Alle Paralimpiadi Estive di Tokyo, che si stanno svolgendo in questi giorni, partecipa anche il Team dei rifugiati composto di sei atleti, una donna e cinque uomini, originari di Siria (tre), Burundi, Iran e Afghanistan. È difficile tifare e gioire per la delegazione paralimpica italiana senza pensare a chi fugge da guerre, persecuzioni, violazioni dei diritti e povertà. Prendendo spunto da un testo apparso su «L’Osservatore Romano», raccontiamo di seguito qualcosa delle vite dei componenti di questa squadra.
«Non sono libera se una qualsiasi altra donna non lo è, anche se le sue catene sono molto diverse dalle mie», mi torna in mente questo pensiero di Audre Lorde (1934-1992), poeta ed esponente del femminismo nero statunitense, mentre leggo su «L’Osservatore Romano» l’interessante articolo di Giampaolo Mattei intitolato Tifando per chi è nato senza braccia a Kabul (del 23 agosto 2021). In esso Mattei racconta le storie dei sei atleti – una donna e cinque uomini, originari di Siria (tre), Burundi, Iran e Afghanistan – di cui si compone il Team dei rifugiati alle Paralimpiadi che hanno preso il via ieri, 24 agosto, e che si protrarranno sino a domenica 5 settembre a Tokyo, l’affollata capitale giapponese che conta quasi 14 milioni di abitanti. Mi viene in mente il pensiero di Lorde perché è difficile tifare e gioire per «la delegazione [italiana] più numerosa di sempre», come l’ha definita nei giorni scorsi Luca Pancalli, presidente del CIP (Comitato Italiano Paralimpico), senza pensare che non tutti gli atleti e le atlete paralimpici sono liberi, e non importa quanto siano distanti i loro Paesi, e neppure quanto siano diverse le loro catene, sono sempre uomini e donne in fuga da guerre e persecuzioni.
«La squadra paralimpica dei rifugiati rappresenta 82 milioni di persone che sono state costrette a fuggire da guerre, persecuzioni, violazioni dei diritti e povertà: di queste, 12 milioni hanno una disabilità» racconta al quotidiano della Città del Vaticano Andrew Parsons, presidente del Comitato paralimpico internazionale che, da anni, collabora con il Pontificio Consiglio della cultura e Athletica Vaticana «per promuovere un cambiamento di mentalità di fronte alla disabilità, anche con lo sport» (grassetti miei nella presente citazione, ed in quelle successive). Il Team dei rifugiati è cresciuto di numero, ai Giochi di Rio de Janeiro, nel 2016, si componeva di solo due atleti: Ibrahim Al Hussein e Shahrad Nasajpour, entrambi sono anche a Tokyo. Scopro chi sono e conosco anche gli altri componenti del Team.
Ibrahim Al Hussein, nato nel 1988 a Deir al Zor, in Siria, è divenuto disabile nel 2012, mentre fuggiva dal suo Paese, dopo aver prestato soccorso un suo amico colpito da un cecchino. «Era a terra e gridava aiuto» racconta. «Sapevo che se fossi andato ad aiutarlo avrei potuto essere colpito. Ma poi non mi sarei mai perdonato di averlo lasciato in mezzo alla strada», spiega, pochi secondi dopo una bomba gli esplode accanto. Questo il bilancio: «Ho perso la parte inferiore della gamba destra e ho avuto danni anche alla sinistra. Mi ha soccorso un dentista…». Ibrahim era un ottimo nuotatore, come anche suo padre, che aveva vinto in vasca 2 argenti ai campionati asiatici. Ovviamente non si rassegna, raggiunge Istanbul dove alcune persone gli procurano «una protesi precaria, ma meglio di nulla: dovevo ripararla ogni 300 metri». Il 27 febbraio 2014, che per Hussein segna l’«inizio della mia seconda vita», riesce a lasciare la Turchia, e attraverso un viaggio avventuroso e l’aiuto di persone generose arriva ad Atene. Qui un medico, Angelos Chronopoulos, gli dona una vera protesi anche se lui non può pagarla. «Con la protesi ho trovato lavoro, pulivo i bagni alla stazione degli autobus, e ho ripreso anche a fare sport», racconta. Da allora è un crescendo: dal 2015 inizia ad allenarsi nella piscina realizzata per le Olimpiadi e Paralimpiadi di Atene 2004, recupera le sue abilità di nuotatore, inizia vincere alcune competizioni, fino a quando riceve «l’incredibile invito a partecipare, come rifugiato, alle Paralimpiadi di Rio de Janeiro del 2016».
