donna vittima di violenza è discriminazione! E purtroppo i criteri di esclusione rilevati dall’Istat non sono l’unico ostacolo incontrato dalle donne con disabilità nell’accedere a questi Servizi, né si può dire che le donne con disabilità escluse siano solo quelle con disabilità psichiatrica. È invece corretto affermare che, sebbene le donne con altri tipi di disabilità non siano formalmente incluse tra quelle rientranti nei criteri di esclusione, quando la loro situazione presenta qualche complessità aggiuntiva rispetto a quella abituale, anch’esse vengono escluse dai Servizi.
Può tornare utile fare qualche esempio di casi realmente accaduti.
Ho avuto diversi riscontri di donne cieche non accolte nelle Case rifugio perché accompagnate dal loro cane guida. Ora, a parte il fatto che le norme (la Legge 37/1974, successivamente integrata dalla Legge 60/2006) sanciscono espressamente che il cane guida deve poter accedere a tutti gli ambienti assieme alla persona cieca, chiedere a quest’ultima di separarsi dal cane guida è l’equivalente di chiedere ad una persona in sedia a rotelle di rinunciare al suo ausilio di autonomia. Ma come si fa?
Ho seguito il caso di una donna sorda vittima di violenza respinta dai Centri Antiviolenza perché le operatrici «non sapevano come comunicare con lei». Questa donna è stata respinta anche dai Servizi per la disabilità perché lei, pur essendo disabile, non aveva alcuna certificazione della sua condizione, e senza questa certificazione i Servizi per la disabilità sostenevano di non poterla prendere in carico. Ma intanto quella donna, a casa propria, rischiava la vita, e se oggi è ancora viva si deve a chi agendo fuori dalla Rete Antiviolenza ha smosso mari e monti per tirarla fuori da casa.
La cronaca ha restituito il caso di una donna con disabilità motoria non autosufficiente che ha subito maltrattamenti e violenze fisiche ad opera della sorella caregiver per quattro anni perché quest’ultima voleva indurla a trasferirsi in una struttura per disabili. Tuttavia, scoperta e arrestata la caregiver maltrattante e violenta, la donna con disabilità è stata trasferita in meno di 24 ore in una struttura per disabili, ossia esattamente nella sistemazione per evitare la quale aveva preferito subire le violenze di sua sorella per quattro anni (se ne legga a questo link). In merito alla vicenda potemmo anche raccontarci che si tratta di un caso isolato, ma la verità è che per le donne non autosufficienti che subiscono violenza non sono previste alternative all’istituzionalizzazione, sebbene il Comitato ONU per i diritti delle persone con disabilità, nelle sue “Linee guida” del 2022, affermi che l’istituzionalizzazione è essa stessa una forma di violenza contro le persone con disabilità (si veda il seguente approfondimento). E no, il problema non è che queste donne non sono autosufficienti, il problema è semmai che pur sapendo che le donne con disabilità sono soggette a violenza più delle altre donne, la Rete dei Servizi Antiviolenza non predisponga per loro servizi di accoglienza che non siano segreganti.
Recentemente si è rivolta al centro per cui lavoro una donna con disabilità motoria di Padova. Sosteneva di essere vittima di diverse forme di violenza e di essersi rivolta ai Servizi Antiviolenza territoriali. Aveva deciso di contattare anche me perché pare che dopo i primi colloqui le operatrici dei Centri Antiviolenza si fossero disinteressate di lei. Il centro per cui lavoro non è un Centro Antiviolenza (si occupa di informazione e divulgazione), dunque l’ho indirizzata ad altri Servizi territoriali con la raccomandazione di chiamarmi ancora qualora non avesse risolto. Ebbene, dopo alcuni tentativi, ho dovuto re-indirizzarla allo Sportello CHIAMA chiAMA di Bologna, uno dei pochi in Italia che so essere preparati ad accogliere donne con disabilità. Da allora si è più fatta viva, dunque presumo abbia trovato ascolto.
Ho inoltre riscontro di donne con disabilità psichiatrica vittime di violenza che quando si sono rivolte ai Servizi Antiviolenza per essere aiutate, non solo non hanno ricevuto aiuto, ma sono state sottoposte ad una valutazione della loro capacità genitoriale attuata con dei test che non tenevano conto delle loro caratteristiche, e che ha portato i Servizi a levare loro i figli e le figlie (si legga a questo link il testo Rosalba Taddeini e Flavia Landolina dell’Associazione Differenza Donna). Anche su questa pratica devo essere molto chiara: non accogliere una donna disabile vittima di violenza è una discriminazione, ma approfittare di una richiesta di aiuto per levare i figli e le figlie ad una madre è violento e crudele insieme. Infatti, se nell’interazione con la donna venissero riscontrate delle difficoltà nello svolgimento del ruolo genitoriale, sarebbe opportuno predisporre tutti i supporti utili affinché la donna in questione possa svolgere al meglio tale ruolo. L’opzione di levarle i figli dovrebbe essere presa in considerazione solo dopo che sono stare tentate ed escluse tutte le altre possibilità, ma per la Rete dei Servizi Antiviolenza levare i figli è l’unica opzione contemplata.
Un altro elemento di criticità è costituito dal fatto che i Servizi Antiviolenza continuano a lavorare con strumenti di valutazione del rischio che non tengono conto delle caratteristiche delle donne con diverse disabilità. Le donne con limitazioni funzionali hanno oggettivamente minori possibilità di sottrarsi alla violenza rispetto alle donne senza disabilità, ma tali strumenti non sono predisposti per rilevare e ponderare tale dato, e questo porta a sottostimare rischio effettivo a cui sono esposte le donne con disabilità.
