di Simona Lancioni
Non agire la violenza in prima persona ci mette al riparo da ogni responsabilità riguardo ad essa? E ancora: quanta responsabilità abbiamo nelle vite degli altri? Tanta, se non sosteniamo la predisposizione degli strumenti necessari per sanzionare le discriminazioni e le violenze ai danni di gruppi di persone che vi sono particolarmente soggette. In alcune circostanze anche “non fare” è un comportamento colpevole.
Basta ascoltate un notiziario, consultare un sito di informazione, o leggere un giornale per farsi un’idea di quanto siano spaventosamente frequenti gli episodi di violenza. Violenza contro le donne, violenza per motivi razziali, violenza omofoba, violenza contro le persone con disabilità, violenza nei confronti di minori o persone anziane, violenza contro le persone grasse, ecc. In che modo questi episodi di violenza ci riguardano? Ci possono riguardare perché anche noi potremmo esserne o divenirne vittime, e per quanto ci impegnassimo ad evitare situazioni di rischio, molto difficilmente questo rischio potrà essere annullato. Oppure la cosa potrebbe riguardarci perché potremmo essere o divenire noi stessi autori o autrici della violenza, un’eventualità che non possiamo escludere del tutto poiché nessun essere umano è buono o cattivo per natura, ma certo, poiché divenire violenti/e dipende da una scelta individuale, decidere che questa modalità non fa per noi ci fornisce un ragionevole margine di sicurezza rispetto ad uno sviluppo di questo tipo. Ora proviamo a considerare la posizione di chi non è né una vittima di violenza, né una persona violenta. Questi soggetti, che costituiscono una moltitudine, hanno un ruolo rispetto al fenomeno della violenza? Non agire la violenza in prima persona ci mette al riparo da ogni responsabilità riguardo ad essa?
È di pochi giorni fa la notizia di un episodio di bullismo ai danni di una dodicenne con disabilità avvenuto Roma (Andrea Barsanti, Dodicenne disabile picchiata da bulle, gli amici riprendono il pestaggio, «RomaToday», 27 aprile 2021). Stando ai media la dodicenne è stata oggetto di un pestaggio ad opera di due ragazzine ritenute le principali autrici dello stesso, mentre gli inquirenti stanno valutando la posizione di altri tre ragazzi, tutti minorenni, che in qualche modo avrebbero avuto un ruolo attivo nella vicenda. Il fatto è accaduto in un parco. Diverse persone hanno assistito al pestaggio, alcune lo hanno ripreso con i telefonini e hanno postato il video su social e chat. Solo in ritardo qualcuno è intervenuto per allontanare le bulle. Le condizioni della vittima sono gravi (un trauma cranico, lividi, contusioni varie, shock psicologico). I suoi genitori si sono rivolti al Centro Nazionale Contro il Bullismo – Bulli Stop. Ferme le responsabilità di chi ha commesso materialmente la violenza, quali responsabilità ha chi, invece di cercare di fermare il pestaggio, l’ha ripreso col telefonino? Quali chi ha contribuito a divulgare il video? Quali chi si è limitato a guardare? Quale i genitori delle autrici e degli eventuali autori della violenza? Quali la scuola e, più in generale, la comunità educante? Posto che solo alcune di queste responsabilità saranno stabilite dai giudici, possiamo convenire sul fatto che non è sufficiente non agire violenza in prima persona per “considerarsi innocenti”. In alcune circostanze anche “non fare” – non cercare di porre fine alla violenza, non chiamare tempestivamente i soccorsi, non educare alla gestione pacifica dei conflitti e al controllo dell’aggressività, non attribuire particolare importanza agli episodi di violenza definendoli “ragazzate” – è un comportamento colpevole.
Si potrebbe pensare che queste considerazioni si applichino solo alla cerchia di prossimità, agli ambienti nei quali si verificano i specifici episodi. Ma non è così. In realtà abbiamo una responsabilità ogni volta che possiamo prendere posizione contro la violenza e non lo facciamo; oppure lo facciamo “ad intermittenza”: no alla pedofilia, ma le donne che denunciano gli stupri spesso lo fanno per convenienza; o, ancora, lo facciamo in modo “poco convinto”: sarei anche favorevole ad una Legge che stabilisse delle aggravanti per la discriminazione e la violenza agita per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità – come previsto nel Disegno di Legge Zan attualmente in discussione in Parlamento –, ma poiché il contrasto all’omofobia è un tema divisivo meglio mantenere un basso profilo.
Il citato Disegno di Legge Zan, del quale abbiamo già avuto modo di occuparci (si veda il seguente approfondimento), si configura anche come una norma di contrasto all’abilismo. Approvato alla Camera dei Deputati nel novembre 2020, esso è ora approdato in Senato dove sta incontrando l’opposizione dei partiti più conservatori. Se consideriamo che le discriminazioni ai danni delle persone con disabilità sono impregnate di cultura abilista, è congruente aspettarci di trovare tra i soggetti più attivi nel promuovere la norma in questione anche l’associazionismo delle persone con disabilità, invece, almeno sino ad ora, l’attenzione espressa al riguardo dal “mondo della disabilità” sembra essere abbastanza tiepida. Qualche post di adesione su Facebook – lo hanno fatto, ad esempio, l’Associazione Famiglie SMA (atrofia muscolare spinale), e la UILDM Nazionale (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), SensibilMente ODV –, qualche dichiarazione estemporanea alla stampa di qualche figura di spicco ma solo a titolo personale, qualche attivista. Dunque, almeno per il momento, non sembra che per l’associazionismo delle persone con disabilità rinforzare il contrasto all’abilismo costituisca una priorità. Viene da chiedersi: per chi dovrebbe esserlo?
«Allora il Signore disse a Caino: “Dov’è Abele, tuo fratello?”. Egli rispose: “Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?”» (Genesi 4,9). Nella Bibbia Caino, dopo aver ucciso suo fratello Abele per invidia, risponde a Dio che gli chiede conto di dove sia Abele con una domanda interessante non solo per i cattolici: «Sono forse io il custode di mio fratello?» Un quesito che volto in una prospettiva laica suona più o meno così: quanta responsabilità abbiamo nelle vite degli altri? Tanta, se non sosteniamo la predisposizione degli strumenti necessari per sanzionare le discriminazioni e le violenze ai danni di gruppi di persone che vi sono particolarmente soggette. Non prendere una posizione netta ed esplicita contro la violenza ci rende corresponsabili di quella violenza. È una responsabilità diversa da chi la compie in prima persona, questo è evidente, ma è pur sempre una responsabilità. Perché ci sorprendiamo e ci indigniamo se alcuni ragazzi nel parco assistono al pestaggio di una dodicenne con disabilità senza intervenire? Noi non stiamo facendo la stessa cosa? Pensiamo davvero di essere innocenti?
Vedi anche:
Simona Lancioni, Le associazioni di persone con disabilità promuovano l’approvazione del DDL Zan, «Informare un’h», 21 aprile 2021.
La multidiscriminazione delle donne con disabilità. Kit informativo rivolto a donne con disabilità, famiglie, associazioni, operatrici e operatori di settore, strumento prodotto dalla FISH – Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap. Disponibile anche in linguaggio facile da leggere e da capire.
I diritti escono dall’armadio. Kit informativo rivolto a persone con disabilità LGBTQ+, famiglie, associazioni, operatrici e operatori di settore, strumento prodotto dalla FISH – Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap.
Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “La violenza nei confronti delle donne con disabilità”.
Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “Donne con disabilità”.
Ultimo aggiornamento il 24 Maggio 2021 da Simona