«Abbiamo un detto in Siria: fai del bene e gettalo nell’oceano… un giorno ti tornerà indietro. Quell’amico che aiutai per strada non solo è sopravvissuto, ma ora ha tre figli. E se per aiutarlo ho perso la gamba… la vita mi ha restituito tanto in generosità da persone che non conoscevo», conclude Hussein, che oggi abita ancora ad Atene dove lavora come artigiano di souvenir.
«Ho scritto montagne di mail, imperterrito, a tutti senza farmi abbattere dai no!» racconta Shahrad Nasajpour a «L’Osservatore Romano». «E l’ho fatto non avendo nulla in mano, presentandomi come un uomo — nato con una paralisi cerebrale — appena arrivato, era il 2015, negli Stati Uniti dall’Iran in cerca di asilo e di una vita migliore», sottolinea. La sua fiducia e ostinazione nel fatto che un Team di rifugiati potesse partecipare alle Paralimpiadi era tale da riuscire nell’impresa di infilarsi, proprio all’ultimo momento, in quello dei Giochi di Rio de Janeiro 2016. Pur avendo molte limitazioni alla mobilità, aveva iniziato a praticare qualche sport già in Iran. Inizialmente praticava soprattutto il ping-pong, poi era passato ai lanci nell’atletica, ed ha continuato a fare sport anche dopo aver lasciato l’Iran tra mille problemi, ed essere giunto a Buffalo (nello Stato di New York). Racconta: «Quando sono entrato nello stadio di Rio con la bandiera del Comitato paralimpico mi passavano per la mente tutte le difficoltà che avevo superato nella mia vita ed era chiaro che non ero lì, a Rio, solo per me stesso ma per tutte le donne e gli uomini con disabilità e con la vita complicate». Dopo Rio ha completato gli studi conseguendo una laurea in politica di gestione pubblica presso l’Università dell’Arizona. Recentemente è stato ammesso alla George Washington University, che frequenta con il seguente proposito: «Voglio aiutare le persone con disabilità e rifugiate a trovare una strada nella vita anche con lo sport, devo restituire tutto il bene che ho ricevuto».
«Quando si nasce disabili in Afghanistan si è considerati senza speranza» racconta Abbas Karimi, che è nato senza braccia a Kabul. Al bullismo «reagivo con violenza, ho avuto un’infanzia molto arrabbiata e senza lo sport non so che brutta fine avrei fatto», ricorda. Per difendersi e sfogare la rabbia, a dodici anni inizia praticare kickboxing, ma a cambiargli la vita è stato «l’incontro con l’acqua». «Ero spaventato, senza braccia temevo di affogare. Avercela fatta mi ha dato fiducia e da quel giorno il nuoto è la mia oasi di felicità!» Spiega. Coi piedi Karimi riesce a fare tutto: mangia, scrive e guida la macchina. Così descrive la sua situazione: «Credo che Dio mi abbia preso le braccia… “per sbaglio”, ma mi ha dato un talento straordinario nei piedi». Karimi illustra anche i motivi che lo hanno indotto a lasciare Kabul per recarsi in Turchia, dove tra il 2013 e il 2016, ha vissuto in quattro diversi campi profughi. Racconta: «C’era un clima di paura. La gente della mia tribù, gli Hazara, è un bersaglio dei talebani. Eravamo sempre in pericolo, così a 16 anni sono scappato in Iran e poi ho iniziato un viaggio straziante di tre giorni attraverso le montagne fino in Turchia. I contrabbandieri mi misero su un camion affollatissimo. Poi ho dovuto camminare per chilometri, con la paura di essere catturato. Un viaggio impossibile per tutti, figuriamoci per un ragazzo senza braccia. Ma ero determinato, volevo una nuova vita. Ce l’ho fatta!». In Turchia continua a nuotare e a vincere gare. Nel 2015 Mike Ives, un allenatore statunitense, lo vede gareggiare in un video postato su Facebook e lo invita a Portland (Oregon). L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati lo ha portato a Tokyo. Oggi si allena con Marty Hendrick, a Fort Lauderdale, in Florida. «Quando morirò, voglio che la gente sappia che Abbas Karimi, senza braccia, non ha mai rinunciato ai suoi sogni. Sì, nuotando posso fare qualcosa persino io per cambiare il mondo!» Dice con orgoglio.