Vero è anche che molte donne con disabilità non vengono respinte dai Servizi Antiviolenza perché a quei Servizi non ci arrivano proprio. Ciò sia per la presenza di barriere fisiche e sensoriali, ma anche perché, a parte poche lodevoli eccezioni che ho provato a segnalare in questo specifico repertorio, le informazioni relative ai Servizi Antiviolenza, e più in generale le informazioni in tema di violenza di genere non sono divulgate in formati e su supporti accessibili a donne con esigenze comunicative specifiche o complesse (ad esempio: linguaggio facile da leggere e da capire, comunicazione aumentativa alternativa, lingua dei segni). Ed ovviamente si rimane parecchio deluse se nella miriade di campagne di comunicazione sui temi della violenza di genere promosse da Istituzioni e Soggetti della società civile ci si aspetta di trovare rappresentate, o anche solo citate, le donne con disabilità.
A ciò si aggiunga che ad essere penalizzate non sono solo le donne con disabilità, ma anche le madri di figli e figlie con disabilità. Ma non basta, le donne disabili che scappano dalla violenza devono anche stare bene attente a non uscire dei loro territori di residenza, perché quando lo fanno c’è sempre qualche Ente territoriale che solleva questioni di pertinenza per la copertura dei costi di soggiorno.
Le cose non vanno certo meglio se apriamo il capitolo dell’accesso alla giustizia. Già nel 2016 il Comitato ONU per i diritti delle persone con disabilità aveva espresso preoccupazione «per la mancanza di formazione del personale in materia di non discriminazione nel settore giudiziario», «per l’insufficienza della lotta contro gli stereotipi negativi», «per l’inaccessibilità del sistema giudiziario relativamente alle informazioni e alle comunicazioni», ed aveva espresso specifiche raccomandazioni per superare tali criticità. Raccomandazioni che, ad oggi, risultano ancora completamente ignorate (se ne legga in questo approfondimento). Rispetto al tema dell’accesso alla giustizia è inoltre importante ricordare che il Forum Europeo sulla Disabilità ha più volte evidenziato la connessione con il persistere di istituiti di tutela giuridica improntati ai regimi decisionali sostitutivi e la pratica della sterilizzazione forzata, nonché di altre forme di coercizione riproduttiva ai danni di donne con disabilità. Anche in Italia gli istituti di tutela giuridica mirano a sostituirsi alla persona con disabilità e non a supportarla nelle decisioni e a consentirne la massima autodeterminazione, come richiesto dalla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità. Se dunque vogliamo prevenire le diverse forme di coercizione riproduttiva è indispensabile intervenire anche sulla disciplina degli istituiti di tutela giuridica.
In conclusione ci tengo a segnalare che qualche Servizio Antiviolenza che non discrimina le donne con disabilità c’è anche qui in Italia (i pochi che ho individuato li trovate qui), e che sono state prodotte anche due specifiche Linee guida per accogliere le donne con disabilità vittime di violenza. È importante dare queste informazioni per evitare alle donne con disabilità l’umiliazione di vedersi respinte dai Servizi Antiviolenza, ed anche per dare a questi ultimi elementi per acquisire consapevolezza che è concretamente possibile reimpostare la propria attività adottando una modalità realmente inclusiva di tutte le donne.
Simona Lancioni
Responsabile di Informare un’h – Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa)
* Il 94,1% delle Case rifugio (317 in valori assoluti) si è dotata di criteri di esclusione dall’accoglienza delle ospiti. L’81,9% delle Case rifugio (276 in valori assoluti) non accoglie donne che fanno abuso di sostanze e con dipendenze; l’80,7% (272 Case rifugio) non accoglie donne con disagio psichiatrico; il 71,2% (240) donne senza fissa dimora; il 37,1% (125) donne vittime di tratta e prostituzione; il 20,8% (70) quelle prive di uno specifico status giuridico; il 19,9% (67) donne agli ultimi mesi di gravidanza; il 10,1% (34) donne respinte sulla base di altri criteri di esclusione (dati relativi all’anno 2021, Tavole 16 e 17 del file con i dati sulle Case rifugio contenuto in: Istat, Sistema di protezione per le donne vittime di violenza – anni 2021-2022, 7 agosto 2023). Ulteriori criteri di esclusione dall’accoglienza sono applicati dal 61,4% delle Case rifugio (207 in valori assoluti) in relazione ai figli e figlie delle ospiti. Il 42,4% delle Case rifugio (143) pongono limiti all’età nell’accoglienza dei figli/figlie delle ospiti, il 48,4% (163) pongono limiti di genere, il 7,7% (26) ulteriori criteri di esclusione (dati relativi all’anno 2021, Tavola 18 del file con i dati sulle Case rifugio contenuto in: Istat, Sistema di protezione per le donne vittime di violenza – anni 2021-2022, 7 agosto 2023).
Vedi anche:
Quando sono le Case rifugio a discriminare tra donne vittime di violenza, «Informare un’h», 1 settembre 2023.
Il rapporto Istat sul Sistema di protezione per le donne vittime di violenza e la disabilità, «Informare un’h», 30 agosto 2023.
Servizi antiviolenza preparati ad accogliere donne con disabilità – 2022.
Linee guida per accogliere donne con disabilità vittime di violenza – 2022.
Dossier – Convenzione di Istanbul e donne con disabilità – 2023.
Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “La violenza nei confronti delle donne con disabilità”.
Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “Donne con disabilità”.
Ultimo aggiornamento il 3 Ottobre 2023 da Simona