Parfait Hakizimana è nato in Burundi nel 1988, e a Tokyo gareggia nel taekwondo. Nel 1996 il campo di sfollati dove viveva venne attaccato e sua madre venne uccisa. Hakizimana, che aveva appena otto anni, riportò una grave ferita al braccio sinistro, che non è più riuscito a recuperare, sebbene lo sport lo abbia aiutato a migliorane la funzionalità. Quando ha iniziato a praticare il taekwondo aveva 16 anni, a 22 ha aperto una scuola, che è stata attiva sino al 2015, quando l’intensificarsi delle violenze lo ha spinto a lasciare il Burundi per rifugiarsi in Rwanda. «Sono fuggito dal mio Burundi perché avevo molta paura di essere ucciso come mia madre» racconta. Oggi insegna taekwondo a 150 persone, anche bambini, nel campo profughi di Mahama. «I rifugiati non hanno più nulla, a volte neppure una piccola speranza, ma lo sport li aiuta a dimenticare i problemi e a intravederla, quella speranza». Ha una moglie ed una figlia e vorrebbe tornare in Burundi ad aprire una palestra per insegnare taekwondo «dando così attraverso lo sport una possibilità, anche piccola, ai più giovani, perché non finiscano stritolati nella spirale delle violenze».
Anas Al Khalifa, classe 1993, è nato a Hama, in Siria. Nel 2001 la guerra ha disperso la sua famiglia e lui si è ritrovato in un campo di sfollati al confine con la Turchia. Per raggiungere la Germania ci ha messo un anno. Nel 2018, mentre stava montando dei pannelli solari, ebbe un incidente che gli ha procurato una lesione spinale e un percorso fatto di operazioni, ricoveri, riabilitazioni. Lo sport è stato la sua salvezza. «Mi hanno suggerito la canoa ed ecco che ho incontrato Ognyana Dusheva, bronzo alle Olimpiadi di Seoul nel 1988 per la Bulgaria. Non sapevo cosa fosse il kayak e soprattutto non avevo fiducia in me stesso. Oggi quando remo non percepisco più la mia disabilità e la mia forza di volontà fa il resto». L’unico tentennamento che ha rischiato di allontanarlo dallo sport lo ha avuto quando ha appreso la notizia della morte di suo fratello, ucciso in uno scontro a fuoco in Siria. Tuttavia è riuscito a reagire: «anche per mio fratello, per tutti coloro che sono disperati nei campi profughi, continuerò con la canoa: se ce l’ha fatta un profugo con la schiena paralizzata… possono farcela tutti!».
E veniamo all’ultima componente e unica donna del Team. Alia Issa ha vent’anni, un’origine siriana, e tanta grinta: «A Tokyo voglio mostrare alle giovani donne con disabilità, e in particolare alle donne rifugiate, che lo sport può aprire un mondo di possibilità». Issa racconta di quando, nel 1996, suo padre ha lasciato la Siria per la Grecia nella speranza di offrire una vita migliore alla propria famiglia: «Ha lavorato tanto, fino a quando ha risparmiato abbastanza soldi per farsi raggiungere dalla famiglia. E io, la quinta figlia, sono nata in Grecia nel 2001». Poi, quando aveva quattro anni, ha contratto il vaiolo ed è stata ricoverata in ospedale: «Ho avuto danni cerebrali che mi hanno costretto sulla sedia a rotelle con gravi problemi, anche a parlare». Frequentare la scuola l’ha esposta al bullismo e all’esclusione. È riuscita a reagire alla morte del padre e alla precarietà economica grazie alla passione per sport e con il supporto di Michalis Nikopoulos, il suo insegnante di educazione fisica. Oggi Issa pratica il club throw, l’equivalente paralimpico del lancio del martello, e sogna di diventare una medica. (Simona Lancioni)
Vedi anche:
Giampaolo Mattei, Tifando per chi è nato senza braccia a Kabul, «L’Osservatore Romano», 23 agosto 2021.
Lavinia D’Errico (intervista a), Rifugiati e richiedenti asilo con disabilità: una questione che riguarda tutti, a cura di Stefano Borgato, «Superando.it», 25 agosto 2021.
Ultimo aggiornamento il 26 Agosto 2021 da Simona